AUTUNNO DADAISTA 2021: SPORT, SPOT E SPORTSWASHING

Taccuino dadista d’ottobre, un po’ qua e un po’ là, adatto ma non troppo
a tempi così isterici da consigliare – ad alcuni (confusi o solo ignoranti?) – il grin pass.
E’ una barzelletta paranoica, niente affatto divertente: i Godoari scendono dalle valli e si materializzano obsolescenti.
Meglio un bel messaggio nella bottiglia: magari senza scolarla prima.

1

Il calcio, che nel senso novecentesco è defunto da mo’, la cerimonia funebre sarà al Mondiale di Dubai, rimane un fenomenale vettore politico.
Se ha qualcosa di “Salò”, la repubblica nazifascista e il film di Pier Paolo Pasolini, osservare un ultrà pluri-daspato sobillare la folla (confusa o solo ignorante?) in difesa della Costituzione a Roma, la visione dei tifosi del Newcastle United che festeggiano l’arrivo dello sceicco va oltre l’immaginazione di un Dennis Potter.
Lo sceneggiatore geniale di “The singing detective”.
Colui che, a pochi mesi dalla sua morte, nel 1994 in un’intervista (testamento) chiamò il proprio cancro “Rupert”, definendo Murdoch il più devastante veleno mediatico apparso in Gran Bretagna.
A vedere il paese (disastroso) post Brexit di Boris Johnson, e andassimo oltre con il pattume yankee Fox News e il monopolio aussie dello squalo, Potter fu preveggente.

2

Il fondo saudita di Mohammed bim Salman Al Sa’ud si compera il Newcastle United con la mancia al cameriere (350 milioni di euro).
Il Public Investment Fund vale, più o meno, 430 (!) miliardi.
Siamo a dieci volte la ricchezza di Mansour (Manchester City, Emirati Arabi) e cinquanta quella di Nasser Al-Khelaifi (PSG, Qatar), il padrone del giochino oggi.
La Premier League e il calcio sono ormai il trionfo dello sportswashing, si ricicla ogni cosa.

3

L’aspetto più surreale della faccenda – oltre gli omicidi dei giornalisti scomodi – è la querelle araba.
I sauditi considerano da tempo il Qatar, oltre che filoiraniano, finanziatore dei terroristi.
Storie tesissime che debordano – al solito – nel foot.
La Premier, fino a ieri, non si vedeva in Arabia Saudita per il bando al colosso BeIN, il network televisivo di eventi sportivi, la creatura di Al-Khelaifi. Laggiù, e non solo lì, l’emittente pirata beoutQ (localizzabile a Riyad)
è stata la testa di ponte per bucare (..) le trasmissioni BeIN Sports e vedere le partite.
Abbiamo il sentore che, tra non molto, un’eventuale semifinale di Champions League tra PSG e Newcastle assumerebbe le parvenze di un Pakistan contro India nel cricket.

4

Tadej Pogacar vince il Lombardia facendo Pogacar, malgrado fosse – all’incirca – al 90 per cento di quello che era quest’estate.
Il bordone comunque non cambiava, come due anni fa alla Vuelta – verso Plataforma de Gredos – quando partì a 40 chilometri dal traguardo.
Stavolta, prima di Bergamo, scattava ai meno 36: bastava una progressione sul Ganda, mezzo minuto di vantaggio, per mettere in frigorifero la classica delle foglie morte.
A dispetto di Fausto Masnada, degli altri Grandi che lo rincorrevano ma non troppo.
Fuori categoria, a 23 anni.

5

Uno sport che si può permettere Pogacar, Wout van Aert e Primoz Roglic, protagonisti di tre stagioni stellari, sta bene.
Aggiungiamo Julian Alaphilippe e Richard Carapaz (principe dei sottovalutati) in uno scenario che prevede anche Mathieu van der Poel e Remco Evenepoel.
Noi l’amarcord per gli anni Novanta ce lo risparmieremmo.

6

Veline wikipediste avvisavano del primato dello sloveno dell’UAE Emirates.
Solo Eddy Merckx come lui, con il Tour e la Doyenne più il Lombardia nel sacco: era il 1972.
Nel libro dei record, dei vincitori di un Grande Giro e due monumento nello stesso anno, ci rientra anche l’immancabile Fausto Coppi dell’incredibile 1949.

7

Peccato che la definizione di “monumento” sia stata inventata nel nuovo secolo e quelli come Coppi, Henri Pelissier, Alfredo Binda, Rik Van Steenbergen, ecc., non lo sapessero (sic).
Avrebbero dovuto usare la macchina del tempo di H.G. Wells..

8

La realtà storica è che, nelle montagne russe delle altre gare di altissimo livello, il ciclismo pro girava (e gira) intorno a
Milano-Sanremo, Parigi-Roubaix e Giro di Lombardia.
Fino agli anni Cinquanta, la Ronde – chiedendo scusa a Fiorenzo Magni – valeva il Giro della Provincia di Reggio Calabria.
La Doyenne, per qualche tempo, fu meno importante della gemella Freccia Vallone.
I monumenti erano tre, non cinque: e i Grandi Giri, almeno fino agli anni Sessanta, erano due.
Senza far notare quanto siano stati prestigiose, nel corso delle varie ere, classiche come la Parigi-Bruxelles, la Bordeaux-Parigi, il Campionato di Zurigo, il Gran Premio delle Nazioni.
A tal proposito, non abbiamo bisogno di Nostradamus per preconizzare l’ascesa delle Strade Bianche in questo novero.

9

Per realizzare quanto siano fragili le definizioni di “più grande” o “più forte”, in uno sport che ha un secolo e mezzo di storia (storie), potremmo aggiungere che solo Fostò è stato iridato su pista (due volte, nell’inseguimento) e stradista Campionissimo.
Il collegamento è semplice: i Mondiali di Roubaix sembrano un salto all’indietro, agli Cinquanta e Sessanta, quando i pistard italiani erano i capintesta del settore.
I due quartetti, le Madison, Martina Fidanza, Letizia Paternoster, i simboli della rinascita (Elia Viviani, Filippo Ganna, Elisa Balsamo).
Con l’assenza di alcune superpotenze (l’Australia..) l’effetto valanga è (era) assicurato.
Fino a Parigi 2024, il banchetto (anche il carro su cui saltare..) è azzurro.
Poi, toccherà ai Federali erigere un sistema che copra i vuoti di sceneggiatura di tecnici e atleti (atlete) eroici (eroiche).

10

La Roubaix autunnale, quella del Velodromo all’aperto, è stata favolosa.
Soprattutto per noi, sadici dal divano: Arenberg pareva l’83 o l’85, le pozzanghere sembravano delle fosse di liquame marrone.
Tutti a blocco, fin dall’inizio, Sonny Colbrelli vince la gara della vita quando anticipava da lontano – alla chetichella – l’attacco di un magnifico e irrazionale Mathieu van der Poel.
L’Inferno al suo massimo di bellezza, fango ed echimosi e forature, è lo sport che cancella il tempo.
Che non ha bisogno di una narrazione sopra le righe, si ammira e basta.

11

Quella domenica, in un contrasto di colori (e di senso) assoluto, c’era pure l’ATP 250 di Sofia. La Roubaix è lo sport che rende inutile la televendita, essendone l’espressione più alta (tecnica, storica e spettacolare).
Sofia, una finale giocata in un forno a microonde spento e vuoto, è lo sport che dobbiamo svendere per far quadrare i conti e far girare dindi.
Un esercizio finanziario e televisivo e basta.
A dispetto della caratura da top, in divenire, dello Jannik Sinner di turno.

12

Riuscire a conciliare i due aspetti fondamentali dello sport – contenuti di qualità e denari – è il presente del futuro prossimo sportivo.
Stupido, e controproducente, fingere che meritino le stesse attenzioni.
Il Giro di Croazia, la Kremlin Cup, le supercoppe calcistiche e cestistiche, i paralleli dello sci, le maratone da quattro soldi, sono cronaca e basta.

13

Torna il Tour de France donne, nel 2022, cadeau della munifica (..) ASO.
Il percorso è mediocre e si spera che il Giro rosa rimanga l’evento che è, ovvero l’unica grande corsa a tappe femminile.
Le parole sprezzanti di Patrick Lefevere sul movimento e le sponsorizzazioni (“Le donne? Non facciamo assistenza sociale..”) raccontano parecchio del santone belga, vero reuccio e Uomo Nero del ciclismo di lignaggio (altro che Dave Brailsford..), e nascondono la trasformazione – delicata – dell’ambiente.
Che, nell’evo che ci porterà dalle olandesi, da Marianne Vos, alla prima generazione di un plotone tutto professionista (con le due Elisa – Longo Borghini e Balsamo – a guidare un ottimo gruppo tricolore), è nel mezzo del guado.
O accade adesso, e l’UCI Women’s World Tour diventa una sorta di WTA, oppure il limbo diventerà la dimensione di quell’universo.

14

Accade che l’UAE Emirates annunci la creazione del comparto femminile e qualcuno, Phil Lynch dell’ISHR (Servizio Internazionale dei Diritti Umani), faccia notare la contraddizione: negli Emirati Arabi Uniti il ruolo sociale della donna è prossimo allo zero.
Si fa invece politica (medievale) col suo corpo: è sportswashing pure quando – con le briciole della tavola – si pagano (centinaia di volte meno di un calciatore) delle atlete occidentali.

15

Curioso il battibecco, e le reazioni liquide da villaggio globale, tra Max Rosolino e Federica Pellegrini.
Rosolino, in un’intervista, dice la sua sull’ambiente del nuoto: nulla di sconvolgente, cose condivisibili (e conosciute).
Oltre la replica della Pellegrini via twit (“A qualcuno rode il c**o”), servirebbero altri mezzi (culturali e mediatici) per comprendere che la popolarità di un (grande) campione (campionessa) viene decisa dall’appeal – dal rumore – che il campione stesso produce.
Qualsiasi considerazione tecnica va a farsi benedire di fronte a questo fattore x (sic).
Pellegrini, la numero uno del nuoto tricolore, è un personaggio extrasportivo: il pubblico la conosce per gli spot, le apparizioni televisive, il gossip.
Lo sport, in questo caso, è solo un mezzo – magari più meritocratico – per raggiungere altro.
Quest’estate però, a Tokyo, il punto di non ritorno: Pellegrini veniva celebrata a dispetto della realtà agonistica, che anzi si alterava (edulcorava) come in un romanzo.
Il problema è poi la percezione generalista di questi personaggi: andando oltre le parole di Rosolino, spiegare che Pellegrini – un fenomeno (anche di longevità) – non è stata la migliore atleta di sempre (e poi chi se ne frega..), un’ovvietà a rileggere la storia dello sport italiano, assume le sembianze quasi di un sacrilegio.

16

Il ritiro di Pau Gasol ci ricorda – con il tasto rewind – più di vent’anni di pallacanestro ai massimi livelli.
Per noi Gesù (..) comparve, bucando le frequenze dei sat d’allora, nell’ACB 2001: un’apparizione, che ogni partita aggiungeva qualcosa a un potenziale che pareva (era) illimitato.
Chiuse i playoffs della Liga da primattore assoluto.
A 20 anni era già, nel vecchio continente, il lungo più forte da noi ammirato dopo Arvidas Sabonis: un controllo del gioco, della sua inerzia, che apparteneva all’elite appunto dei Sabas, Cresimir Cosic, Vlade Divac.
La benedizione di Jerry West, che lo scelse altissimo (numero tre) per le usanze dell’epoca (di un prospetto europeo), lo portò a Memphis.
Il resto è storia.
Poche balle: giocava alla pari contro Tim Duncan e Kevin Garnett all’apice, nell’evo che registrò la più clamorosa concentrazione di talento nei quattro.
Vederlo nella Triangolo, dialogare con Kobe Bryant e Lamar Odom, è stato un privilegio.
Gasol fu un passaggio epocale nella globalizzazione del basket: dopo lui, progressivamente, l’Eurolega divenne un’altra NCAA.
Dagli anni Dieci, i superdotati fanno un giro sulla giostra della Devotion, forse due, e poi firmano per l’NBA.

17

Ogni tanto ci si ricorda che sono almeno tre i regolamenti nel basket.
Forse quattro.
In attesa di comprendere quello che accadrà col cambio di regola, nell’NBA, sui movimenti offensivi alla Trae Young (James Harden), sarebbe interessante vedere – in Eurolega – qualcosa di simile.
Per esempio sul fallo antisportivo, abusato nei finali punto a punto: l’ultimo Panathinaikos-Fenerbahce è stato deciso da due fischi di quel tipo negli ultimi secondi del match.
A favore dei padroni di casa.
Troppe volte conviene, a chi attacca (?), rallentare e subire (ingigantire, simulare) il contatto.
Urge una correzione.

18

Un Rettenbach sontuoso – il duello tra Mikaela Shiffrin e Lara Gut è stato esaltante.. –  ci introduce alla Coppa del Mondo di sci alpino.
Toccando qualsiasi tipo di amuleto, questa stagione potrebbe essere un’annata normale.
Senza gli asterischi, le patacche, del 2019/2020 e del 2020/2021.
Ci appassiona di più la gara – per la generale – tra le fuste.
Negli slalom, Shiffrin contro Katharina Liensberger.
Nella velocità, Sofia Goggia contro Gut.
Controlleremo la pancia piena (..) di Petra Vhlova e il nuovo corso (da isolata..) di Federica Brignone.
E i progressi (atletici) di Marta Bassino e (tecnici) di Alice Robinson.
Il ritorno delle austriache.
La battuta, ma mica tanto, è che non ci dovrebbero essere – a febbraio – le Olimpiadi a Pechino.
L’ennesima rassegna a Cinque Cerchi con poco senso per il circo bianco: la terza consecutiva.

19

Fabio Sabatini, 16 anni di carriera da pesce pilota o carrozziere di un (grande) velocista (Marcel Kittel, Alessandro Petacchi, Mark Cavendish, Elia Viviani) nei pro, ha appeso la bici al chiodo dopo l’ultimo Giro
del Veneto.
Si spera che il ciclismo tricolore, in un modo o in un altro, non disperda il suo patrimonio di esperienze, conoscenze.
“Rispetto a quando ho cominciato, il ciclismo è cambiato come dal giorno alla notte. Di corridori d’esperienza ormai ce ne sono pochi, perché le squadre non prendono più i 35enni, preferiscono andare a pescare gli
junior.. E in gara si vede, perché si parte a mille e si finisce a mille, non ci sono i senatori in grado di gestire il gruppo.
E capisco benissimo che sia un ciclismo più spettacolare e che la gente si diverta di più, ma posso assicurare che non è proprio lo stesso per chi è in gruppo, soprattutto della vecchia generazione.. Secondo me si sta tornando al ciclismo degli anni 70 e 80, quando a 32 anni cominciava il tramonto di un corridore.” (tuttobiciweb.it)