Parigi 2024, vista da bambini adulti, è stato un successo bizzarro.
Maledettamente francese, pronosticabile ma non troppo (in quelle proporzioni).
Un’Olimpiade urbana, incastonata nella città, che è stata set cinematografico e scenografia di un teatro metropolitano.
I nostri primi Cinque Cerchi estivi furono Mosca 1980: malgrado Sergei Soukhouroutchenkov, sorella Sara (Simeoni) e fratello Pietro (Mennea), furono grigio topo, anonimi e militareschi.
I colori del Moulin Rouge, del Louvre, erano inimmaginabili.
Parigi 2024 indica una (nuova) via, forse l’unica percorribile se si vuole salvare il giocattolo (prodotto) inventato da Pierre de Coubertin.
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Un’edizione studiata nei dettagli, non solo coreografici, per essere finanziariamente (eco) sostenibile – 12 miliardi, la spesa – e vettore commerciale, servirà pure al CIO per orientarsi nel futuro prossimo.
Altrimenti si andrà verso Olimpiadi organizzate sempre nelle stesse sedi, magari due, a rotazione (a seconda dell’emisfero scelto), come suggerito dagli economisti specializzati.
Poiché hanno operato quasi sempre in perdita: il segnale delle due sole candidature per quest’anno, Los Angeles (l’altra proposta) si è assicurata il 2028, è significativo.
I passivi spaventosi di Atene 2004 e Montreal 1976 (che costò otto volte la cifra stimata..) insegnano.
Di carattere opposto l’esempio di LA 1984, uno dei (pochi) casi virtuosi: gli americani ci sanno fare (e lo sappiamo).
Con i Giochi da 50 miliardi di budget, il CIO si consegna invece – definitivamente: Thomas Bach è il (primo) Presidente di quel compromesso – a paesi senza democrazia, che non hanno problemi (..) elettorali.
Ai raccoglitori di perle nei cessi, quelli dell’anti imperialismo degli idioti, consigliamo la visione della torre Eiffel come panorama – uno spettacolo nello spettacolo – del ciclismo, del beach volley, della Maratona.
Ricordiamo loro che quel capolavoro di metallo fu costruito in tre anni.
Dal 1887 al 1889.
Gustave Eiffel, l’appaltatore (visionario), impiegò migliaia di operai e non ci fu un morto durante i lavori.
Per Qatar 2022, la fuffa dei Mondiali FIFA, ne abbiamo avuti 6500.
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Aggiungiamo un tema poco dibattuto, ebbene sì, a dispetto delle evidenze.
L’abbraccio (canicolare) della cella di Hadley sul Mediterraneo, i 3.1 gradi centigradi in più di quest’anno rispetto all’edizione parigina di cent’anni fa, spiega quell’iperoggetto (mostro) che chiamiamo riscaldamento globale.
Per l’Europa occidentale, ghiacciai verso l’estinzione, colpi di calore, malattie respiratorie, tumori alla pelle, mucillagini, ecc.
Uno studio di Carbon’s Plan, che prende in considerazione il microclima delle città olimpiche, considera quasi impossibili (altri) Giochi agostani – dal 2050 – a St Louis, Pechino, Rio, Atene, Roma, Tokyo, Atlanta, Seul, Barcellona..
Potrebbe diventare rischioso – per la salute – far competere gli atleti a quelle temperature.
Settembre e ottobre diventeranno le date dell’evento?
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A noi non frega nulla del colore della pelle di un atleta, di un uomo.
Nemmeno ci importa che sia italiano, tedesco, malese o australiano.
Lo sport è cultura, dunque un insieme (complesso) di linguaggi, gesti, storie, tecniche: i decibel, i titoloni sgangherati, i richiami a un’appartenenza biologica (errata, scientificamente) deviano dall’essenza dello sport.
Che non è bello o brutto, va – nietzschianamente – al di là del bene e del male.
Le bandiere sono lenzuola colorate, gli atleti sono fatti di sangue, ossa e muscoli.
L’evidenza, drammatica, è che il pigmento della pelle e un passaporto intestato sono ancora (formidabili) armi propagandistiche.
Destra o sinistra.
E sta diventando un arnese politico pure la sessualità.
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Che il caso costruito attorno a Imane Khelif e Angela Carini, grancassa sputnik-X-infowars di bassa lega, produca tutte quelle tonnellate di meme virali e articoli è un segno dei tempi.
Che chi commenti non conosca le dinamiche che muovono l’IBA del fascista ruzzo Umar Kremdev, ometto Gazprom, denota il ritardo culturale di chi quelle informazioni (bacate, ipofeniche) dovrebbe vagliarle.
I media innanzitutto, poi il pubblico.
La guerra ibrida è una realtà violenta da un decennio, dal 2014 (l’anno di Sochi), i mezzi di produzione di contenuti, con il perfezionamento dell’AI, diventeranno sempre più invasivi e pericolosi.
E’ un conflitto psichico, digitale, poi militare (sul campo): ce l’avevano preconizzato gli apocalittici del Novecento.
Lem, Huxley, Debord, Caceres, Dick, Burroughs, Baudrillard.
I Giochi Olimpici servono anche a testare i modelli cognitivi.
Continuiamo a non comprendere la direzione degli alisei: lo spettacolo della contestazione nutre, ingrassa, il tecnofascismo.
L’abiura all’immagine e allo slogan senza pensiero, il boicottaggio sistemico agli Elon Musk, lo riduce all’impotenza virale.
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Il sincro di Chen Yuxi e Quan Hongchan, nella piattaforma da 10 metri femminile, è l’attimo cinematico di Parigi 2024.
Ombre reciproche, simmetriche, una dell’altra, si dissolvono insieme nell’acqua della piscina.
In quei (pochi) secondi, le due cinesi fanno sparire le migliaia di ore di prove, allenamenti, imperfezioni.
Parrebbe tutto così naturale e semplice.
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Pensiamo che nessuno abbia vinto un concorso internazionale, di salto, con quattro tentativi (riusciti).
La gara dell’asta, grazie a Sam Kendricks, Emmanouli Karalis, Ernest Obiena, è stata di altissimo livello ma lui – Armand Duplantis – arriva da un altro Mondo.
Con Tadej Pogacar, oggi, il più grande atleta contemporaneo.
Perché interpreta una disciplina, stabilendo un nuovo standard: il prossimo.
Figlio cosmopolita di una famiglia votata all’atletica, nei prossimi anni alzerà ancora l’asticella: della misura, della performance pura (che è la più complessa di tutte, nello sport).
La rincorsa di 45 metri, 20 passi, da velocista (10″5 sui 100), l’impatto e lo stacco estremi (forza l’asta al limite nel pertugio: la schiena viene caricata a mille..), l’equilibrio, la capovolta in volo.
Un fenomeno all’apice della sua espressione tecnica e agonistica.
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La Maratona olimpica ha consacrato l’era postmoderna della specialità.
Che è diventata – finalmente – uno sport professionistico a tutti gli effetti: campo larghissimo, globalizzata, remunerata, sponsorizzata.
Se l’impresa zatopekiana di Sifan Hassan, la domenica, ne suggella il (nuovo) format, la gara maschile evidenzia le dinamiche di questo passaggio (storico).
Tracciato durissimo, inedito per un’Olimpiade o un Mondiale, simil New York: due salite spaccano la corsa, affrontata subito a ritmo folle.
Sul secondo dislivello, una cote ciclistica con uno strappo al 13 percento, Tamirat Tola impone la sua legge.
Falcata sciolta stile tapis roulant, ai 30, si invola verso l’oro.
Era alla partenza, uno con un Mondiale (2022) e New York (2023) nel palmarès, per il forfeit di Sisay Lemma.
Dietro, a debita distanza, Bashir Abdi stacca Benson Kipruto, quarto il rimontante Emile Cairess su Deresa Geleta (arresosi allo scatto di Abdi), sesto il sorprendente Akira Akasaki (notevole nella discesa, ripidissima e atipica).
Più che il tempo, eccezionale, di Tola – 2 ore 6’26” – sono i sette corridori sotto le 2 ore e 8 minuti a certificare la qualità della gara.
Folla, competizione stellare, l’Hotel des Invalides come sfondo.
Nelle retrovie, Eliud Kipchoge si ritira proprio ai 30, 8’28” dopo Tola: aspetta l’ultimo e regala scarpe, dorsale e maglietta al pubblico.
Allo start si era salutato con Kenenisa Bekele, che ha concluso trentanovesimo.
Ricordando (le tragedie di) Kelvin Kiptum e Samuel Wanjiru, finisce definitivamente un’epoca.
Che ci ha portato a una Maratona – iper professionistica – concepita come quattro sequenze di 10000 metri, 250 chilometri alla settimana.
Un circuito di grandi eventi, con le classiche (Boston, New York, Londra, Berlino..) per la gloria ben retribuita e la Spagna (Valencia, Siviglia) per i primati personali.
L’alimentazione e le scarpe, le suole in carbonio (si dice con un guadagno di 2-3 secondi al chilometro), a spostare la frontiera sempre più in là.
A proposito: le Adidas di Tola, Kipruto e Cairess, le Adios Pro Evo 1, costano 500 euro..
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Nel nuoto, Parigi è forse stato solo (..) il quarto episodio della saga di Katie Ledecky, che a Los Angeles potrebbe staccarsi – statisticamente – da tutte le atlete olimpioniche.
Un unicum, negli 800 e nei 1500 stile libero, per longevità, continuità, che cancella anche alcuni stereotipi sul campionismo.
Una campionissima nata ricca, senza motivazioni extra che fanno tanto “occhio della tigre”, ovvero fame e fama.
Ledecky e la velocista Sarah Sjostrom, a dispetto dell’evoluzione che corre velocissima, non solo in vasca, non sembrano replicabili.
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Eppure Parigi 2024, in acqua (e cloro), è stata soprattutto di Léon Marchand e di un poker di vittorie mai realizzate prima.
La versatilità e le doti di recupero del francese, straordinarie, hanno avuto il suo manifesto nei 400 misti, dominati con un vantaggio – 5″67 – mostruoso.
In questo caso, al contrario degli usi e costumi di altre parrocchie, nessun vayerismo è stato espresso dai media (generalisti e non).
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Remco Evenepoel domina, finalizza a modo suo, la prova su strada del sabato del villaggio.
33 chilometri da litorina, prima accompagnato, poi con Valentin Madouas a ruota (che provava a far Sonny Colbrelli a Trento 2020), infine solo per dispersione.
Pareva la replica di Wollongong 2022.
Piccolo capolavoro tattico dei francesi, alle spalle del freak belga.
Che sarà, e forse già lo è, il rivale generazionale di Pogacar.
Qualche considerazione sparsa.
90 iscritti, con rappresentanti di nazioni ciclisticamente irrilevanti, in una kermesse lunga 273 chilometri, non raffigurano una vera classica.
32 chilometri per la crono maschile è roba da dilettanti, su quel profilo piatto poi..
La contesa in linea è stata – prevedibilmente – la ventiduesima tappa del Tour, che non mente mai (non solo Remco, ma Ben Healy lo ha dimostrato).
Il Mathieu van der Poel di luglio non era parente di quello visto a marzo e aprile.
Belgio strapotente, Tiesj Benoot MVP ombra del pomeriggio, e Wout Van Aert decisivo in marcatura su MVDP: con le maglie di club, avremmo visto un film differente.
Facciamo gli auguri, per il futuro, al selezionatore Sven Vanthourenhout: incombono pure Thibau Nys e Arnaud De Lie, metterli tutti d’accordo sarà una pièce di Eugène Ionesco.
Non che ci abbia sorpreso quel colpo d’occhio: Montmartre, Moulin Rouge, Sacro Cuore, un pubblico straripante, un milione sull’anello finale, e la foto con la torre Eiffel.
Ciclismo, in Francia, numero uno pop.
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Quelli che paragonano il doppio oro di Evenepoel al double di Pogacar, posino il fiasco di vino mezzo vuoto.
L’uno-due a Cinque Cerchi era già nell’oroscopo a Sydney 2000.
Quel mutante di Jan Ullrich, col DRS nella prova su strada, perse la crono perché corse nella batteria conclusiva.
Che beccò il vento contro, al pomeriggio, nel tratto finale sul mare, favorendo chi partì qualche ora prima.
Vjaceslav Ekimov, fortunello, precedette il Kaiser di 8 secondi.
Il ciclismo, sport professionistico europeo per eccellenza, non ha avuto bisogno delle Olimpiadi per edificare un immaginario proprio, leggendario.
Ronde e Roubaix vinte con la maglia arcobaleno addosso, van der Poel docet, sono un’impresa più grande del dittico di Evenepoel.
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Lo spuntino col bicarbonato di sodio, due ore prima della competizione, sta diventando un rito in molti sport.
Introdotto dalla solita Visma (Jumbo), tempo fa, prese spunto dalle ricerche di Andy Sparks, un ricercatore di Liverpool, sulla sua funzione performante.
Il bicarbonato di sodio tampona la produzione di ioni e prolunga la resistenza allo sforzo.
La Maurten, un’azienda svedese, produce un gel che bypassa l’intestino e combatte l’acido lattico, si chiama Bicarb System.
Nell’atletica del fondo e del mezzofondo impazza: testimonial numero uno, Keely Hodgkinson.
Tutta questa ricerca si integra con l’interval training, una ricerca ossessiva dei materiali, ecc.
I 180-190 chilometri alla settimana, tra ripetute e sessioni sopra la soglia aerobica, di Jakob Ingebrigsten.
Che poi corre – col gambone – la finale dei 1500 metri tutta in testa, come un amatore allo sbaraglio, e tira la volata ai suoi avversari.
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La domanda senza risposta è sempre la stessa.
Quarant’anni fa, a Los Angeles, Edwin Moses vinse di giustezza il suo secondo oro olimpico sui 400 ostacoli.
Senza il boicottaggio del 1980, sarebbe stato – a occhi chiusi – il terzo: le cifre contengono sempre una bugia.
Chiedersi cosa avrebbe fatto un fuoriclasse assoluto, uno fuori dal (proprio) tempo, in questo sport ultra avanzato non è bar sport.
Avrebbe svettato, oggi, perché il freak si adatta meglio degli altri, di quelli che sono campioni e basta, ingabbiati nella loro era, ai cambiamenti.
L’azione muscolare di Karsten Warholm, di forza bruta, calante, la sera della finale persa contro Raj Benjamin, ci semplifica questa idea.
Warholm non è Moses, nemmeno quando ne batte i primati cronometrici, e neanche Sydney McLaughlin.
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La staffetta 4×400 metri femminile è stata un assolo durato 3’15″27.
La superiorità delle americane, e dietro rincorrevano Femke Bol e Lieke Klaver, un poster di questa atletica, efficiente e sexy.
Una super squadra, le punte McLaughlin e Gabrielle Thomas, regali, ha dato 4″23 di distacco al resto del mondo, ed è arrivata a un decimo dal record.
Che risale al 1988, Seul, e all’Unione Sovietica: i pantaloni corti di allora non giustificano nostalgia per quel periodo cyberpunk, già robosport pieno, che ebbe un’accelerazione farmacologica inenarrabile (in quella staffetta c’era anche la povera Florence Griffith).
La nuova carne, che ci sbalzerà negli anni ’90, degli esperimenti ormonali – tra Frankenstein e Mengele – ci ricorda un aneddoto del vecchio lupo di tartan, adesso commentatore Eurosport, Giorgio Rondelli.
Che a un meeting internazionale – nei ruggenti anni ’80 – premiò una gara pesistica femminile con un podio tutto europeo dell’Est.
Medaglia, stretta di mano e bacio, inno.
Considerazione con l’altro delegato, allontanandosi dalla cerimonia: avevano tutte un filo di barba..
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Gabby Thomas, tre ori tre, laureata ad Harvard, neurobiologa, un master in “Public Health” (sanità pubblica) alla Texas University.
Si allena, fa volontariato in una struttura per persone senza copertura sanitaria e – bellissima – sembra Diana Ross.
Babbo giamaicano, prima di scoprire la pista giocava a calcio e softball: si appassionò all’atletica vedendo – in tivù – correre Allyson Felix.
E della Felix, per eleganza e polivalenza, è la degna erede.
Finita la carriera sportiva, Thomas sogna di aprire un ospedale con cure gratis per tutti.
La realtà, a volte, è un (bel) film.
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I due numeri di Nadia Battocletti, nel mezzofondo lungo (..), sono il momento più alto dell’atletica tricolore a Parigi 2024.
Più il quarto posto nei 5000 metri, con tanto di spallate tra africane, che l’argento (a 5 metri da una vittoria clamorosa..) nei 10000.
Il suo 2’33” nella scia di una dominante Beatrice Chebet (e di Faith Kipyegon e Sifan Hassan), l’ultimo chilometro, esprime una qualità – nel cambio di ritmo – che potrebbe farla migliorare ulteriormente.
I 10000, con 9 chilometri di trasferimento, e gli ultimi 1000 a 2’43”, non hanno avuto lo stesso valore tecnico.
Fuori dal giro federale, allenata dal padre Giuliano (fondista pure lui), Battocletti – 24 anni – ha davanti un quadriennio dove diventerà l’europea di riferimento della specialità.
E chissà cosa combinerebbe, programmandosi, sui 42 e 195.
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C’è qualcosa di romanzesco, avventuroso, nella sincronicità – opposta (ma non troppo) – delle due Madison azzurre.
L’improvvisazione (jazzistica) di Chiara Consonni e Vittoria Guazzini, che a 28 giri dalla fine si sono prese l’oro sfruttando la melina delle (favoritissime) britanniche.
Il cambio sbagliato, uno sui mille eseguiti bene, tra Elia Viviani e Simone Consonni, in testa all’americana a 22 giri dalla conclusione, che li ha consegnati all’argento.
Col bronzo della banda di Pippo Ganna, nell’inseguimento a squadre, la pista italiana continua a regalare medaglie malgrado la carenza di strutture e di investimenti.
Marco Villa, al pari di Toro Seduto, il cittì di una riserva indiana.
E federali e media manco si vergognano più.
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Torneo di palla con estro senza sorprese.
Una Summer League di lusso: se a Barcellona 1992 i giocatori NBA extra USA erano 9, nel ’24 sono stati 61.
Un gioco globale, con la quantità che rimarrà sempre americana e la qualità sparsa, a macchie di leopardo.
La Germania, migliore esecuzione tattica 2 way, legno, meritava di più.
Delusione cocente per Team Canada, che paga anche il declino fisico – evidente da un po’ di mesi – di Jamal Murray.
Avengers piacioni, anche troppo, ma forti forti (quando contava).
I tre di Cocoon, LeBron James, Kevin Durant e Steph Curry, irreali per superiorità (arroganza) tecnica.
Il 27 su 30 al ferro di James, inspiegabile se unito al 41 percento di contributo – in assist – ai canestri “flamboyant” di Curry: 38 dei 98 punti di Stephen erano su passaggi di LeBron.
Akron connection.
Tra quattro anni, considerando il cambio generazionale, una Francia potrebbe fare il colpaccio a casa loro.
Poi il pendolo ritornerà, probabilmente, negli States: ai Mondiali under 17, i bimbi americani in 7 partite hanno dato 450 punti di scarto.
Si prospetta una class of 2026, al draft, promettentissima.
AJ Dybantsa, Keo Peat e i gemelli Boozer su tutti.
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La vittoria dell’Italia rosa nel volley, un dominio, chiude un cerchio con la storia stessa della pallavolo italiana.
Trent’anni dopo i due match maledetti con gli olandesi, Julio Velasco compie un’altra impresa, l’ennesima.
Il fatto che al suo fianco ci fosse, in panca, Lorenzo Bernardi e il giorno prima Andrea Giani avesse vinto coi (suoi) bleus, fa un po’ blockbuster di Hollywood.
Per lo sport femminile, una data paragonabile al 23 marzo 1975 del Parallelo della Val Gardena o addirittura all’11 luglio 1982 della serata trionfale al Bernabeu: in tedesco si dice zeitgeist.
Velasco ha avuto l’intelligenza di mettersi a fianco Massimo Barbolini, tattico sopraffino, responsabilizzando atlete fortissime ma divise fra loro, a pezzi dopo il disastro dell’Europeo.
Il successo smonta anche lo stereotipo, duro a morire, sul gruppo: nello sport e nella vita, si possono raggiungere i massimi traguardi senza essere amici (amiche).
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“Oggi le Olimpiadi hanno vissuto la loro più grande sconfitta nella loro storia pagana.
Oggi è la vittoria della Croce del Signore sul Cavaliere dell’Apocalisse, che alla sacrilega apertura dei Giochi a Parigi, guida tutte le nazioni.
Una piccola croce sulle spalle del più grande cavaliere di oggi.
N***k D******c, risveglia il sangue di Nemanjic che scorre nelle vene delle persone più piccole ma più forti che hanno vissuto e vivono sul globo della terra.
Oggi il nome di Dio si celebra nel bel mezzo della cucciolata di Satana con la canzone Dio Della Giustizia!
Oggi il Santo Vangelo si è compiuto nelle parole del Salvatore: Non aver paura piccolo gregge perché ho vinto il mondo.”
(Tenore dei commenti sui giornali panslavisti, lunedì 5 agosto)
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I Giochi, essendo un pezzo importante della cultura pop, regalano anche momenti di catramatura o pattume involontario (?).
Difficile assistere a una cosa più brutta della finale donne di basket, il bis di States contro Francia.
Mister Pressing, che non ha visto il semianalfabetismo del linguaggio inclusivo, si sarebbe divertito a commentare – coi pallini – l’incredibile (..) primo tempo.
Un ciapanò di proporzioni bibliche, 16 su 65 dal campo – in 20 minuti – per un eloquente .246.
Più che promozione di un gioco, in questi tempi di esposizione continua, ossessiva, certi spettacoli sono accanimento terapeutico.
Paura e delirio e pallinfaccia a Bercy.
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Lasciando perdere quella baggianata della break dance, felici che nel 2028 arrivino – era ora.. – cricket e lacrosse, i Giochi sono soprattutto la ribalta di specialità come il decathlon (eptathlon) e la Marcia.
Tradizioni relegate in un angolo dell’atletica leggera, fuori dal cartellone principale, di richiamo, che esprimono talenti assoluti come Nafi Thiam.
La Marcia poi si arrabatta, per non essere cancellata dal programma, con format pasticciati stile la staffetta mista.
Un gran casino, con le sospensioni a tempo, ad aumentare la confusione di uno sport che – con quasi un secolo di storia olimpica alle spalle – non ha ancora trovato una tecnologia per certificare lo sbloccaggio e il contatto col terreno.
Difatti Brian Pintado, il vincitore della 20 km, in alcuni tratti correva..
E’ stata l’ultima Olimpiade di Sandro Damilano, decano della Marcia allenata e insegnata.
A Parigi era coi cinesi, la (sua) campionessa Qieyang Shenjie, ed era all’undicesima Olimpiade.
Classe 1950, 52 anni di allenamenti cominciati coi fratelli Maurizio e Giorgio, in quel di Scarnafigi: collegandoci all’incipit, a Mosca 1980, vedere Maurizio Damilano sbucare dal tunnel dello Stadio Lenin – guardando una tivù in bianco e nero – fu un’iniziazione allo sport.
Sandro ne ha viste di tutti i colori, allenato un’ottantina di atleti, ed è un’enciclopedia vivente della Marcia.
Ci si augura che completi il suo “100 Years of Race Walking”, una specie di vangelo statistico, tra un giro in bici e una gara a bocce.
Lo sport è stato fatto, e sarà fatto, soprattutto da quelli come lui.
Il resto, il divismo, è solo mancia.