La scorsa settimana ci siamo imbattuti in una foto in bianconero di Sugar Richardson e la retroazione è stata immediata.
Amarcord.
Una delle cose migliori della rete è il poter ripescare documenti del passato (remoto).
Avevamo un ricordo sfuocato dello Zucchero americano, al contrario di quello – nitidissimo – dei suoi giorni italiani.
Non è difficile raccontare chi è stato Micheal Ray, il problema risiede nella (nostra) mancanza d’immaginazione.
Richardson entrò nella NBA in silenzio, proprio lui che sul campo faceva più rumore di tutti, e ne uscì impazzito sette anni e mezzo più tardi, dalla porta di servizio.
Ai New York Knicks, con il sulfureo Ray Williams, costituì una delle coppie di guardie più eccitanti della lega; l’alternativa orientale ai ghepardi in gialloviola Magic Johnson e Norm Nixon.
Per far capire l’antifona, Williams, un fenomeno, si sarebbe autodistrutto fino alle conseguenze più estreme, la bancarotta e il vagabondaggio.
Lo Sugar degli esordi, un funambolo, forniva la corrente elettrica al Madison Square Garden intero: forse tutto ciò era troppo.
Il pomeriggio o la sera era il miglior swingman del pianeta, la notte arrivavano lo Studio 54, lo champagne, le donne e la cocaina.
Si mise a chiedere, ogni maledetto mese, un aumento dell’ingaggio per innaffiare quello stile di vita folle.
New York, intuita la china, lo spedì sulla Baia – in quel di Oakland – in cambio di Bernard King.
1982, nel sottobosco si bisbigliò: in teoria due fuoriclasse, nella realtà un tossicodipendente girato per un alcolizzato.
Agli Warriors durò il tempo di un caffè (amaro) e divenne dei New Jersey Nets.
Ma la pallacanestro, per un po’, scomparve dall’orizzonte: cinque cliniche di riabilitazione in tre mesi.
Ricominciò, piano piano, dalla panchina dei Nets e poi vennero i playoffs e il primo turno contro i campioni in carica di Philadelphia.
Una serie leggendaria, con i Nets strapotenti sotto le plance (Buck Williams, Darryl Dawkins, Mike Gminski) che evidenziarono i problemi fisici di Moses Malone: il fattore campo saltò sempre, cinque volte su cinque.
Nell’ultimo quarto della bella, Micheal Ray – di ritorno dall’inferno – salì in cattedra e sbranò i Sixers e la partita.
Posseduto, su ogni pallone, attacco e difesa, si mangiò lo squadrone di Julius Erving e Big Mo.
Giocava con la rabbia, atavica, di un animale da basket che trascendeva il basket stesso: dentro quel furore c’erano la balbuzie, i pranzi saltati da adolescente, la signorina bianca che lo ossessionava.
Sugar, per almeno un anno, mantenne la promessa.
Guidò i compagni sull’ottovolante e rigiocò l’All Star Game.
Poi – Natale 1985 – sprofondò definitivamente in un buco nero.
Terza positività ai controlli e radiato, casus belli, da David Stern in persona.
Il limbo fu idealizzato dall’uno contro uno struggente, a Tel Aviv, in esilio, con Bob McAdoo.
L’Avvocato Gianluigi Porelli lo portò a Bologna, sponda virtussina, e ridivenne il padrone del Madison, stavolta quello di Piazza Azzarita.
Non abbiamo mai visto in Europa – nè prima nè dopo – una roba del genere: un extraterrestre.
Purtroppo, ogni tanto, i fantasmi, gli spettri, tornavano a bussare forte anche lungo la Via Emilia.
Nel 1990, al PalaGiglio di Firenze, la Knorr allenata da un giovane Ettore Messina vinse il primo trofeo continentale della sua storia, la Coppa delle Coppe.
Contro il Real Madrid di George Karl.
Durante il primo tempo, in un parziale alla nitroglicerina, Zucchero spaccò in due l’incontro.
A distanza di sei anni, che parevano parsec, era ancora lo stesso dei minuti decisivi allo Spectrum, di quella Gara5 sul filo.
Gli altri, avversari e compagni, sparirono: nella bolgia, con il fuoco nello sguardo, c’era solo lui.
Michael Ray incarnava una combinazione irripetibile: i piedi di un ballerino e le gambe di un centometrista.
Palleggio supersonico, diritto al canestro, e playmaking di puro istinto; viveva di prepotenza fisica e tecnica.
Fuori dai denti, quelli del backcourt del suo tempo al livello di Sugar, versatilità e istinti, erano appena tre.
In ordine cronologico di draft: Magic Johnson, Sidney Moncrief e Michael Jordan.
Richardson avrebbe continuato a giocare fino a 45 anni, ma non sappiamo se abbia mai veramente trovato casa (e la pace coi suoi demoni).
Perchè, per quelli come Zucchero, quando si spengono le luci del parquet arriva il buio vero.
“In vendita. Scarpe da bambino. Mai usate.”
Pubblicato da Indiscreto nel febbraio 2015