CANICOLA. DIARIO SPORTIVO DI LUGLIO. IL TOUR, EUGENE, WIMBY E ALTRO

2 luglio, Nyborg

I 18 chilometri del ponte del Grande Belt portano i corridori del Tour tra il pianeta e la luna.
Lassù, sospesi, il mare là sotto che sembra un vetro azzurro di Murano, con Eolo in faccia che riduce i passistoni a mo’ di frangivento per il plotone intero.
Gli scalatorini, graziati, coperti, in gita.
Finisce il Kattegat e il gruppo viene inghiottito dalla folla. E dalla follia, consueta: i 100 metri di buio morale della (vecchia) volata sono diventati almeno 5000.
L’asfalto liscio, un paio di curvacce, una dozzina giù per terra che fanno da tappo per gli altri.
Lo sprint, preso da un falsopiano in discesa, fra una spallata e una testata, se lo aggiudica Fabio Jacobsen con un’accelerazione da motorino.
Secondo l’universale Wout Van Aert (nuova maglia gialla), terzo Mads Pedersen.
Come Piero Manzoni, per Jacobsen la Danimarca è il Paradiso, questo pomeriggio.
696 giorni fa, al Giro di Polonia, a Katowice, un’altra volata in leggera discesa, l’olandese finiva all’inferno.
La codata sporchissima di Dylan Groenewegen, un traguardo piazzato così così, il volo contro le transenne e un addetto alla corsa.
Jacobsen – in un lago di sangue – si era spappolato il viso: cranio, bocca, denti, naso, orecchio, palato, un nervo della corda vocale, i polmoni danneggiati.
Cinque ore di operazione chirurgica, tre giorni di coma farmacologico e poi, il ritorno.
Alla Quickstep l’hanno aspettato, anche Florian Senechal che – in Polonia, quel dì – lo soccorse alzandogli la testa, mentre si stava soffocando.
Due angeli custodi, la fidanzata Delore e Cor Van Wanrooij, 85 anni, l’osteopata (mago) dei motocrossisti, al fianco.
I ciclisti come i gatti randagi: sette vite sette. 130 punti di sutura e 18 vittorie dopo lo schianto.

2 luglio, Wimbledon, Campo 1

Terzo turno bello, sporco e cattivo l’OK Corral tra Stefanos Tsitsipas e Nick Kyrgios.
Quattro ore che volano, con uno che la fa correre in fretta (“I’m ready to serve!” urla l’aussie), come se i rituali del robotennis non fossero legge.
Un Falchetto chiesto da Nick accende la caciara. Seguiranno un monologo dell’australiano contro l’arbitro, il suo angolo, il mondo, due pallate di Stefanos verso la prima fila, un warning contro Kyrgios – dopo la delazione di un giudice di linea – un’altra pallata di Tsitsi per centrare l’avversario, ormai nel suo ambiente naturale (il caos).
Oltre gli inchini politicamente scorretti a un nastro e un “good shot!” rivolto all’altro (che aveva sbagliato di un metro), Kyrgios mostrava il repertorio: ferro e piuma, diritti frusta (senza caricare le gambe..), rovesci morbidi, piazzati con la mano, back velenosi, soluzioni aeree e in controbalzo da fumetto.
Il tamarro, balisticamente è un freak.
Il biondo farebbe quasi sempre la cosa giusta: guadagna campo, aggredisce, varia per quel che può (sull’erba) con quei gesti ampi.
Il quarto set è straordinario, forse il momento più alto di Wimby ’22.
L’epilogo furente del tie-break, avvincente, consiglia alla BBC di non inquadrare il saluto tra i due.

6 luglio, Porte du Hainaut

Ieri, a Calais, la Manica, le coste bruciate dal sole, Wout Van Aert in maglia gialla ci regalava 10 chilometri 10 di fantaciclismo.
I 62 chilometri all’ora – di media – sui 10,8 km finali, dopo la sgasata sulla Cote du Cap Blanc Nez, nascondevano le dinamiche interne della Jumbo-Visma che tremare il mondo fa.
Primoz Roglic, quando Van Aert partiva in progressione, rimbalzava all’indietro.
La tappa trappola del pavé, la Roubaix bonsai di 157 chilometri, fa esplodere tutto.
A inizio frazione cade Van Aert, Peter Sagan (un fantasma) affonda e Mathieu van der Poel dimostra di non averne più (dal Giro).
La Jumbo va nel panico quando Jonas Vingegaard fora, qualche chilometro più tardi Rogla cade a una rotonda.
L’enfer estivo è un sabba di polvere, sassi, pubblico (un picnic tra corridori alla deriva e ammiraglie sferraglianti) e incidenti d’ogni tipo.
Tadej Pogacar, che sarebbe senza squadra, non scala giù dalla terza posizione all’entrata di ogni settore di porfido. Un mostro, con pochi eguali nella storia moderna del ciclismo.
Lui e Jesper Stuyven si mangiano l’acciottolato e gli avversari.
Dietro, Van Aert (gregarione a cottimo) salva quel che rimane di Vingegaard e delle sue speranze di classifica.
Attaccati, alla locomotiva gialla e a Christophe Laporte, con l’adesivo, Geraint Thomas, Aleksndr Vlasov, Nairo Quintana, Dani Martinez, Romain Bardet.
Davanti, quelli della fuga con un eroico Magnus Cort Nielsen, arrivano. Vince Simon Clarke, down under di Toscana, un quarto di ruota su Paco Van der Hoorne.
Roglic becca tre minuti, Ben O’Connor più di quattro.
Dylan Van Baarle, che ad aprile vinse al Velodromo, quasi 9 e mezzo. Sagan, disperso a 11’42”. Gianni Moscon, l’anno scorso (a ottobre) a un passo dalla Roubaix (poi di Sonny Colbrelli), ultimo a 29’22”.
Le facce, per essere (solo) la quinta tappa, raccontano di 3 ore e un quarto di Golgota a 48,66 orari.
L’evoluzione del mezzo, sempre più performante, i progressi nella qualità dell’allenamento, invece che semplificare l’esercizio, ne moltiplica l’intensità (folle).
La teoria del caos, che domina la prima settimana del Tour, al suo meglio.

9 luglio, Wimbledon, Centre Court

“And the Marion Bartoli Trophy goes to..”
Due milioni e mezzo di dollari alla vincente, 1290000 alla finalista, tre set, 57 errori non forzati.
Ons Jabeur, una giocatrice del 1992 sbalzata per errore nel 2022, si scioglie nemmeno fosse la panna acida che mettono sulle fragole, a Church Road.
Elena Rybakina, due cose due fatte bene, il resto mancia, porta a casa il piattone: non sappiamo se a Nur-Sultan o a Mosca.
Algida, timida, occhi blu sgranati.
Pagheremmo per leggere i pensieri di Martina Navratilova in tribuna, dopo certi approcci a rete – con la mano di ghisa – di Rybakina.
Vabbé che conta solo l’albo d’oro, ma qui stiamo ancora scavando: troveremo il petrolio?

10 luglio, Wimbledon, Centre Court

Siamo, di sicuro dal 2018, forse prima, imprigionati in The Groundhog Day.
Novak Djokovic, di regolarità e risposta (soprattutto nel parziale chiave, il secondo), vince il suo settimo Wimby e aggancia Pete Sampras.
Lo sfidante Nick Kyrgios, dopo un primo set alla Roscoe Tanner 1979, va a intermittenza, si accende e si spegne come le luminarie di Natale: regala un break, sul più bello, da 40 a 0.
Infioccando il regalo col solito sproloquio.
Le considerazioni, al termine di un torneo che sottolinea bene il cul de sac di questo tennis, andrebbero al di là delle statistiche fenomenali (e truccate) che ci ammorbano da un decennio.
E sono – da eoni – sempre le stesse. Meglio allora il cabaret.
..
Perché Jelena si è fatta vestire da un negozio di bomboniere di Belgrado?
Cliff Richard nel parterre de roi, sulla stessa poltrona di Borg-McEnroe nel 1980, è vivo o impagliato?
Last but not least, la peggiore regia televisiva dei quattro eventi slam.
Didascalie strampalate (errate), stacchi di camera contro la fruizione tecnica dell’incontro, l’ossessione del vip e del parente, replay bucati.
Non c’è nemmeno più la BBC di una volta.

10 luglio, Rotherham

Da qualche dì, come se mancasse l’offerta sportiva (di qualità), l’Europeo femminile di soccer (..) sbarella sui media generalisti.
Lo chiamiamo effetto Azzurra o Luna Rossa: pompare cogli steroidi un avvenimento – per noi – esotico, gonfiandolo di fesserie.
Noi stiamo con Mister Pressing: la promozione si fa col meglio.
Far vedere certe cose, spacciare delle biglie colorate per diamanti, non aiuta, anzi – dopo aver creato aspettative lunari – potrebbe generare una retroazione boomerang.
Abbiamo sempre vissuto queste scemenze come un affronto allo sport stesso. Perché fanno sistema: si finge di commentare qualcosa, tecnicamente (?), vendendolo e basta. Ma se il prodotto è scadente, rimane scadente: e una squadra di calcio che becca 5 reti in 35 minuti, modalità torneo pulcini, lo è.
Alla faccia della parrocchia, della Morace che faceva centinaia di gol contro delle studentesse e delle postine.
Dorothea Wierer, che è una campionessa di una disciplina di altissimo livello, mica la promuovono con questo battage.

13 luglio, Col du Granon

Tappa corta, la canicola ad accompagnare il gruppo, il Col du Galibier (dal versante giusto, quello nord) a bastonarlo e frantumarlo.
La Jumbo-Visma avrebbe un piano. Il grimaldello, il jolly, che lo favorisce è la (sua) maglia verde, Wout Van Aert.
Oggi, il corridore più forte del mondo. Metà umano, metà motore, impone anche sulle Alpi un ritmo da techno impazzita.
Pogacar, che da giorni non risparmia una pedalata, va dietro alle stilettate del connazionale Roglic e, sul tratto più selettivo del Galibier, scatta (nevrile).
Vingegaard a ruota, minaccioso, l’elastico del glorioso G Thomas e di Romain Bardet a qualche decina di metri.
Nairo Quintana, il viso ritagliato nel legno, idem con patate.
Il gigante alpino, souvenir Henri Desgrange, è brullo e assolato come fossimo in Maghreb.
Ventisei anni fa (1996), un’altra dimensione, la carovana lo percorse in macchina: c’era una bufera di neve e le transenne volavano via; i corridori (vestiti come a febbraio) nelle ammiraglie, pronti a risalire in bici dalla valle della Durance, verso l’Italia, dopo la neutralizzazione.
Nel 2022 la discesa puzza di zolfo, d’incendio (della corsa e della natura) prossimo.
Van Aert, indistinguibile dalle moto staffette, riporta sotto Roglic e David Gaudu, poi trascina la compagnia, i sopravvissuti, a manetta, ai piedi del Granon.
Davanti, ci sarebbe quel mattocchio di Warren Barguil, reduce dalla fuga. Finita la trenata della litorina verde della Jumbo, scatta (forte) l’apache Quintana.
A Pogacar è rimasto Rafa Majka: l’UAE Emirates, già deboluccia di suo, sconta pure un focolaio di covid.
Ieri a Megève, il principe – elettrico – si è speso in uno sprint sul traguardo.
Mancherebbero alcune controprove per comprendere (i limiti di) Pogacar.
Abbiamo capito che non lesina azioni dimostrative, che il caldo feroce al pari dell’alta quota non lo favoriscono e che Vingegaard – l’anno scorso, sul Mont Ventoux, con un’umidità stile sauna, lo staccò.. – lo impensierisce.
Sul Col du Granon, una salita desueta e cattivissima, con la prima metà (dura) nel bosco e la seconda (più dura) tra prati e pietre, Bernard Hinault smarrì il sogno del suo sesto Tour.
Quel pomeriggio, era l’86, col Tasso staccato sul Col de l’Izoard, fu il dieselone elvetico Urs Zimmermann (passista scalatore di vaglia, vegetariano e bipede curioso) a scavare il solco, decisivo, per la maglia gialla di Greg LeMond.
Stavolta si materializza – a modo suo (post moderno) – una specie di Grenoble-Orcierés Merlette 1971.
Il piccoletto danese, magro come un chiodo, nel ruolo di Luis Ocana. Lo spagnolo, potentissimo, prese a sberle Eddy Merckx imbastendo una crono in linea.
Jonas leggendo le viscere del Granon, una tortura, e l’andamento lento di Majka per il capitano.
A 4 chilometri e 600 metri, la frustata. Pogacar china la testa, subito, e affonda sorpassato – piano piano – da Thomas, Gaudu, Adam Yates.
Vingegaard a 6,1 watt al chilo in altitudine (2413 metri) realizza il suo potenziale: sui gpm veri, sui monti, quelli dalla pendenza costante, lunghi (35’52” sugli 11,3 km), non le rampe del garage, è il migliore del lotto.
Arrivano tutti uno a uno, contati, sfiniti, si gettano sull’asfalto, sul prato, cercano ossigeno e acqua.
1795,4 chilometri, 11 tappe e 43,250 orari di media.
“Assassini!”

16 luglio, Eugene

Hayward Field è uno stadio bomboniera, fatto dal sarto per l’atletica: Nike non scherza nella casa che Steve Prefontaine costruì.
Mondiali di decompressione dopo (la corsa affannosa di) Tokyo 2021.
E’ arrivata la generazione post lockdown (post covid non possiamo ancora scriverlo), i nuovi mutanti.
Gli States si riprendono, in gruppo, i 100.
Fred Kerley (annunciato), Marvin Bracy e Trayvon Bromell sul podio, separati da 2 centesimi di secondo.
Marcell Jacobs, telefonatissima, si ritira prima delle semifinali.
Jacobs è costruito, pezzo per pezzo: ancora due anni e mezzo fa, la sua parabola (doppio oro olimpico) ci pareva un racconto di Ursula Le Guin.
Lui e il suo staff hanno comunque fatto bingo.
Il resto, che non ci interessa ma un po’ ci preoccupa, è solo marketing.
Cambiamo le (di) gestioni, ma il bordone degli italiani in gita rimane una costante.
Vanno in tivù e dicono di puntare agli Europei di Monaco: e non si vergognano nemmeno un po’.
I 10000 gazzelle sono tattici ma non troppo.
Le etiopi fanno la gara dura per Letesenbet Gidey, team Kenya incombe (in agguato) sui talloni.
Gidey, una fuoriclasse che arriva dalla campestre e col primato mondiale dei 5000, con una progressione (sorprendente) riesce a tenere alle spalle Hellen Obiri (che dovrebbe essere più veloce) e Margaret Kipkemboi.
L’etiope sembra avere ancora margini (di crescita), classe 1998: facendo due calcoli, suggestivi, pare in prospettiva una maratoneta coi fiocchi.

21 luglio, Eugene

La classe operaia va in paradiso, in Oregon, almeno nel salto in alto.
Elena Vallortigara a 2 metri, 30 anni, vince la medaglia (di bronzo) della vita.
Davanti a lei, a 2 e 02, solo Eleanor Patterson e Jaroslava Mahuchikh (un talento); indietro, dieci anni di tribolazioni e cicatrici.
Altrove, su un tartan performantissimo, è un bel rebelot.
Nei 1500, con l’Africa dispersa, lo scozzese Jake Wightman batte Jakob Ingebrigsten e il suo ego smisurato.
Norvegesi in panne anche nei 400 ostacoli.
La falcata bossanova di Alison Dos Santos (46″29) si impone, ghepardesca.
Karsten Warholm, reduce da un infortunio, scoppia ai 300.
Tempo fa, il sire Edwin Moses aveva ribadito che le nuove tecnologie (scarpe e piste) stanno falsando il confronto storico.
Vedere Warholm forare le gambe, un’azione di forza e basta, senza gli appoggi giusti, fa capire la differenza tra un fenomeno (Moses) e un campione figlio del suo tempo.
Rimanendo al giro della morte con le barriere, Sydney McLaughlin invece abita un altro pianeta.
Una venusiana che ormai mette insieme tempi da 400 senza ostacoli (!).
Piccola Moses: la manda Bob (Kersee).

21 luglio, Hautacam

La sirena dell’allarme suona già sul Col d’Aubisque.
L’anticiclone africano, il solleone, completano lo scenario da resa dei conti.
La Jumbo – che ha la gara in pugno, anzi la stritola – è nervosa quasi quanto Nathan Van Hooydonck che alza le mani su un collega.
Pirenei brutti come Lourdes, l’asfalto bitumato che cola, le discese infide, le salite col sole a picco.
Sul col de Spandelles, sei accelerazioni sei di Pogacar lo isolano con Vingegaard, che non cede di un metro.
Lo sloveno, splendido e irrazionale, corre con la sconfitta addosso.
Si agita nella discesa, a tomba aperta, e scivola tra strada e selciato: la maglia gialla lo aspetta, scorgendo Parigi (i Campi Elisi) all’orizzonte.
Raccontano di ciclismo “d’altri tempi” per il gesto, quando – una volta – la regola era “mors tua vita mea”.
L’agguato di San Pellegrino del Giro 1955, l’esempio massimo.
Propongono (ancora?) confronti cronometrici con gli anni Novanta (quelli dei cyborg tossici) e manco si imbarazzano della loro idiozia.
I due mattatori, i duellanti, corrono paralleli a Wout Van Aert: che con gli occhiali sembra Clark Kent, ma in tutina verde diventa Superman.
La locomotiva di Herentals (luogo sacro per il ciclismo fiammingo) era andata in fuga al chilometro zero.
Finisce Pogacar, con una tirata, a 4500 metri dal traguardo, lasciando andare il pulcino giallo (..) a 3,7 chilometri.
Sono 140 km in testa, un numero mai visto al Tour e nel ciclismo dell’era moderna.
Avevamo ammirato Sergei Soukhouroutchenkov fare queste cose, ma tra i professionisti di Stato.
Il sosia danese di Macaulay Culkin si assicura la Grande Boucle sull’Hautacam.
Amarcord, Vingegaard ebbe passaggi cruciali italiani: il primo nel 2018, ventunenne, al Giro della Valle d’Aosta, quando vinse il cronoprologo che si disputò in Francia a Saint Nicolas de Véroce.
Percorso durissimo, all’insù: faceva molto caldo anche quel 13 luglio, il giorno dopo – pronti e via – fu coinvolto in una caduta collettiva e dovette ritirarsi.
Paiono passati eoni, non quattro anni.
Per comprendere, oggi, questa disciplina, bastano le immagini sue, di Pogacar, di Van Aert, di Gaudu, di Jérémy Lecroq (l’ultimo a 36’40”), che arrivano lassù alla spicciolata, magliette aperte, bocche spalancate, magrissimi.
Lo sport, l’essenza stessa, senza cazzate intorno.