SERENA SLAM E ALTRE STORIE (LITTLE MO, CHRIS E MARTINA, STEFFI, MONICA E UNA PUGNALATA)

Appuntamento con la storia a New York, all’Arthur Ashe Stadium, per Serena Williams a un passo – un solo torneo – dal completare l’agognato Grande Slam su base annuale.
Gli occhi di tutti saranno su di lei, la dominatrice di questo ultimo decennio (e oltre) del tennis femminile, che – in effetti, almeno in prospettiva storica – meriterebbe anche come suggello a una carriera clamorosa.
Mettessimo poi i puntini sulle i, analizzando l’evoluzione del gioco in gonnella, comprenderemmo che l’impresa, in sé di altissimo valore, non racconta la bravura della giocatrice ma solamente la distanza (e il livello medio) tra una grande campionessa e le sue avversarie.

LITTLE MO
Quasi al pari dei colleghi maschi, i confronti tra ere profondamente differenti (calendari, regole, materiali..) sviliscono qualsiasi veridicità statistica.
Nell’evo delle pioniere, dei gesti bianchi, la competizione – di una élite – era relativa in tutti i sensi.
Le regine che rappresentarono meglio gli anni tra i due conflitti mondiali, Suzanne Lenglen (la Divina, simulacro del tennis qualitativo) ed Helen Wills, l’epitome della fuoriclasse quantitativa, feroce, non affrontarono mai il viaggio (scomodissimo) in nave per giocare i Campionati d’Australia.
La disputa assurda tra professionisti e dilettanti (di professione..) inficiò per molto tempo il valore degli albi d’oro.
Un esempio per tutte la grande Pauline Betz, che nei Quaranta disputò un solo Wimbledon (nel 1946, vincendolo), prima di essere squalificata per aver dichiarato (!) il proposito di firmare per il circuito di Jack Kramer e Bobby Riggs.
Il Grande Slam, nell’ambito rosa, venne sdoganato dalla leggendaria Maureen Connolly, ovvero colei che annunciò – per stile di gioco e preparazione – la modernità prossima ventura.

Little Mo avrebbe ridefinito il concetto (e i limiti) del tennis femminile: vinse, giovanissima, consecutivamente, gli ultimi nove major ai quali partecipò.
Prima della caduta da cavallo (un fatto che ricorre nella mitologia di questo sport..) che le chiuse prematuramente – nemmeno ventenne – la carriera, Maureen realizzò – nel 1953 – l’annual Grand Slam.
L’ennesima eredità di una campionessa sfortunatissima, che il fato e un male incurabile portarono via nel 1969.

L’OPEN, CHRIS E MARTINA
La stagione seguente, il 1970, all’alba dell’Open, un’amazzone del Nuovo Galles del Sud, Margaret Court, replicò il filotto della californiana: primatista assoluta di titoli nel singolare (ventiquattro), interprete atleticissima a tutto campo di un gioco offensivo e potente.
Le undici corone casalinghe, tra Brisbane, Melbourne, Adelaide e Sydney, furono ottenute con una concorrenza ridotta per i problemi dei viaggi intercontinentali e l’appeal in discesa della competizione australe.
Come non citare il 1972 di Billie Jean King, dominante nelle tre prove che disputò (Parigi, Londra e New York) e che saltò proprio i Campionati down under?
Il tramonto delle prime Grandi dell’era Open (Court, King, Evonne Goolagong..) coincise con l’arrivo prima di Chris Evert e poi di Martina Navratilova: la rivalità che definì (e costruì) la WTA contemporanea.
Un duello, arricchito dalla concorrenza di stelle (filanti..) come Tracy Austin e Hana Mandlikova, che innalzò il tennis rosa a un livello superiore.
Fu forse Martina a precludere il Grande Slam annuale a Chris, di sicuro fu un’affermazione della fidanzata d’America a impedire l’exploit alla praghese al suo apice.
Una Navratilova irresistibile, che si aggiudicò ben sei major consecutivi tra Wimby 1983 e Flushing 1984, una serie incredibile (nel complesso settanta vittorie di fila!) che interruppe Helena Sukova, a Kooyong, in semi.
La cecoslovacca si sarebbe arresa, in finale, proprio alla Evert-Lloyd.
Considerando i nomi e il lignaggio, i diciotto Slam a testa in singolare di Chris e Martina, difficile trovare un’atleta più rappresentativa della Navratilova per idealizzare lo zenit del gioco.

STEFFI, MONICA E UNA PUGNALATA
Non pensiamo sia un caso che il terzo poker arrivi col declino, anagrafico, del duo che caratterizzò quasi tre lustri.
Steffi Graf, i piedi più veloci mai visti su un campo, irruppe sulla scena con la forza di un tornado.
L’annata 1988 rappresentò un unicum, al Grande Slam affiancò l’oro olimpico di Seul.
Per far capire l’antifona, quell’anno al Roland Garros – con l’eccezione del match con Gabriela Sabatini – smarrì appena undici giochi in sei turni.
Già nell’89, sempre a Parigi, le cose cambiarono: la tedesca affrontò in semifinale la quindicenne Monica Seles, soprannominata Little Mo in onore della Connolly, e si salvò al terzo parziale.
Poi, il sabato della finale, dovette soccombere alla regolarità spossante di Arantxa Sanchez.
La jugoslava, quadrumane che imponeva anticipi e ritmi vertiginosi alle contese, avrebbe scalzato la Graf e conquistato il primo posto mondiale.
Nella primavera 1993, mentre impilava un record sull’altro, a Monaco, Seles fu accoltellata da Gunther Parche, un sedicente tifoso (squilibrato) di Steffi.
Che ebbe la strada libera per ultimare un palmarès infinito, ventidue major, ma con l’asterisco di quell’incidente che pesa come un macigno.
La fine di Graf, Seles, Sanchez, Conchita Martinez incrociò l’alba di una generazione fortissima (Martina Hingis, le sorelle Williams, Lindsey Davenport, le belghe, Amélie Mauresmo, le russe..) e il momentum della nidiata di mezzo (Jennifer Capriati e Mary Pierce).
Un’epoca d’oro.
L’ennesima reminiscenza della Connolly, una caduta da cavallo durante la preparazione degli Open francesi, precluse il quattro su quattro alla fenomenale Martina Hingis del 1997.

SERENONA SLAM
Serena Williams crebbe quindi – adolescente – nell’attimo più competitivo di sempre della WTA: oggi, in un robotennis alla metà del guado, pare temere più se stessa che le altre.
Più che l’annual Grand Slam, New York significherebbe il quinto titolo maggiore di seguito e il ventiduesimo in totale: Graf eguagliata e Court Smith a due lunghezze (per quel che conta).
Durante le US Open Series le partite di Serenona hanno avuto dinamiche molto simili.
Un incipit difficoltoso, col diritto (il colpo barometro) sfasato e poca continuità.
In seguito, appoggiandosi al servizio (l’arma letale dell’afroamericana) e all’uno-due, serve and backhand d’autore, le contese diventavano monologhi.
Dovrà guardarsi, più che da Maria Sharapova e Simona Halep, dalla pressione delle aspettative (gestibile?) e dalle taglie forti che possono reggere la pesantezza delle sue palle.
Vika Azarenka e Petra Kvitova soprattutto, forse Madison Keys o Sloane Stephens.
A Toronto, una delle due sconfitte stagionali, si imbattè in una Belinda Bencic extralusso: ecco, allungando gli scambi, con il senso dell’anticipo della pupona svizzera, si potrebbe creare la sorpresa.
Un’evenienza che l’ambiente WTA sembra quasi paventare, conscio che l’esposizione mediatica dell’evento renderebbe un pò più competitivo (vendibile..) il circo rosa.
Al resto, l’arrosto non il fumo, dovrà pensarci Serena.

Pubblicato il 29 agosto 2015 da Il Giornale del Popolo

Per chi fosse distratto o su un altro pianeta, ricordiamo come finì.
In un’improbabile rimonta nella semifinale, Roberta Vinci interruppe la corsa (di 33 vittorie consecutive negli Slam) della Williams.
La più grande sorpresa nella storia del tennis, o giù di lì, in un match brutto (..), sporco e cattivo, quindi indimenticabile.
For the ages, dicono là.
Vinto da un panda dello slice, dal gioco atipico e antico, che chiuse la partita (per adesso, la più importante di questo scorcio di secolo) con due demivolèe – nel game: una di rovescio sul 15/0, l’altra di diritto sul match-point – regali, degne di Navratilova e Mandlikova.