ASCESA E DECLINO (VITA SPERICOLATA E MORTE APPARENTE) DELLA SERIE A E DEL CALCIO ITALIANO

Come nulla fosse (accaduto), è ricominciata la Serie A.
Dal punto di vista mediatico i decibel sono sempre gli stessi, forse il rumore – bianco – è addirittura aumentato: attrae meglio il tifoso (cliente).
Eppure la stagione 2022/2023 ha qualcosa di epocale: presenta, qualitativamente, la peggiore Serie A del dopoguerra.
Negli anni della decadenza massima di una superpotenza calcistica, la migliore d’Europa con la Germania (Ovest), si intrecciano dinamiche entropiche, calanti.
Vista con lo sguardo deformato dell’età dell’oro (1982-2006), di quella che fu una specie di NBA del calcio (sic), la picchiata sembra senza limiti.
La scatola nera dell’incidente contiene talmente tante informazioni, eventi, da nascondere l’evidenza in superficie.

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Un filo collega – a mo’ di corda o di cappio – una nazionale che starà fuori dalla Coppa del Mondo per dodici anni, a un campionato che pare un’imitazione della J League anni Novanta.
Una tendenza sublimata con Cristiano Ronaldo, che il primo anno e mezzo pareva un adulto in mezzo ai bimbi, e che (ri) porta in Serie A scarti della Premier (Romelu Lukaku), della Bundesliga (Ciro Immobile) fino a star prepensionate del campo (Frank Ribèry, Zlatan Ibrahimovic, Angel Di Maria) e della panca (José Mourinho).
Allora non pare strano che l’Italia di Roberto Mancini, qualche mese dopo un trionfo (meritato) stile Grecia 2004, venga costretta a schierare nei match chiave per la qualificazione in Qatar – in attacco – Immobile, Domenico Berardi, Andrea Belotti.
Giocatori che, nelle ere precedenti, avrebbero visto l’azzurro col binocolo.
Una nazionale che, in passato, vinse un Mondiale leggendario (1982) senza Roberto Bettega e Roberto Pruzzo – stesso destino, scelte opposte – o che, in un’altra occasione (1994), non convocò Gianluca Vialli.
La scuola italiana, dominante (e imitata) per decenni, è alle aste.
Il campionato, idem: conclusa nel gigantismo (dei contratti e della sopravvalutazione del personale) il ciclo juventino dei nove scudetti consecutivi, un titolo all’Inter cinese (coi “pagherò”) e uno a un Milan (economicamente) sobrio, parente lontano del blockbuster degli invincibili, i cui ideatori – vegliardi aggrappati alle rispettive fidanzate, badanti – seggono ora in tribuna al Brianteo di Monza.
Quello che rappresentò l’approdo ideale dei fuoriclasse, il più prestigioso del foot mondiale, oggi è solo il quarto (quinto?) campionato continentale.
Nel frattempo, è successo di tutto.

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“Comincia il tramonto. Sono mutati i tempi, il gioco del calcio in Italia come altrove diventa un’organizzazione finanziaria..”
Le parole del fondatore della Pro Patria – Marcello Bertinetti – descrivevano l’altra metà della luna, all’inizio della Serie A.
Che venne inventata come la conosciamo noi, nel 1929, da Leandro Arpinati, vicesegretario del Partito Fascista e presidente FIGC: il migliore dei peggiori (..) chiuse la fase pionieristica del Quadrilatero e del Genoa.
Il girone unico assimilava gli squadroni del Nord con quelli, così così, del Centro-Sud.
Il principio dei vasi comunicanti funzionava soprattutto a Torino.
Fu il Toro del presidente Enrico Cinzano a comperare, dal Newell’s Old Boys nel ’25, il primo fuoriclasse oriundo, il matador Julio Libonatti.
Nel 1928-1929 quel Toro, guidato dal Trio delle Meraviglie Libonatti (gol e assist), Gino Rossetti e Adolfo Baloncieri, segnerà 117 reti in 33 partite.
Nell’Italia dell’autarchia, i paisà – argentini o uruguagi – favoriranno l’esplosione del calcio azzurro.
Il modello sarà sublimato da Edoardo Agnelli quando, dopo Amsterdam 1928, acquisterà il migliore giocatore del torneo olimpico, il funambolo Raimundo Orsi (bisnonno di Leo Messi, nel linguaggio del gioco) e Luisito Monti.
La Juventus del quinquennio d’oro 1930-35 fu parallela col progetto di Arpinati, gli stadi nuovi, l’arrivo del nostro Pelé (quanto sarebbe stato pop, nell’era televisiva, Giuseppe Meazza?), la nazionale di Vittorio Pozzo.
La Fidanzata d’Italia si appoggiava a un’idea del football “fabbrica”, organizzato e disciplinato, che andava oltre l’appartenenza territoriale.
Il lustro si concluderà con la tragedia pubblica di Agnelli e quella privata di Carlo Carcano, l’allenatore che impose il Metodo danubiano (il WW) al calcio tricolore tutto.

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La Juve di Orsi e Carcano, di Gianpiero Combi e Giovanni Ferrari, fu la primissima squadra della Serie A a diventare capintesta del movimento europeo, fornendo pure il telaio – il castrum – alla nazionale campione del mondo.
Una retroazione che genererà a nastro, quasi un loop, per più di settant’anni, gli altri cicli vincenti del nostro calcio.
Accadrà anche altrove, ma soprattutto a livello di club – a targhe alterne – a Milano, durante gli anni Sessanta.
Dopo la Nazio-Juve di Giampiero Boniperti e Giovanni Trapattoni, con gli innesti di Liam Brady, Michel Platini, Zibì Boniek, l’avvento (decisivo) del Milan di Silvio Berlusconi.
Un macchinario (quasi) perfetto, nel momento di massimo fulgore della Serie A, un ammasso (alla ricerca di consensi oltre che di trofei) di spettacolo e potere che modificò, per sempre, la percezione del sistema calcio.
Dominio rossonero, culturale, più negli anni Novanta delle tre finali consecutive di Champions League che nella semina sacchiana di fine Ottanta.
Che fu anche, quella rivoluzione tattica (di mentalità), figlia dell’embargo brit del dopo Heysel e madre di tutte le post verità sul nostro foot.

“Lo spettacolo ha sempre maggiori esigenze. Ad esso attendono governanti, industriali, manager, amministratori e bilanci pubblici, tecnici e teorici, cantori, storici, sociologi.
Ad esso si agganciano produzioni, modelli capitali, rapporti internazionali, alleanze vere e proprie campagne politiche. Lo spettacolo da noi è al massimo della tensione perché quasi da solo deve reggere la spaccatura della crisi del Paese.”
(Paolo Volponi)

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Il 6 agosto 2022, 596775 spettatori hanno visto una partita di MLB.
In un giorno, il baseball pro americano – che ha 162 match per ogni franchigia – ha realizzato un decimo degli spettatori dell’intera Serie A 2021-2022.
La media dell’MLB del 6 agosto, 35104 paganti.
Quella del campionato italiano, 15072.
Con l’UEFA di Aleksander Ceferin, il Griso dei “club di stato” arabi, la congiunzione astrale – per la Serie A – è quasi funerea.
Impossibile rincorrere le spese astronomiche dei fondi sovrani del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti, impensabile replicare ai trucchi contabili di potentati (politici e sociali) come il Barcellona e il Real Madrid.
Scacco matto.
La realtà, fin dai tempi nei quali gli sceicchi arrivavano dalla Brianza o dalle colline torinesi (oppure da Marino), è che la Serie A è economicamente fallita.
Quindi, sopravvalutata: uno specchietto mediatico per le allodole.
Prima del covid, nel 2017-2018, i tre campionati professionistici incassavano 3,5 miliardi di euro.
1,2 miliardi i diritti televisivi, 777 milioni di plusvalenze per la cessione dei calciatori, 575 milioni tra sponsor e attività commerciali, 341 milioni gli incassi dagli stadi.
La ricchezza prodotta non arrivava allo 0,2 per cento del PIL.
Nel 2016 il gettito fiscale era arrivato a poco più di 1 miliardo sui quasi 472 di tutto lo Stato.
Il calcio e lo sport italiano sono una fiction?

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“Lo sport del calcio è quello che, più di tutti gli altri, ha poteri di attrattive spettacolari sulle masse.”
(Benito Mussolini)

La morte (assurda) di Agnelli e la guerra in Etiopia, che consigliò la fuga dal paese a qualche oriundo, chiusero l’evo: Parigi 1938 fu l’epilogo.
Seppure le squadre del regime fossero altre, il Bologna che tremare il mondo faceva (il dramma di Arpad Weisz come simbolo dell’oscenità dei tempi) e la Roma, Torino rimase al centro dell’universo foot.
Non un caso che l’innesto di due ex juventini risulti decisivo nella costruzione del Grande Torino.
Il giovane Guglielmo Gabetto, sul campo, e Felice Borel, a mo’ di suggeritore di una nuova strategia tattica.
L’adozione del Sistema dell’Arsenal di Herbert Chapman (il WM), contro le idee di Vittorio Pozzo, fu una delle chiavi di quel Torino edificato – passo dopo passo – da Ferruccio Novo.
Che si inventa lo squadrone programmandolo come in un’azienda, precedendo la concorrenza in ogni settore (mercato, scouting, politica societaria).
Dal 1942-1943 il Toro comanda la scena, mostrando cartoline – al Filadelfia – dal futuro “ungherese”.
Erano tuttocampisti, universali, i Valentino Mazzola (Alfredo Di Stéfano prima di Alfredo Di Stéfano), i Virgilio Maroso.
La Serie A, al contrario per esempio del Giro d’Italia, proseguì anche in pieno conflitto col campionato di guerra.
Le dinamiche propagandistiche erano evidenti: per evitare la chiamata alle armi, i migliori giocatori – e le migliori squadre – si legarono alle industrie più importanti.
Novo abbinò il Toro alla FIAT, che non era più interessata alla Juve, dal 1941 sotto l’egida di Piero Dusio (e di Cisitalia).
Una vicenda leggendaria, quella del rivale degli Agnelli: si diceva che metà Torino, con Piazza San Carlo a far da spartiacque, appartenesse a Dusio, l’uomo che salvò Porsche e combatté il monopolio FIAT.
Nel cruciale 1949, l’anno più importante del Novecento sportivo italiano, Cisitalia (sconfitta..) entrò in amministrazione controllata, passando al figlio Piero, con Dusio che emigrò in Argentina e fondò l’Autoar.
Lo schianto dell’aereo a Superga, il 4 maggio, non cancellò solamente il Grande Torino ma congelò sotto choc – per un decennio – l’evoluzione del calcio azzurro.

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La Champions League si è mangiata il calcio storico (e storicizzato) dei campionati e delle grandi competizioni per nazionali.
La digestione, il rutto, quest’anno a novembre, in Qatar.
Per quasi quindici anni, la Serie A fu qualitativamente più difficile – da vincere – delle (tre) coppe europee.
L’omologazione e l’impoverimento della scuola italiana cominciò proprio all’apogeo della stessa, col sacchismo e i suoi derivati.
Sommati alla Bosman, all’invenzione della Premiership e alle modifiche regolamentari.
Il calciatore italiano di altissimo livello, fosse un difensore (Gaetano Scirea), un attaccante (Paolo Rossi), giocava e sfruttava gli spazi.
Il calcio all’italiana non era fatto di schemi e regole fisse, bensì di letture e adattamenti.
Nel post 2006, un (grande) successo con l’ultima generazione cresciuta fuori dai pattern fondamentalisti delle scuole calcio, il declino fu sempre più evidente.
Da una parte le nuove regole, per favorire le segnature, dall’altra – In Serie A – l’introduzione dei tre punti per la vittoria (1994-1995) e l’allargamento fino a 20 squadre (2004-2005).
La polaroid della nuova fase azzurra all’Arena Pernambuco di Recife, ai Mondiali 2014, con Mario Balotelli e Antonio Cassano – la nuova carne, i calciattori.. – perfetti per fotografare la situazione (lo spreco del potenziale tecnico, il semianalfabetismo tattico).
Quel pomeriggio il Costa Rica mandò 11 volte in fuorigioco l’Italia, usando le doti classiche dell’Italia stessa: il gioco di rimessa e il fosforo.
Per sottolineare il cambio stilistico, a perdere, basterebbe leggere alcune cifre complessive.
In Serie A oggi si segnano un terzo di gol in più, rispetto agli anni del blocco agli stranieri (dopo la Corea alla Coppa Rimet 1966) e a quelli (dell’inizio) del periodo aureo.
Nel 1972-1973 la media reti più bassa dell’era moderna: 1.87 a partita.
Statisticamente, i 24 gol di Giorgio Chinaglia nel 1973-1974 valevano (molto) di più rispetto agli stessi nella contemporaneità.
In un campionato a 2.07 segnature a match, rappresentavano il 4,83 pér cènto complessivo.
Exploit simili per Roberto Boninsegna nel 1970-1971 (4,75 %) e Paolo Rossi nel 1977-1978 (4,68 %).
La media negli anni Ottanta salì ma nemmeno tanto: basterebbe ricordare che Michel Platini divenne capocannoniere con 16 gol, nel 1982-1983, e Diego Armando Maradona con 15 nel 1987-1988.
Coi Novanta lo standard realizzativo si innalza, i 2.8 a match del 1992-1993 rimarranno un primato fino al 2016-2017 e le eloquenti 2.96 reti di media.
Quote divenute normali in questa Serie A, che sorpassò i 3 gol per incontro nel 2019-2020 (3.04) e nel 2020-2021 (3.06).
Continuando a fornire cifre, senza interpretarle, si truccano le carte: i gol non si contano, si pesano.

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“Ai suoi tempi, Giovanni Agnelli l’aveva capito bene. La Juventus non era un investimento da mecenate. Il lunedì mattina, quando la “loro” squadra aveva vinto, gli operai FIAT ritornavano in fabbrica più contenti.”
(Erwann Menthéour)

Nel dopo Superga, Rio 1950 fu l’emblema della decadenza: la nazionale di Pozzo partì in nave (la Sises) da Napoli, in un viaggio surreale di tre settimane verso il Brasile.
Dopo qualche giorno di palleggi, sul ponte, non c’erano più palloni per allenarsi (?).
L’immaginario della Serie A, in un momento così mediocre, fu affidato agli assi stranieri.
Il Gre-No-Li del Milan svedese, poi di Juan Alberto Schiaffino, l’Inter di Nacka Skoglund e Istvàn Nyers, la Juve di John Charles e Omar Sivori, la Fiorentina di Julinho.
Eppure qualcosa accadde se nel 1958, malgrado il fallimento azzurro nella qualificazione ai Mondiali e i trionfi di Ercole Baldini (che per un quarto d’ora parve il nuovo Fausto Coppi), il calcio sorpassò il ciclismo come sport più trattato sulla carta stampata.
Stava arrivando il boom economico e il football era il volano ideale del cambio epocale.
Angelo Moratti prese l’Inter nel ’55, gli Agnelli si erano ripresi la Juve nel ’47 ma solo con Umberto (il fratello di Gianni) – nel 1956 – il club tornò a pensare in grande, Andrea Rizzoli comprò il Milan nel 1954.
Moratti era il perno del settore petrolifero, gli Agnelli i nostri Ford (o Kennedy?), Rizzoli editore e produttore cinematografico (Cineriz).
La Serie A descrisse – circense – la parabola (felice e arruffona) del Bel Paese dei padroni (predoni).
L’Inter di Helenio Herrera, il primo allenatore guru, il bordone vincente da fotocopiare nel bene e nel male.
Il “taca la bala”, un gruppo fortissimo e feroce, gli alisei mediatici a favore.
Regista da Oscar, non sul campo, quello era Luisito Suarez, Italo Allodi: re del calciomercato e della comunicazione generalista del foot.
La matrice di ciò che accadrà, dalla metà degli anni Sessanta, è sua.
L’Inter di Moratti, la Juve di Boniperti, la sponda con Artemio Franchi, Coverciano (dove si imbatté nella sua antimateria etica: Enzo Bearzot), la Fiorentina dei Pontello, il Napoli di Corrado Ferlaino.
Una ragnatela di contatti, il fiuto del talent scout, puparo del quarto potere che imboccava a piacimento.
Il ministro degli esteri (ungherese) per le coppe, la sudditanza psicologica, le cene, i quadri, gli orologi, le spiagge della Versilia.
Allodi volle Luciano Moggi come osservatore dei giovani, alla Juve di allora.
Il regno (che pareva infinito) si chiuse con lo scandalo del Totonero, prima dell’ictus, nel 1986: il titolo di reuccio passò proprio a Big Luciano, ai tempi al Torino.
Tra Allodi e Moggi, tutto il calcio minuto per minuto: Calciopoli nel 2006, una fotta, nell’estate degli azzurri di Marcello Lippi, concluse il colossal.
Nel mezzo, a puntate, la storia (biologica?) del nostro paese.

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Quando la Serie A era caput mundi, il nero (di lusso) divenne quasi la prassi al di là del resto (che era mancia).
Il calcio italiano, una galassia in espansione, pareva senza limiti anche nell’immaginazione.
I 113 miliardi di lire offshore, dal 1991 al ’97, pagati a dodici calciatori del Milan, una specie di Eldorado della creatività fiscale che – nel 2002 – i tre olandesi (il solo Marco Van Basten ne prese quasi 43) patteggiarono, pagando 1500 euro a testa.
Adriano Galliani, l’antennista che detenne con la famiglia GEA World le chiavi del giochino, venne assolto poiché “il fatto originariamente contestato non è più previsto dalla legge come reato.”
Nel manuale del procuratore le azioni che Moggi suggerì a Mino Raiola, fottendo l’Ajax, per portare Zlatan Ibrahimovic alla Juventus.
E sulla strada Capitalia tra Parma e Roma, Callisto Tanzi e Sergio Cragnotti, Parmalat e Cirio, fu consumata una saga del capitalismo tossico italiano.
Abbiamo insegnato al mondo intero come si faceva e disfaceva il calcio.
Il Cagliari dello scudetto – 1970 – fu una storia incredibile, una squadra di campioni (Gigi Riva, Ricky Albertosi, Angelo Domenghini) che riscattò una terra.
Il Cagliari dello scudetto partì dall’occupazione di Monti di Mola e col consorzio Costa Smeralda e il Piano della Rinascita della Sardegna (1962).
I due Angeli del Varesotto, Angelo Moratti e Nino Rovelli, si comprarono l’isola coi soldi dei sardi: fino al 1966, la SIR di Rovelli assorbì il 65 % dei muti erogati dal Credito Industriale Sardo che, prima dell’arrivo della chimica (di Stato), serviva gli agricoltori.
La raffineria Saras era entrata in funzione nel 1965, la Sardoil di Porto Torres due anni dopo.
I due Angeli proseguirono lo shopping con La Nuova Sardegna (il solo Rovelli), L’Unione Sarda e 140 milioni in azioni del Cagliari Calcio.
Che aveva come presidente Efisio Corrias, che lo era anche del CIS ed ex della regione.
Tutti insieme appassionatamente.
Poi uno legge le scemenze sociali sul foot, in occasione magari dell’affaire Superlega, e ci si chiede se questi – intellettuali da spritz, agonisti da divano – siano solo ignoranti o pure stupidi.

“Il calcio è passione. L’Europa non sono gli Stati Uniti, il calcio non è il basket: qui c’è bisogno che i bambini sognino.”
(Maurizio De Giovanni)

9

“Basta dare un occhio ai settori giovanili. Una volta erano popolati quasi esclusivamente da bambini figli di operai. Oggi invece sembra che a calcio siano in grado di giocare solo i figli degli imprenditori.
..
I soldi di uno sponsor o alcune parentele possono essere molto più importanti delle idee di un tecnico.”
(Dario Hubner)

Il sistema italiano è a prova di realtà, la rifugge, vivendo della complicità dei media, vittime e carnefici del giochino.
E’ una retroazione, un feedback spontaneo: se fai parte della baracca, supporti e sopporti il teatrino.
L’ambiente pretende omologazione e rispetto di un immaginario straordinario, quanto verosimile o improbabile.
Il calcio del 2022 – nel quale la Serie A sta annegando – è un prodotto, un brand globale, che veicola e vende tre quarti del mondo stesso.
Il calciatore è un bond, un titolo azionario, un investimento speculativo.
Il calcio è proprietà della FIFA, dell’UEFA e degli agenti, poi dei gruppi che riciclano denaro per cavarne fuori prestigio e immagine.
In Premier League si dice “sportswashing”.
E’ un universo al di là delle leggi degli Stati.
Le società di procura sono importanti almeno quanto i superclub europei, forse di più.
Dalla buca, dal fosso, il calcio azzurro potrebbe uscirci con un colpo a sorpresa, una (nuova) scuola di calciatori, o con il celeberrimo “stellone” (nessuna relazione con Roberto).
Il declino irreversibile racconta di 5,3 miliardi di euro persi negli ultimi quattordici anni, col fattore covid (un biennio) che ha inciso (1,2 miliardi) ma non troppo.
L’inerzia è spettrale: se i club di vertice, per tirare avanti, sono ricorsi a 2 miliardi di liquidità aggiuntiva, l’attività di base giovanile sta sprofondando a livelli impensabili solamente negli anni Zero.
Abbiamo smarrito quasi il 21 % delle squadre e più del 29 % dei tesserati sotto i vent’anni.
Fare la fine dell’Ungheria, in ogni senso, sembra la rotta di questo curioso, isterico, glorioso, Titanic con l’insegna della Serie A.

“Ma questi signori che acquistano giocatori sono gente di Caltagirone che vuole la Callas alla ribalta del proprio teatro.
Finché avranno i soldi, la Callas lancerà acuti. Quando non ne avranno più, la Callas andrà via tranquillamente e loro resteranno senza nulla..”
(Gianni Brera)