DIARIO DEL GIRO 2024 E DELL’ITALIA

Diario tecnico, sentimentale e politico del Giro numero 107.
A ogni edizione, un cerchio nell’albero di carne e sangue che siamo.
Amarcord, con la memoria d’elefante, abbiamo ricordi del ’76, ma il primissimo che seguimmo fu quello del 1977.
Quello della caduta di Freddy Maertens al Mugello, di Pollo in rosa a Milano e delle ombrellate (trentine) a Gibì Baronchelli.
Meglio il ciclismo di oggi, altro che balle.

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Venerdì della presentazione, piove.
“Che cosa è il genio? E’ fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione.”
Attila Valter pubblica su Strava, con la dicitura #stravawankers, i dati della passerella (bagnata).
120 metri, 1 metro di dislivello, 48 secondi.

4 maggio, Torino

A Venaria Reale, alla partenza, c’è il mondo: il nostro (?).
Per tre settimane, in Italia, agli indiani viene consentito di uscire dalla riserva.
Ci si domanda, vedendo carte e partecipanti, come questo Giro (Giretto) Tadejpogacar-centrico sarà interpretato dall’UAE Emirates.
Perché il percorso è tosto, nella tradizione post Moser e Saronni.
Vedremo se lo sloveno eviterà un Giro 1995.
Un altro sport, quella era Epolandia alta, salite (era già esplosa la Pantanimania) e crono ovunque, un meteo infame, trasferimenti ciclopici.
Tony Rominger prese la maglia (quasi) subito e comandò – di potenza – aiutato da una Mapei fortissima.
Che arrivò a Milano con la spia rossa accesa.
Quella squadra era più completa del combo portato quest’anno da Mauro Gianetti.
Strafare, alla vernice, potrebbe rivelarsi deleterio nella terza settimana.
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A noi pare normale che l’evento sportivo italiano più importante, il 4 maggio ricordi il 1949.
Ci piace che ci sia quella maglia, che ricordi il Grande Torino e quel tempo.
Vorremmo però più ciclismo nello sport e nei media tricolori, tutti i maledetti giorni.
E soprattutto meno calcio: farebbe bene al calcio stesso o ai resti di quel che ne rimane.
Tra bus scoperti, ultrà capopopolo e sportswashing diffuso.
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Salendo (la seconda volta) il Colle Maddalena, nel cuore di una tappaccia, rimane solo Rafal Majka a fianco di Pogacar: non un bel segnale.
Dietro, mollano subito Romain Bardet, Thymen Arensman, Valentin Paret-Peintre, Florian Lipowitz (che in Romandia volava..).
L’UAE è così così, Felix Grossschartner si era staccato presto, e queste cose in gruppo si notano.
Pogacar non pare contento della musica.
Nel mangia e bevi del Torinese, la teoria del caos sembra predominare: liberi tutti?
Vedendo la folla a strati, un bel bordello, la battuta è facile: Torino non è Milano o Roma.
Giulio Pellizzari, 20 anni, da San Severino Marche, si fa notare per la cazzimma.
Pogacar, di rabbia, sullo strappo di San Vito, tira due ceffoni al gruppetto dei 30 che sono rimasti.
Gli restano, a ruota, solo Jhonatan Narvàez e Maximilian Schachmann (che in discesa è un acrobata).
Vince il campione dell’Ecuador e soprattutto il Team Ineos, davanti alla Gran Madre, in Corso Moncalieri.

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Palco delle feste, il ministro Lollobrigida premia il leader dei giovani: sporge la maglia bianca ad Alex Baudin, alla rovescia.
Vincenzo Nibali e una modella accorrono in aiuto del cognato di Stato.
Un po’ più giù, verso Via Po, nel 1889, Friedrich Nietzsche abbracciava un cavallo zoppo.

5 maggio, Santuario di Oropa

Corsa vera, su e giù per i monti, i parchi e le oasi, a Biella fora Pogacar sul pavé cittadino.
Oropa ci ricorda Tom Dumoulin, una sua vittoria nell’anno del successo al Giro (2017), e quanto il talento (purissimo) conti (relativamente) nella realizzazione del potenziale di un campione.
L’olandese avrebbe dovuto e potuto correre e vincere di più, ma quello del ciclista professionista è un mestiere bellissimo e di merda.
Il fuggitivo della giornata è Andrea Piccolo, a proposito di promesse non mantenute: 160 chilometri in testa.
Un’accelerazione e rimbalzano all’indietro Julian Alaphilippe e Nairo Quintana: polvere di stelle..
Ai 4 e 200, il solito Majka ultima staffetta, Pogacar scatta in faccia alla compagnia.
Nevrile, arrabbiato.
Ben O’Connor lo tiene per mezzo chilometro, finirà con le gambe forate.
Geraint Thomas, eterno, di quelli che restano, è il vecchio saggio circondato da giovinastri.
Annunciatissimo, e conteso, Cian Uijtdebroeks e il sorprendente Florian Lipowitz.
Degli italiani, l’atteso Antonio Tiberi – “Miao!” – becca 2 minuti e mezzo.
Per essere la seconda tappa, la seminata e le facce sono impressionanti.
Taddeo in rosa sta benissimo: sembra ancora più giovane dei suoi 25 anni.

7 maggio, Andora

Nel finale ci si tuffa nel Ponente Ligure e, d’improvviso, si corre un segmento della Milano-Sanremo.
Da oggi è agli arresti domiciliari il Presidente della Regione: quando, da eoni, sosteniamo che la Liguria è la Calabria del Nord, non lo diciamo per le spiagge e il microclima favorevole.
Nella sequenza dell’epilogo, quella delle gallerie aperte (sul mare), col gruppo a velocità folle, Filippo Ganna prova a far saltare il banco.
Ai piedi di Capo Mele, a più di 4 km dal traguardo, il primatista dell’ora apre il gas a tutta.
Un’azione da finisseur, il rapportone spinto con una facilità disarmante, che vorrebbe impedire la conclusione – logica – in volata.
Il tratto è volato a 590 watt medi, in 3’35” a 52,9 orari, con una punta di 73,9 chilometri all’ora.
Lo insegue il treno della Lidl Trek con un Simone Consonni da applausi.
Il plotone riprende Ganna ai 600 metri, e Jonathan Milan esplode – agilissimo – in uno sprint in progressione, battendo Kaden Groves e Phil Bauhaus.
In questo momento storico, il movimento italiano è salvato dalla specialità più boicottata dai federali: la pista.
Marco Villa, e qualche team straniero del World Tour, stanno ovviando alla carenza progettuale, di visione complessiva, di un sistema.
Il corazziere Milan è – potenzialmente – il miglior sprinter del mondo.
Il prossimo Guido Bontempi, poiché ha le caratteristiche giuste per certe classiche.
Vedendo la sparata di Ganna, ci convinciamo che a marzo, alla Sanremo vera, se ci fosse stato lui al posto del compagno, il Pollicino Tom Pidcock, dopo il Poggio, avrebbe vinto.
Quel pomeriggio forò sul più bello: col cavolo che quel mostro di Mathieu van der Poel sarebbe riuscito a ricucire, per Jasper Philipsen.

8 maggio, Lagnasco (Piemonte)

Un camion, al semaforo, travolge (senza accorgersene) una ciclista, svoltando verso destra.
Daniela Quaglia, 56 anni, sulla sua bici da corsa, si stava godendo (alle 18) un pomeriggio di sole dopo la pioggia.
La donna è stata riconosciuta solo la mattina seguente: nell’impatto, il telefonino era stato distrutto.
Ad allertarsi, a tarda sera, gli addetti della RSA dove Daniela lavorava, come operatrice socio sanitaria: lei, attesa per il turno di notte, era sempre puntuale.

9 maggio, Civezzano (Trentino)

Un furgone investe ed ammazza Matteo Lorenzi, junior (16 anni e mezzo) dello storico gruppo sportivo Montecorona, quello che fu pure di Francesco Moser e Gilberto Simoni.
Si stava allenando, erano le 15 30 di una giornata di sole: l’incidente è stato provocato da una mancata precedenza, dell’automoblista, in uscita da una stradina.

10 maggio, Perugia

Umbria verdissima, esoterica, un po’ di catafalchi di cemento qua e là.
Il percorso va dalla Calamita Cosmica di Gino De Dominicis – Foligno – a Perugino e Pinturicchio.
40600 metri di prova della verità, su un tracciato disegnato bene.
Per le macchine umane, cuore e gambe, su macchine meccaniche, pedali e catena.
Il ciclismo è futurismo, non quel pirla di Marinetti.
Ganna è un direttissimo che fa i 46 831 di media sui (complicati) 40,1 km.
Monocorona da 64 e scala posteriore 11-34, pedivelle 175 millimetri.
Dopo il piattone, dallo strappo di Casaglia, pare mettere il turbo e doppia 8 (!) colleghi.
Magnus Sheffield, che deve capire cosa fare da grande, rolla col rapporto (ne) che è un piacere.
A un certo punto, aspettando la classifica, tre Team Ineos ai primi tre posti.
Il capitano G monta una monocorona con 66 denti.
Pantaloncini granata chic, con la rosa, Pogacar pedala sveltissimo a 61-62 orari.
Si vedono cose strane, tipo la specialissima di ricambio dalla parte opposta del meccanico.
Thomas pedala duro, ciclismo anni ’80, contro i dettami fisiologici del presente (futuro).
Uijtdebroeks, a proposito di domani, ci pare troppo leggerino e sbilenco per essere della stessa lega di un Pogacar.
Il casco aerodinamico della Visma non si può vedere: pare un abat-jour in testa.
A Ponte Valleceppi – km 34 – l’unico della Generale tra i migliori è la maglia rosa (a 47 secondi da Ganna).
La lezione del Tour 2023, la crono di Combloux, gli è servita.
La Colnago TT1 è quasi la stessa di dieci mesi fa, tranne il manubrio, ma la postura è stata modificata (più orizzontale ed elegante).
In salita, Pogacar accelera oltre i 20 all’ora su un tratto al 13 percento.
Un marziano a Perugia.
Intanto, belle prove di Tiberi e Martinez.
Thomas, che pare un Gontchar in minore, becca 1’43” da Top Ganna (11″ da Martinez).
Pogacar viene su come un motorino, prende 1’04” al miglior inseguitore del mondo nel tratto (6 km) finale.
6600 metri in 12’14”, a 430 watt di potenza media, 94 pedalate al minuto di cadenza, 32 orari.
Un extraterrestre col ciuffetto biondo.
17 secondi a Ganna, il resto è mancia: 47 088 di media, Tiberi (eccellente) a 1’21”, Martinez a 1’49”, Thomas a 2′.
Pogacar ha pedivelle corte, di 165 millimetri, per sfruttare al meglio l’RPM altissimo.
Il motore esagerato dello sloveno, sui 7 watt al chilo, permette la leva corta coi rapporti corti.
Tadej vortica, più che pedalare.

16 maggio, Fano

Si fa zigzag tra le spiagge dell’Adriatico e l’entroterra marchigiano, in una sorta di (piccola) Amstel Gold Race.
In carovana gira il virus influenzale e, tra una caduta e l’altra, sono tornati a casa Aleksej Lutsenko, Christophe Laporte, Fabio Jakobsen, Cian Uijtdebroeks e Olav Kooij.
Alla Visma Lease a Bike, in una tappa un po’ fiamminga che ci ricorda l’assenza di Wout Van Aert, al di là del dietologo, del fisioterapista, del biomeccanico, dovrebbero pagare uno stregone voodoo.
La fugona – attenti alle vocali – mette insieme una banda di scapigliati, ferocissimi.
Julian Alaphilippe e Mirco Maestri vanno via o li lasciano andare, sbagliando i calcoli.
La chiave è il muro di Monte Giove, con una strisciata al 20 percento che ti ribalta.
Dopo Mondolfo, col vento a tre quarti, su uno stradone, dietro ci proverebbe la Bahrain Victorious.
Come scritto nei chewing gum anni ’70: “Riprova, sarai più fortunato.”
Ai 10 km dall’arrivo, appena iniziato Monte Giove, Alaphilippe si invola verso un successo atteso da 346 dì (eravamo al Delfinato ’23).
In vantaggio di 35 secondi, sugli inseguitori a gruppetti, prende un paio di curve – in discesa – alla Randy Mamola.
L’Italia gli porta fortuna, ci ha vinto un Mondiale (a Imola), una Milano-Sanremo, le Strade Bianche, e la sua impresa – quei 140 chilometri in avanscoperta – ricordano che un campione, seppure in declino, rimane un campione.
Secondo, in rimonta, Narvàez (che ha il gambone) su Quinten Hermans.
Sparsi, quarto Michael Valgren e (quinto) Christian Scaroni. Sesto, Matteo Trentin.
Sono tutti contenti della vittoria di Loulou, lo abbracciano, quelli della fuga.
A 44 di media, la tappaccia di Fano spiega il fascino monodico di una gara di tre settimane.
Per ore ci siamo scordati della classifica, abbiamo solo ammirato quei cacciatori di fortuna.
Alaphilippe aspetta Maestri e lo ringrazia dell’aiuto.
Alla dodicesima tappa, il francese ha accumulato 435 chilometri in fuga o in testa.
E’ il decimo transalpino a imporsi in almeno una frazione di Giro, Tour e Vuelta.
Gli altri si chiamano Jean Stablinski, Jacques Anquetil, Bernard Hinault, Laurent Fignon, Charles Mottet, Jeff Bernard, Thierry Marie, Laurent Jalabert e Thibaut Pinot.
In poche righe, 60 anni di storia del ciclismo francese.

19 maggio, Livigno

La domenica – del villaggio (televisivo) – prevede il tappone lombardo.
222 chilometri, cinque salite, 5300 metri di dislivello e arrivo in quota a 2385 metri.
Repetita iuvant, l’epilogo sul Mottolino, con due impennate al 19 percento, non ci piace.
E’ garagismo, sadico, per quelli che stanno sul divano, a giudicare la fatica bestiale altrui.
Si giunge forte forte in Val Camonica, a 40 e 100 dopo 144 km, prima del Mortirolo preso dal versante di Monno.
Sono in tanti – una cinquantina – ad animare la fuga e si sparpagliano lungo il Passo.
Il gpm si risolve in una volatina a tre.
Primo il bresciano Scaroni, secondo Giulio Pellizzari, terzo Nicola Conci.
L’aspetto più curioso, in una giornata massacrante, è che Le Motte – dopo la picchiata (lunga e complicata) – fa più male del Mortirolo.
Sullo sfondo, la pista Stelvio, dietro, l’implacabile Domen Novak.
Come alla recente Liegi-Bastogne-Liegi, il metronomo di Pogacar: quando il luogotenente UAE si sfila, sul Passo del Foscagno, sono rimasti in 25.
Tra i fuggitivi corre via Georg Steinhauser, bel pedalatore, figlio di Tobias e nipotino di quel mutante di Jan Ullrich.
A un minutino, il trio Michael Storer, Attila Valter e Nairo Quintana, alla deriva i fegatelli della mattina.
Quando ai meno 16 Majka mette in fila il plotoncino, capiamo la strategia della maglia rosa.
5 ore e 40 minuti, Quintana – con la pellaccia e il talento dato da Madre Natura: l’altitudine non è un’opinione – inquadra Steinhauser e – piano piano – lo riprende e lo stacca.
A metà del Foscagno, parte Pogacar: un accenno di rincorsa, quello di Martinez, che rimbalza subito.
C’è la neve, a bordo strada, e il freak sloveno va su col 53.
Siamo nel bianco sporco, il sole e l’alta quota: è la fotografia del Giro 2024.
In cima, Pogacar sorpassa Steinhauser: la maglia rosa ha preso 3′ in 7 chilometri.
Ai meno 2, al bivio per Livigno, salta il Condor.
Dieci anni fa, Pogi (15 anni e mezzo) vedeva Nairito sfilare vittorioso in rosa: era con la squadra di allievi dell’epoca, a Trieste, e quel pomeriggio di festa – l’ultima tappa del Giro 2014 – vinse uno sloveno (Luka Mezgec).
La striscia d’asfalto del Mottolino è provvisoria, Tadej fende il pubblico e un drizzone da paura.
Si arriva dalla cabinovia, nel delirio dei tifosi, e non finisce più per nessuno, anche per lui.
Primissimo il dominatore da Komenda, secondo a 30″ il glorioso Quintana, terzo a 2’32” Steinhauser (bravissimo).
Alla spicciolata, al rallentatore, Bardet a 2’47”, Martinez e G a 2’50”.
Rubio e O’Connor a 2’58”, Arensman a 3’05”, Jan Hirt (un cagnaccio) a 3’20”, Filippo Zana (primo degli italiani) a 3’35”.
Tiberi a quasi 5′, stravolto.
6 ore 11′ 43″ in bici per Pogacar: l’ultimo, Julius Van den Berg, a un’ora e 58″.
Al defaticamento sui rulli, quando gli porgono un caffé caldo, la maglia rosa chiede: “Ma é whisky?”

24 maggio, Sappada

Sappada dal 1987 è uno stato mentale.
Il luogo che spiega il ciclismo, che spiega la vita (..): popolata da persone di talento, incapaci di essere bugiarde (Roberto Visentini) o capacissime di tutto per emergere, vincere, arricchirsi (Stephen Roche).
La tappa che si inoltra nella Carnia, oggi, è invece rivelatoria solo delle dinamiche di questo Giro: le facce (scavate) davanti, in fuga, sono sempre le stesse.
Tra Alaphilippe, Pelayo Sanchez, Steinhauser, Narvàez, i soliti noti, magata di Andrea Vendrame.
Che scappa in discesa, a 32 chilometri dal traguardo, sul bagnato, e non viene più ripreso.
Dietro, per una volta, si risparmiano le gambe: Thomas, rispettando una tradizione (..), cade e si rialza, aspettato dai migliori.
Due giorni all’alba.
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Il prodotto mediatico del Giro non viene promosso, in Italia.
Si scontano la fama, un tempo meritata, e la nuova (de) generazione d’infotainment cresciuta a gabibbi e clic.
La cultura sportiva, in questo paese, non esiste (più).
Basti vedere gli spazi dedicati allo sport della bici, sui giornali e le tivù generaliste, quasi sempre di carattere diffamatorio e violento.
Una caduta rovinosa al Giro dei Paesi Baschi ha ottenuto la prima pagina, perché c’era l’odore del sangue, Mathieu van der Poel che stravince la Parigi-Roubaix no.
Un boicottaggio sentimentale e sedimentato, nei decenni.
Uno sport con così tante variazioni sullo spartito, un aleph di tradizione e post modernità collegate insieme, non può essere compreso (amato) da ottimati di Serie Z.
Poi, oltre il pubblico sulle strade (che c’è sempre), uno controlla i dati televisivi.
Il Giro ha fatto 5-6 volte gli ascolti, alcuni giorni, degli Internazionali d’Italia in chiaro sulla RAI.
La domenica di Sasha Zverev-Nicolas Jarry, la finale al Foro Italico (298 euro, il prezzo del biglietto più economico: prendi i soldi e scappa..), 560mila spettatori.
Livigno, l’assolo di Pogacar, 2191000 spettatori.
Nelle 6 ore di diretta, la media è stata 1517000 (!).
Anche la Formula 1 a Imola, su TV8, 1797000 spettatori, ha perso il confronto col Giro.
Eppure qualcosa è guasto, nell’ex Bel Paese, se altrove una Red Bull – annettendosi la Bora – investirà 60 milioni di euro all’anno per una squadra World Tour.
E noi non sorpassiamo i 4 milioni, a testa, delle (preziose) continental VF Group Bardiani e Polti Kometa.
O se L’Equipe dedica i paginoni, a Pogacar in rosa, laddove i quotidiani tricolori se la sbrigano con un pezzetto Bignami.
Quando fecero ritirare la Mapei, eravamo al Giro 2002, con un fattoide sparato in diretta al tiggì, in molti non compresero la portata e la retroazione di quel tipo di evento.

25 maggio, Bassano del Grappa

Tappa veneta definitiva, il pomeriggio prima della festa.
Si sale due volte, dal lato di Semonzo e Campocroce, il Monte Grappa.
Una salita da Tour, 18 chilometri, una montagna dove si fece la Storia della Grande Guerra.
Chissà cosa direbbero, vedendo i girini, i ragazzi del ’99, i bocia alpini.
Di quanto sangue è fatta l’Italia, di quanto sangue è fatta l’Europa.
Numero di Giulio Pellizzari, sulla prima ascesa, che parte dal plotoncino dei migliori e piomba – staccando quasi tutti – sui fugaioli rimasti.
Il marchigiano, data di nascita 21 novembre 2003, il corridore più giovane della corsa, è la rivelazione di queste tre settimane.
Ha margini di miglioramento importanti (pedalata, guida del mezzo in discesa, tono muscolare), potenzialmente era ciò che mancava a Bicitalia da almeno tre lustri.
Lui, Alessandro Tonelli e Pelayo Sanchez, tra discesa e dentone de Il Pianaro, arrivano a 2’30” sul gruppo Pogacar, che ha ancora cinque UAE Emirates a disposizione, prima del Grappa bis.
Non piove più, anzi c’è il sole, e Pellizzari va a manetta.
Folla a mucchi, tante bandiere slovene, doppie file di spettatori e sdraio e tende.
Gli ultimi due vagoncini di Pogi sono il metronomo Novak e il regista Majka.
Ai meno 7 dal gpm, 1’30” di vantaggio, Pellizzari cala di frequenza, mentre il polacco incrementa il ritmo.
Si staccano di qualche metro G (che oggi compie 38 anni) e O’Connor, Arensman rimbalza più indietro.
Pogacar lascia la compagnia (impotente) ai meno 6, in 1300 metri raggiunge Pellizzari e – tra i sassi e i moicani urlanti – è quasi costretto a lasciarlo.
A 34 chilometri dal traguardo, Tadej Pogacar, nel pandemonio, mette il sigillo al Giro 2024.
Centomila sul Grappa: forse troppi, per quelle stradine, e quel dannato vizio dei fumogeni.
51’58” dello sloveno, quasi 21 orari, 6 e 2 watt al chilo, 1700 di VAM, 2 minuti di vantaggio sugli inseguitori (?).
Un quarto d’ora a 450 watt medi.
Fuori categoria.
Nel rimasuglio selvaggio della GC, su Il Pianaro, i sette superstiti si spezzano e si ricompongono in un mikado continuo.
Pogacar sfila in Bassano, sotto il cielo azzurro e circondato da un muro di folla, laddove vinsero pure Coppi (1946) e Merckx (1974), da Campionissimo.
A 2’07” Paret-Peintre precede Martinez, Tiberi, Rubio, Pellizzari, Thomas e O’Connor.
Il sorprendente Michael Storer a 2’31”, Arensman e Hirt a 3’08”, Bardet (crollato) a 7’37”.
Sono quasi 10 (9 e 56 secondi) i minuti che separano la maglia rosa da Daniel Martinez, che compone i lati del podio con l’ex capitano G.
Quinto posto e maglia bianca per un Tiberi molto convincente.
Un volo charter aspetta la ciurma.

26 maggio, Roma

Cartoline dalla città eterna che, da un elicottero o un drone, è un unicum di bellezza e storia.
Il punto di vista dell’asfalto, dei ciotoli, rivela altro: una catramatura che suggerisce sabbie mobili secolari.
Chissà se e quando le città metropolitane, Roma e Milano, accetteranno – sul serio – il Giro e la bicicletta a mo’ di messaggio universale e italiano. Per la cronaca, una passerella ma mica tanto, un Gran Premio Liberazione, s’impone in una volata (furiosa) Tim Merlier, sulla maglia ciclamino Milan. I due sprinter finiscono 3 pari.

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Un marziano a Roma, vestito in rosa.
Quando si cominciò a raccontare di Pogacar, era il 2018 e aveva 19 anni.
Vinse il Tour de l’Avenir, il Giro del Friuli, in Cechia un’altra gara a tappe, e il tam-tam narrava di wattaggi peso potenza che parevano improbabili.
Alla Vuelta 2019, osservandolo bene, capimmo che quelle cifre erano reali.
Al di là della crono, analizzata a parte, quest’anno lo sloveno pedala – in salita – con una posizione bassa in sella, avanzata: pattern del Chris Froome che fu.
Il torace si comprime meno, nella respirazione, la pedalata è più pulita nei passaggi sui tempi morti e l’arto carica con meno stress.
Quando lo paragonano a Eddy Merckx, scambiano la quantità per la qualità.
Il Cannibale era la forza (mentre Patrick Sercu era la velocità..), sprigionava un mare di potenza sulla strada: prendeva a calci la bici.
L’unico riferimento, ammirato in differita, è Fausto Coppi.
La Bianchi del Campionissimo – pre 1953 – pesava più di 12 kg e montava ruote con 40 raggi e gomme da 350 grammi.
Ma, con quei catenacci, faceva agilità – in progressione – su ogni terreno.
Pogacar va in cyclette, con quegli stantuffi (cit. Ernesto Colnago), a 90-95 di frequenza di pedalata sui gpm, sui muri, sulle strade sterrate, sui falsopiani.
E’ il più grande atleta contemporaneo, assieme a Mondo Duplantis.
Dopo una settimana di stacco (attivo), Pogacar ricomincerà da Isola 2000.
Al Tour, più che Tadej, testeremo il suo principale avversario generazionale, ovvero Remco Evenpoel.
Poi l’ultima thule di Primoz Roglic e un possibile (difficile) rientro di Jonas Vingegaard, che non avrebbe comunque – al suo fianco – lo squadrone del biennio 2022-23.
Si riparte ancora dall’Italia, da Firenze, il 29 giugno.
Sarà un bagno di folla, il Tour italiano per tre giorni e mezzo, e l’ennesima occasione persa.

“In Italia, la linea più breve tra due punti è l’arabesco.”
(Ennio Flaiano)