IL TOUR, IL GIRO, WIMBY, LO SCRIBA, IL MUNDIAL ’82 E ALLYSON

Taccuino di luglio scritto a giugno con le temperature di agosto.
La definizione di riscaldamento globale, per il più grande iperoggetto creato (?) dall’uomo, è addirittura rassicurante: questa specie di Pirocene è un incidente stradale di massa.
L’umanità intera dentro l’auto: dobbiamo solo decidere a che velocità schiantarci.
Fossimo l’animale più intelligente della terra, ragioneremmo su una bella frenata, onde evitare un’estinzione simile (e contraria, nelle dinamiche) a quella dei dinosauri.
Malgrado brontosauri e T-Rex non distruggessero l’ambiente per un bisteccone e un SUV.

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119 anni e non sentirli, anzi un giovincello, il Tour de France partirà con una tre giorni danese.
Per euro (tanti, almeno 90 milioni spesi) e amore.
Della Danimarca per la bicicletta, nel paese che vanta la rete di strade ciclabili più organizzata del continente, della cultura (verde smeraldo) che rappresenta e per un mezzo che – lo scrisse Ivan Illich su Le Monde nel 1973 – è stato il passato e sarà il futuro del mondo.

“Mamma, sono in Paradiso.”
(Piero Manzoni, scrivendo da Herning)

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A dispetto di una partecipazione da blockbuster, e col covid endemico che gira, il colossal ASO potremmo riassumerlo in un “Tadej Pogacar contro la Jumbo-Visma”.
Il principe sloveno alla caccia del tris consecutivo, roba da tourannosauro (settete: Louison Bobet, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Miguel Indurain, Darth Vader da Austin e Chris Froome), opposto alla multinazionale olandese.
Primoz Roglic, capitano designato, all’ultima occasione, coadiuvato dalla crema della crema.
Le api hanno un piano tattico con un D-Day preparato, improvviseranno o replicheranno il Team Sky che fu, coi vagoncini à bloc?
Il percorso è a dir poco tosto, col pavé e una sezione alpina feroce (Col du Galibier e Col du Granon, Col de la Croix de Fer e Alpe d’Huez nel dittico): solitamente, col ricciolo in senso orario, le Alpi neutralizzano i Pirenei.
In questi mesi, abbiamo visto un Rogla sì vincente, ma salvato da un gigantesco Wout Van Aert nell’ultima frazione della Parigi-Nizza.
E salendo Plateau de Solaison, a Lé Dauphiné Libéré, era evidente che Jonas Vingegaard gli stesse tirando il collo – nel finale.
Gli squadroni, nella storia della Grande Boucle, sovente implodono in diretta: e ai tempi de La Vie Claire, una soap opera, come testimoniamo ne “In Fuga Dagli Sceriffi”, non c’erano ancora i social e i procuratori, per loro fortuna.

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Il Giro donne è appena iniziato dalla Sardegna.
Una corsa molto più valida tecnicamente dello strombazzatissimo Tour che arriverà in coda, a quello maschile, dal 24 luglio.
L’Anita prevede un Annemiek van Vleuten contro tutte.
Tappe chiave, il 7 (la settima..) da Prevalle al Passo di Maniva, nelle Prealpi bresciane, poi (il dì seguente) la Rovereto-Aldeno in Trentino.
Il duo FDJ Marta Cavalli e Cecilia Ludwig pare l’ideale per testare i limiti (quasi sempre tecnici) della olandese.
Altre dame da classifica, Juliette Labous, Joscelin Lowden, Elisa Longo Borghini e Kristen Faulkner.
Di lignaggio assoluto il resto, le velociste e le passiste velocissime, classicomane.
L’iridata Elisa Balsamo, Lotte Kopecky, Emma Norsgaard, Rachele Barbieri, Marta Bastianelli.
E ci sarebbe anche Marianne Vos..

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Seconda settimana di Wimbledon alle porte, la biodiversità dei primi giorni (con i prati che restituiscono meno i rimbalzi) fa spazio piano piano all’erba battuta.
Nelle stelle, il sessantesimo Rafa versus Nole.
In un evo di transizione infinita, si guarda sempre ai due mammasantissima rimasti.
Tre set su cinque, con la generazione di mezzo fallita, Matteo Berrettini (l’alternativa più seria) covidato, siamo alla fase Godot (Denis Shapovalov, Stefanos Tsitsipas, l’infortunato Sasha Zverev) o alla sperimentazione (Carlos Alcaraz, Jannik Sinner..) per la missione impossibile.
Più che a Rafa Nadal, nel mezzo del cammin del Grande Slam, Wimby 2022 misurerà il polso a Novak Djokovic.
Che l’anno scorso vinse, col braccio fuori dal finestrino, all’80 per cento di quello che fu: pur scentrando dalla parte destra, basterebbe quel Nole per arrivare alla seconda domenica.
Come sottolineato da Nikolaj Davydenko: tirano tutti più forte di dieci anni fa, le nuove leve, giocano tutti peggio (a tennis..) rispetto al passato.
Sulla terba, dove si vive più d’istinto, costretti dal manto, il bordone è ancora più evidente.
Con l’asterisco di qualche panda (Tim Van Rijthoven, Ugo Humbert, Maxime Cressy, Nick Kyrgios..).
Il torneo femminile è una tombola tra una ventina di partecipanti e Iga Swiatek.
La polacca, tutto meno che un’erbivora, è la numero uno con più distacco sulla concorrenza dai tempi di Steffi Graf prima di Monica Seles.
Altrove, è una festa del tennis ignorante: una serie di amazzoni sognano sette match alla Marion Bartoli 2013.
Il vedovato, scattato col ritiro di Ashleigh Barty, a Church Road assumerà toni viscontiani, crepuscolari.

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Vent’anni fa, alla chetichella, a Wimbledon cominciava l’età dell’omologazione.
Il cambio d’altezza dei fili d’erba a 8 millimetri, l’adozione del loietto inglese modificheranno approccio tattico e tecnica balistica dell’evento clou.
Coinvolgendo, a valanga, tutto il gioco.
Le riforme dell’ATP di Andrea Gaudenzi non prevedono idee tecniche, bensì prospettive procteriane, basate solo sugli effetti finanziari e mediatici del giocattolo.
Un ex tennista che cerca gli adolescenti di Tik Tok, le sponde arabe e orientali, e non bada nemmeno a un 1000 sull’erba.
Nessuna discussione sui conflitti d’interessi (multipli) nel circuito, zero regole sui materiali, le superfici, gli specialisti che non esistono più.
Il coaching ammesso accentua la calcistizzazione, (una fiction) accettata da tutti, ricchissimi e poveracci.
Quando, durante gli anni Zero (e Dieci), abolirono il vecchio hardcourt, diffondendo il cemento colla anche nella dimensione indoor, si raccontava del troppo logorio fisico, traumatico, del DecoTurf e del Rebound Ace.
Eppure oggi abbiamo quasi tutta la noblità ATP infortunata o reduce da un’operazione chirurgica.
E’ sparito un dibattito sul Court Pace Index, il fattore chiave che indirizza la lettura agonistica, preferendo il robotennis e sdoganando una medicina sportiva invasiva.

6

Gianni Clerici è andato oltre.
Uno scrittore prestato allo sport e un testimone intelligente dei tempi (che correvano e corrono come macchine impazzite).
Nei coccodrilli, talvolta così enfatici (e finti) che avrebbero fatto sganasciare dalle risate lo Scriba di Como, insistevano sullo stile (impeccabile) del nostro, smarrendo la sostanza del suo sguardo.
Che sull’atletica leggera con racchetta, a colpi di ironia e tocchi di fino, ci aveva messo in guardia da eoni.

“Mentre le sorelle Williams deprecavano i controlli – vorrei vederli entrare in casa mia senza appuntamento, si indignava Venus – e addirittura affermavano di ritenere i prelievi contro la legge umana e divina, veniva bloccato l’argentino Coria.
Prontamente riammesso prima che si appellasse al TAS (tribunale dello sport), dopo una vicenda che costava alla ATP 110000 dollari.
I soli a scagliare accuse feroci erano un paio di francesi, Santoro e Escudé, subito rimproverati e zittiti dalla ATP.
Sembra di poter affermare che: 1) La presenza di tre organismi, ITF (Federazione Internazionale, che gestisce i 4 Slam e la Davis), ATP e WTA non giova alla gestione, anche se c’è un accordo. 2) L’interpretazione buonista delle cause ha fin qui svuotati i regolamenti, e favorito una sorta di amnistia permanente. 3) L’interesse ad una immagine idilliaca di questo sport non sembra contribuire all’applicazione delle regole.”
(12 gennaio 2004, La Repubblica)

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Anticipato in tempi non sospetti, soprattutto dalle indagini USADA (2012) e dal dossier fiume dell’AFLD (2013), è accaduto ciò che si sospettava.
In un universo professionistico soggiogato dalla performance, i giochi (le discipline che si basano su un oggetto, un attrezzo, una palla, una pallina, un pallone) hanno soppiantato gli sport (una volta, i soli contesti di performance pura) nella ricerca (costosa) delle metodologie scientifiche sportive.
Mentre facevamo della pornografia su Epolandia, indugiando sui particolari morbosi ed evitando il quadro complessivo, robosport diventava sistema laddove la prevenzione e l’antidoping erano e sono autogestione privata di imprese e marchi garantiti da potentati.
Che a Parigi lo si celebri, quando – fino a poco tempo fa – si contavano i puff degli atleti, ha qualcosa di lunare e distopico.
Trattasi della chiusura di un cerchio, aperto a Chatenay-Malabry nel 1998.
Quando la FIFA pretese e ottenne la distruzione delle provette delle analisi della Coppa del Mondo di calcio.

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Quarant’anni fa, Espana 1982.
Lo zenit delle rassegne calcistiche internazionali, in quello che fu l’evo d’oro del football moderno.
Da Mexico ’70 a Italia ’90, la parabola più alta del gioco (dal Brasile con quattro 10, l’arancia meccanica fino a Dieguito..), il cui prologo furono il 1954 dell’Aranycsapat e il ’58 dello sbarco del duo Pelé-Garrincha.
Il Mundial spagnolo, per qualità e quantità di gare importanti e temi, sembra sceneggiato da Billy Wilder.
Le settimane a Vigo, cortesia del ras Artemio Franchi, furono benedette per l’Italia: il clima atlantico della Galizia, più fresco rispetto alla canicola della Catalogna e dell’Andalusia, risparmiò le gambe degli azzurri.
Che vinsero contro tutti, raccogliendo la semina del Mondiale argentino: una parabola psicofisica opposta e uguale (allo specchio) con la squadra del 1978, altrettanto forte, forse persino meglio in certi elementi (Roberto Bettega, Franco Causio all’apice, il jolly Renato Zaccarelli).
Si abusa della definizione match del secolo, ne esisteranno almeno una dozzina nella storia della Coppa, ma l’82 fu pantagruelico.
Germania Ovest contro Francia e Italia-Brasile.
Successe il finimondo tra i panzer (fortissimi e spaccati in clan nemici) e i galletti: l’MVP del torneo Pierre Littbarski (i tornanti con la tecnica da 10: vedi pure alla voce Bruno Conti), Harald Schumacher che tentò di uccidere Patrick Battiston, il foot champagne di Michel Platini e Alain Giresse, spreconi opposti al cinismo dei Paul Breitner e Uli Stielike.
E il Sarria bollente col calcio verticale dei ragazzi di Enzo Bearzot e l’eccezionalità tecnica, nel palleggio e nelle trame, di uno squadrone con Zico, Falcao (un fuoriclasse), Socrates, Toninho Cerezo, Junior (terzino!).
Paolo Rossi, riassunto in quei tre gol (della vita), un attaccante che spiegava la scuola italiana, l’essenzialità del saper giocare negli spazi e sfruttarli col fosforo e la reattività.
Come faceva, in difesa, Gaetano Scirea.
L’82 divenne irripetibile per la combinazione di elementi: tasso tecnico delle nazionali, c’erano ancora le scuole (e le distinguevi), incroci generazionali e partite incredibili.
Anche assurde, al pari di Kuwait-Francia, con l’invasione di campo dello sceicco, o la combine tra Austria e Germania Ovest per buttare fuori l’Algeria.
Che scioccò il mondo battendo i tedeschi, nel girone d’apertura, con la coppia d’assi Lakhdar Belloumi e Rabah Madjer.
Un Brasile-URSS splendido e tesissimo, quella FIFA era corrotta almeno quanto questa, e Spagna-Honduras coi padroni di casa portati al pareggio dalle giacchette nere: poca cosa gli iberici, prima della Quinta del Buitre e del secondo avvento di Johann Cruijff.
E ancora la tripletta di Zibì Boniek in Polonia-Belgio e il derby sudamericano – caldissimo – tra la Selecao e una Argentina divisa tra i 21 anni di Diego Armando Maradona e la banda del caudillo Daniel Passarella.
Quarant’anni fa, quel calcio – senza nemmeno un briciolo di amarcord (nostro) – si è polverizzato, e oggi – con la Champions League e lo sportswashing a dominare la scena da eoni – la montagna sacra ha partorito un ratto, ovvero Qatar 2022.

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Oltre la morte di quel calcio, il Mondiale ’82 ci ricorda il cambio della guardia mediatico, fragoroso, tra il movimento azzurro prima del Sarria e del Bernabeu, e quello dopo (1982-2006 o giù di lì), della Serie A più grande di sempre (l’NBA dei campionati pallonari).
Un mutazione giornalistica epocale, qualità e scrittura, analisi tecnica e colore, si annunciò quel mese.
Non che fosse già una realtà, subordinata ad altro tra giornali e tivù, ma il teatrino di Aldo Biscardi irruppe col verosimile, il Barnum, come elemento pop.
La liturgia della Domenica Sportiva, compassata e competente, del quotidiano e del settimanale oracolo, presi a spallate dal Bagaglino del calcio (?).
Bearzot dileggiato da Helenio Herrera, che definì il cittì “l’allenatore del Prato”, tra le risate del pubblico, fu la stessa persona beatificata qualche settimana dopo, dagli stessi calunniatori catodici e cartacei.
Un salto sul carro del vincitore, con tuffo carpiato, senza precedenti.
Progressivamente, quella vittoria (storica) modificò lo status del gioco e dei suoi protagonisti, non solamente i calciatori ma l’ambiente (miracolato) tutto, per sempre.
Il racconto, destinato a un tifoso cliente, si trasfigurerà in una nuova forma di pornografia.
Le paginate di mercato, le analisi dei torti arbitrali, i complotti, gli annunci dei padroni del vapore, le fotine delle mogli e delle fidanzate, il match dell’anno ogni sette giorni.

10

La rassegna iridata di Eugene incalza.
A ridosso delle Olimpiadi giapponesi, in una sequenza che passerà il testimone a Budapest (2023) e a Parigi (2024).
L’Oregon avrà sul manifesto soprattutto le donne, (afro) americane, e una Sydney McLaughlin “for the ages”, ammirata ai Trials nei 400 ostacoli ad altezze siderali.
Mancherà invece, a meno di improbabili convocazioni, per la primissima volta dal 2003 (!), Allyson Felix.
Che dell’atletica – nel ventunesimo secolo – è stata l’immagine più elegante e la velocista più continua e versatile.
Quella falcata inconfondibile, prossima alla perfezione estetica e performativa, ha sfidato e battuto generazioni di rivali e colleghe.
Non sono solo gli allori, i sette ori olimpici, le diciotto medaglie mondiali, a ridefinire la grandezza della Felix.
E’ stato anche il suo mettersi in discussione come donna atleta, la causa intentata alla Nike per la clausola che sospende (va) i benefici economici nei casi di maternità: la capacità di proporsi come modello senza svendersi.
Sottolineiamo anche noi la (leggendaria?) staffetta 4 x 400 a Tokyo, l’anno scorso.
Lei, la McLaughlin e Athing Mu (più Dalilah Muhammad): 3 minuti e 16 secondi (85 millesimi) che sintetizzano un bel pezzo di storia dell’atletica femminile statunitense.