CARTOLINE DA SANREMO. IL MONDO PARALLELO DELLA FIS. ELGIN

Taccuino retroattivo di primavera, per sottolineare ciò che dovrebbe essere scontato ma – con queste lune – non lo è.
Poiché il dettaglio, magari l’ultimissimo (fino al prossimo), è diventato più importante del quadro complessivo: dunque un’opinione stupida, contraddetta dalla realtà (che esiste, non è manipolabile malgrado photoshop), diventa parte integrante del dibattito.
Se così sarà, ancora per un po’, saremo fottuti.
E troppo stupidi, senza cultura, per capirlo.

1

Jasper Stuyven si aggiudica – con merito – una Milano-Sanremo classicissima.
Presunta noia regale per sei ore, a 45 orari di media (col venticello da nord est che sull’Aurelia aiutava), e poi fuochi d’artificio tra Costa Rainera e il Poggio (salita e discesa).
La vince leggendo perfettamente la situazione, al termine della picchiata su Sanremo: i due più forti (Wout Van Aert e Caleb Ewan) senza compagni, gli altri senza gambe (Mathieu van der Poel) che li marcavano.
Il belga fa il numero da classicomane: coglie l’attimo come si fa (faceva) nelle gare come la Classicissima dei Fiori.
Ha dell’incredibile che qualcuno dipinga un talento così, iridato juniores 2009, quarto alla Roubaix 2013, vincitore della Het Nieuwsblad (2020), di un Gran Premio della Vallonia (2018) e una Kuurne-Bruxelles-Kuurne (2016), a mo’ di carneade.
Per un classe 1992 trattasi dell’approdo (felice) della sua carriera e del rilancio – definitivo – della stessa.

2

La Sanremo, più o meno a ogni edizione, viene criticata per la sua immutabilità, un Panta Rei di 299 chilometri: la scoperta dell’acqua calda.
Il fascino perverso di questa monumento è proprio la sua illeggibilità.
Una lotteria, una roulette tra i migliori: che sono sempre velocisti resistenti o finisseur.
Non è banale (sic) come la Ronde, la gara selettiva (muri, acciottolato, ventagli, attraversamenti cittadini, freddo, pioggia, cadute..) per eccellenza.
Al Fiandre ci si impone – solitamente – di forza e di mestiere: a ogni passaggio, il gruppo si screma impietosamente.
Alla Sanremo si deve stare sotto le foglie, quel chilometraggio non fa prigionieri.
L’anno scorso, l’8 agosto 2020, l’approccio alla Cipressa fu molto più arduo: le Langhe e l’Alta Val Tanaro rimasero nelle gambe.
Con più Aurelia le differenze si assottigliano, ma il bordone rimane lo stesso.
Ed è – se analizzato tecnicamente – una primula rossa: di corse televisive, che finiscono su una rampa di garage, ne abbiamo già troppe.
La Sanremo è un unicum: accade anche se pare non accadere nulla, con un epilogo difficile da interpretare.
Amen.

3

I paragoni (improbabili) con le Strade Bianche – una gara bellissima che nulla c’azzecca col contesto sanremese – vengono chiariti dalla sotto prestazione dello straordinario Mathieu van der Poel.
Salendo verso Piazza del Campo, 184 chilometri, con la gara saltata in aria già dopo 130, i wattaggi da scooterino sono più semplici (..).
L’uno contro uno li esalta.
Ma sul Poggio, dove si è andati forte forte (5’52”), con 115 chilometri in più e meno benza nel serbatoio, il fuoriclasse olandese ha mostrato i suoi limiti, soprattutto tattici.
Correre su strada da ciclocrossista, prendere l’ultima rampa indietro nel plotoncino, non paga.
Le Strade Bianche sono quasi un altro sport: più divertente, ma meno valido come valori assoluti.
Il ciclismo, per sua fortuna, ha mille sfaccettature.

4

Degni di eccessi alcolici, i giudizi – tranchant – sulla gestione di Filippo Ganna da parte del Team Ineos alla Sanremo.
Ganna, l’unico talento fuori categoria del ciclismo italiano con prospettive futuribili, non è (ancora) adatto a quel tipo di corsa.
Un motorone, quello sì, ma senza lo strappo e – forse – la distanza per reggere la mezzora decisiva.
Assurdo che lo si definisca, in mancanza di alternative tricolori, penalizzato dalle strategie di una squadra che lo sta facendo crescere piano piano.
Bastava osservare Ganna alla Tirreno-Adriatico: quando i ras menavano, si sfilava.
Non stava nemmeno bene, stato influenzale, e il (suo) cannone è puntato altrove, verso Tokyo (e il Giro).
Repetita iuvant, Pippo lo aspettiamo al Velodromo di Roubaix, tra qualche anno, da quando aveva 17 anni: la concorrenza generazionale – ahi lui – è mostruosa.
Illudere il pubblico generalista, dipingendo Top Ganna come il nuovo Cancellara (che c’è, ma è belga e si chiama Wout Van Aert..), crea false aspettative.
Quando dovremmo invece sottolineare che il movimento italiano è diventato – da tempo – terzo mondo del pedale.
Atleti, squadre, dirigenti, media.
E che la nottata è appena cominciata: inutile aspettarsi analisi (serie) da chi, per rendita e visibilità, è correo di una situazione allo sbando.

5

Elisa Longo Borghini si aggiudica di giustezza il suo secondo Trofeo Binda.
Il tracciato, un su e giù continuo nel Varesotto, la ispira: va via (da sola) a 25 chilometri dal traguardo, rispondendo a un tentativo di Katarzyna Niewiadoma, firmando l’impresa.
Prima la campionessa italiana, seconda Marianne Vos (mica pizza e fichi..) a 42″, terza Cecilie Ludwig.
Nell’anno dei trenta, la maturità psicofisica – per la figlia di Guidina Dal Sasso – è una realtà: se aggiunge un’idea tattica (e tecnica) a quel passo, a quei wattaggi, potrebbe fregare – in una giornata importante – la profeta del ciclismo ignorante (Annemiek van Vleuten) e le altre papesse.
Bello l’uno-due della Trek-Segafredo, il sabato e la domenica tra Sanremo e Varese: sono pochi quelli che hanno compreso che, per un bel po’ degli anni Venti, il ciclismo tricolore di alto livello sarà femminile.
Longo Borghini, Elisa Balsamo (diventerà una ras), Chiara Consonni, Marta Cavalli, Letizia Paternoster, etc.
Non sappiamo se, culturalmente, siamo pronti (terzo e quarto potere): il nostro è un eufemismo..

6

Dovremmo raccontare che Godot – Alexis Pinturault – è finalmente arrivato.
Di Petra Vlhova che ha vinto una Coppa da operaia stacanovista, con Livio Magoni (il regista dell’operazione) che ha visto l’orlo del talento (quantitativo) della slovacca.
Oppure che Marco Odermatt è la cosa più simile a Pirmin Zurbriggen vista dai tempi di Pirmin Zurbriggen.
O che Katharina Liensberger, lesa maestà, sulla pappa (..) è molto meglio di questa Mikaela Shiffrin, in attesa di capire come l’americana si presenterà – l’autunno prossimo – con una base estiva di allenamenti.
Ma l’unica attenzione, una sorta di vetta dopo due anni di fesserie in serie, va al disastro della FIS.
Un’entità che gestisce clausole, sponsor e amici invece che la Coppa del Mondo e i suoi protagonisti.
L’epilogo triste, le proteste di alcuni (alcune), Lara Gut trattata come una bambina viziata (anche dalla Federazione elvetica che mai ha sopportato la ticinese, ricambiata dalla bionda) e un deja vu costante.
Nella stagione del team event, del parallelo, di Giochi Senza Frontiere, della Infront di Blatter.
Dei pendii da Coppa Europa, delle piste coi buchi, delle tracciature senza una logica tecnica, di calendari ideati da un gruppo di sadomasochisti.
Avevamo già visto queste baggianate ed era lo sci nordico: riuscirà la FIS ad ammazzare pure lo sci alpino?

7

Elgin Baylor è (stato) il più importante giocatore nella storia della pallacanestro.
Colui che creò il basket moderno: un esterno (..) che comandava il flusso e ribaltava l’inerzia delle partite, il primissimo, verticalizzando il gioco.
Baylor sta nella discussione – sul sesso degli angeli – del Più Grande di Ogni Tempo: e ci sta più di tutti.
Perché fu l’epitome dell’all around e del solista.
Lui era prima di Julius Erving, Magic Johnson, Michael Jordan, Le Bron James: li ha materializzati.
E’ stato il futuro anteriore catapultato negli anni Cinquanta.
Il suo uno contro uno suggerì la tattica del raddoppio difensivo: aveva il palleggio, arresto e tiro, l’entrata in hesitation, il finger roll, l’euro-step (sic).
Visse di prepotenza e di classe, rimbalzista e passatore fuori categoria, l’uomo che salvò i Lakers dal fallimento ricollocandoli a Los Angeles.
Il 1962 è il suo zenit e forse la singola stagione più dominante di un’ala piccola (e di un giocatore tout court) nella storia dell’NBA.
Mentre prestava il servizio militare a Washington..
Una regular season a 38,3 punti e 18,6 rimbalzi di media.
Nei playoffs alzò l’asticella: le Finals cristallizzarono la sua grandezza (e la sua maledizione), opposto alla più forte squadra dI sempre.
Quei Boston Celtics la vinsero alla bella, contro un Baylor surreale a 40,6 punti di media e un high – in gara5 – di 61 (più 22 carambole).
La sua eredità sta lassù, a dispetto di un anello che mai arrivò.
Scoprimmo il 22 su carta, un Guerin Sportivo (e un articolo di Dan Peterson..): quando riuscimmo a recuperare i suoi filmati, pochissimi, ricostruimmo (vedendolo) l’evoluzione stessa del basket.
Perché nessuno ha anticipato la pallacanestro al pari di Elgin Baylor.