JULIUS ERVING (E TRACY MCGRADY)

JULIUS ERVING

Nell’evoluzione del basket, oggi sempre più dei cosiddetti esterni, Julius Erving è stato uno dei passaggi chiave.

Prosecuzione funk del grandissimo Elgin Baylor, con un po’ di Connie Hawkins nelle movenze, Doctor J innesta definitivamente lo stile, la fantasia del playground, nella pallacanestro organizzata.

Superdotato da Madre Natura di uno stacco da triplista e di mani gigantesche, che incartavano la palla a mò di arancia, avvenne tra UMass e l’ABA, prima coi Virginia Squires e poi i New York Nets.

Non aveva un tiro, ma poteva prenderseli tutti: il finger roll, il jumper alla tabella, la linea di fondo veleggiando in hesitation, etc.

In campo aperto, un’iradiddio.

Contro le difese schierate, le sue schiacciate divennero il simbolo di un’era: due generazioni di centri e di lunghi entrarono a far parte della fotografia, dalla parte sbagliata, con il marchio del Wilson in fronte…

Capintesta indiscusso dell’ultima ABA, due anelli in tre anni, farà la storia passando ai Philadelphia 76ers per sei milioni di dollari: i Nets, comprandosi il gettone per assicurarsi l’NBA, fecero anche seppuku.

Il Doc, che riporterà con Moses Malone il titolo a Philadelphia (1983), divenne il manifesto, il poster, della lega che stava esplodendo economicamente.

Nessuno come lui, considerando il rispetto (e l’amore) che si era guadagnato con la classe esibita, l’eleganza, dentro e fuori il campo.

L’ultimo anno, nel 1987, ogni ultima esibizione del nostro a domicilio venne festeggiata dalle altre franchigie.

Agonisticamente, la sua vetta alle Finals ABA 1976, opposto ai Denver Nuggets, suggello di una postseason da intoccabile (a quasi 35 di media) dopo una regular (col terzo MVP di fila) dove entrò nella top 10 di tutte (?) le categorie, tranne la percentuale dal campo.

Potrebbe essere anche nella bio dei Sixers, tale fu il suo impatto sulla franchigia e l’NBA.

Un particolare, mai abbastanza sottolineato: il suo MVP dell’81 fu il primo di un non centro dai tempi di Oscar Robertson nel 1964.

Rivoluzionario.

TRACY MCGRADY

La superstella più contraddittoria e incompiuta dell’era moderna, Tracy McGrady è in questo ritratto dopo aver lanciato la monetina, testa o croce: l’alternativa era Penny Hardaway, un altro numero uno (di nome e di fatto) per un momento troppo breve.

Tracy da Bartow (Florida) comparve dal nulla, liceale, al camp ABCD dell’Adidas: fu come l’apparizione della Madonna.

L’anno da senior aggregato a Mt. Zion, l’high school dei promessi All Star NBA, e il salto immediato – come andava di moda allora – nei pro.

Scelto da Toronto con la 9, era il 1997, crebbe come uno degli esterni più futuribili della lega con l’arrivo del cuginetto Vince Carter, che dei Raptors fu capintesta e centro di gravità permanente delle attenzioni.

Così, quando gli Orlando Magic offrirono la luna, e la possibilità di condividere le responsabilità con Grant Hill, tornò nella sua Florida.

Hill – ahilui – iniziò una via crucis di infortuni e con T-Mac non ci giocò quasi mai. McGrady invece, in un combo degno della lega di sviluppo, esplose: era il 2001 e le fattezze – per almeno un lustro – furono quelle del miglior esterno di Sternville. Sorry, Kobe.

Segni particolari: Most Improved Player, due volte capocannoniere, serate di onnipotenza assoluta, mai oltre il primo turno dei playoffs.

Il T-Mac mostruoso coincise pure con quella maledizione che, a Orlando, a (ri) vederla oggi, era logica.

Pensiamo alla serie del 2003 contro i Pistons primi a Est (che l’anno successivo vinsero il titolo): in una squadraccia che portò avanti, uno contro tutti a metà campo, 3 a 1.

Sfortuna volle che proprio quell’anno, coi Lakers a bagnomaria, l’NBA mise al meglio delle sette (partite) anche il primo turno.

Opposto a una delle difese più arcigne dell’evo fece i miracoli per quattro match: 42 punti in gara1 (17 nell’ultimo quarto), 46 nella seconda a 86.6 (!) di Pace, 27 punti, 9 assist e 5 recuperi in gara4.

Poi Larry Brown, semidisperato, scoprì Tayshaun Prince e a Tracy finì la benza: la bandiera bianca sventolò – in gara6 – con 37 punti e 11 rimbalzi.

Era The Natural in quei giorni, McGrady faceva tutto e al meglio in attacco.

Da fermo, accelerava e jazzava verso il ferro terrorizzando i lunghi. 2 e 04, il primo solista (con quell’uno contro uno) a disporre di un raggio di tiro senza limiti.

Da tre, fintando l’entrata, si elevava come un albatro.

Immarcabile, passava (scaricava) lo Spalding come Dio comanda (va).

The Big Sleep, che dichiarò il sonno come una delle sue attività preferite (sic), ruppe coi Magic – frustrato da una situazione mediocre – e accettò gli Houston Rockets.

Nulla, in fondo, si modificò: solo – piano piano – peggiorò.

Malgrado Yao Ming al fianco e performance stellari qua e là.

Pisolo fu quello dei 13 punti negli ultimi 35 secondi di una rimonta impossibile cogli Spurs nel 2005 o del losing effort, opposto a Utah in gara6 (2008), da 40 punti.

Schiena, ginocchia (divenne un caso clinico delle microfratture..), spalla.

T-Mac rimase al palo: un talento pazzesco, un po’ pigro, di sicuro una delusione e un rimpianto.

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