CORTINA DI SALE. GENERAZIONE GODOT. DOPING DI STATO. LARISSA BELLISSIMA. GLI ASSI DEL MONZA IN TRIBUNA

1

Pallini impazziti di fine febbraio, stile flipper anni Sessanta
(Settanta), qua e là.
Undici come gli anelli di Bill Russell e Stuy, Vasovic, Suurbier,
Hulshoff, Neeskens / Rijnders, Muhren, Cruijff / Swart, Van Dijk,
Keizer; ovvero i titolari dell’Ajax che – cinquant’anni fa – vinsero la
(prima) Coppa dei Campioni.
A Wembley, contro il Panathinaikos allenato da Ferenc Puskas: un segno
del destino, dalla Squadra d’Oro al Calcio Totale il foot moderno c’era
già tutto.

2

Cortina 2021 distribuisce allori e gloria ai campioni a 24 carati (Lara
Gut, Mikaela Shiffrin, Vincent Kriechmayr..) e agli outsider: uno
standard classico in questo tipo di gare dal fascino perverso.
La squadra di casa viene salvata – un argento, due quarti posti e un
quinto tra velocismo e slalom – dai maschietti, con la classe operaia in
paradiso di Luca Di Aliprandini (un’ex promessa rimasta nel limbo), il
ritorno di Dominik Paris e l’ascesa (lenta) di Alex Vinatzer.
Questi risultati non compensano il fallimento della valanga rosa, priva
dell’unica atleta di rango (Sofia Goggia) con le caratteristiche
tecniche adatte all’Olimpia delle Tofane.
Una slavina (sic) dilaniata da tensioni interne, veleni, molto
particolari: non una novità, nello sport femminile.
La concorrenza non sempre migliora e urge un’idea.
Se ci fossero i soldi, i team personali (privati) sarebbero l’optimum.
L’inadeguatezza comunicativa (inevitabile in un mondo dove si diventa
professionisti rimanendo “dilettanti” di Stato) nel fronteggiare il
successo, la fama improvvisa, aggiunge confusione al caos.
Ci sarebbe bisogno, non solo nello sci azzurro femminile, di una bolla
(..) che isoli – come un tempo.. – gli sportivi: rimanere in vetrina,
sui social, in tivù, a ogni ora, senza un apparato specifico a
supportarlo, alla lunga diventa controproducente.

3

Anticipata da un percorso netto in Coppa, di una regolarità fenomenale,
Katharina Liensberger sboccia definitivamente a Cortina.
Prima dell’oro stravinto nello speciale, un bronzo stendendosi e
rialzandosi (alla Ingemar Stenmark) nel gigante, a 9 centesimi dal
metallo più prezioso (della Gut).
Si era annunciata da sé, quest’anno, ed era evidente la sua crescita:
classe 1997, piccola ma tosta fisicamente, centrale nell’azione, due sci
due sempre sulla neve (sulla Druscié – nella seconda manche – scendeva
sul sapone ma era perfetta sul palo..), entrando e uscendo dalla curva
senza incidere con le lamine.
Il potenziale ci sarebbe pure nella velocità, con quei piedi.
La biondina sembra l’anti Shiffrin dei prossimi anni: dall’autunno 2021,
con una Mikaela a pieno regime, ne vedremo delle belle.
Liensberger esplode al momento giusto, nel paese guida del circo bianco
che è senza Marcel Hirscher (e Anna Veith).
Rimane un pezzo – da aggiungere – al mosaico della campionessa: come
reagirà, di testa, alla responsabilità e alla pressione di essere la
migliore del Wunderteam..

4

Non bastasse l’evento a squadre, il parallelo iridato ridefinisce il
concetto di concorso circense.
Che Giochi Senza Frontiere, ma senza Olivieri e Pancaldi, assegni delle
medaglie è l’ennesimo Wahnbriefe della FIS.
Il parallelo in diagonale, con un corridoio (quello blu) molto più lento
rispetto all’altro (la pista rossa), non bastava: l’espediente del
distacco massimo (nella prima gara) a 50 centesimi rendeva la buffonata
(televisiva) ancora più ridicola.
Quasi quanto i titoli celebrativi – italiani – del post: perché la
medaglia di cioccolato, rivestita di stagnola simil oro (o bronzo), a
Marta Bassino (o Tessa Worley) le umilia.
E’ la stessa Federazione che persevera con le riprese – Infront –
laterali e in primissimo piano: che non ci fanno capire le traiettorie,
ma inquadrano meglio gli striscioni pubblicitari.
Considerando quanto la FIS abbia contribuito al declino dello sci di
fondo, non pensiamo sia un caso che il biathlon – che si gestisce da
solo.. – rimanga lo sport invernale meglio organizzato..

5

A Cortina, in una settimana, si è passati da una specie di burian (ormai
tutti i venti freddi da est li chiamano così..) alla primavera marzolina.
Dal ghiaccio verde delle combinate al solfato degli slalom: su una pista
preparata ottimamente, l’inversione dei 15 nello speciale maschile è
parsa una decisione di buon senso.
Continuando il trend di temperature sempre meno invernali, in pieno
inverno (sic), con un’inversione termica in montagna che si mangia la
neve, temiamo per il 2026.
Gli arrivi a quota 1500 metri (leggermente sopra per la velocità)
potrebbero regalarci la visione di strisce bianche circondate da prati
verdi.

6

A Melbourne, come volevasi dimostrare, si impongono due dei vip di Adelaide.
Per Novak Djokovic, annunciato al (sospirato) 18, è stato uno Slam
importantissimo, vinto col servizio e una lucidità tattica da antologia.
Dei due sfidanti, promessi slammer (giovani ma non troppo), quello più
vicino alla missione impossibile – ovvero eliminare Nole – è stato
Sascha Zverev ai quarti.
Tre set su quattro avanti di un break, con l’inerzia a favore, il
tedesco ha mostrato le doti consuete: tanta quantità, qualità sospetta,
un tennis di mazza ferrata col Pampers.
Per smontare Daniil Medvedev in finale, fin lì (quasi) irresistibile, il
serbo aveva (solo) due opzioni.
Le accelerazioni sul diritto del russo e un po’ di variazioni sul
rovescio dell’orsetto spilungone.
Alla perfezione esecutiva del serbo, inenarrabile nella risposta
(anticipata) su fendenti a 210 orari, è corrisposto un Medvedev confuso
e infelice, fuori (sincrono) di testa.
Che sul più bello, all’inizio del secondo parziale, è uscito dal match
sparacchiando a salve.
E’ la terza volta che capita, al buon (..) Medvedev, negli incontri che
contano: accadde contro Rafa Nadal alle ATP Finals 2019, quando impazzì
dopo aver sprecato un match-point (avanti 5/1 nel terzo parziale), e
nella semi degli US Open 2020 opposto a Dominic Thiem.
Una fragilità nervosa evidente: e la scoppola rimediata domenica rimarrà
nel hardware a lungo.
Per Djokovic è un balsamo di lunga vita: ha compreso che un bel pezzo
del ’21 dipenderà dalla sua programmazione (accorta).
Come si era visto nel quarto tra Nadal e Stefanos Tsitsipas, comandato
per due set e mezzo dal maiorchino, le uniche incognite dei ras
rimangono il consumo del corpo e la benzina nel serbatoio.
La cosiddetta Next Gen può attendere ancora: forse ci conviene
ribattezzarla generazione Godot.

7

La calcistizzazione del tennis regala una storia come quella di Aslan
Karatsev, il russo errante in ogni senso.
A rimbalzo, da entrambe le parti, tira fortissimo.
Numero 114 ATP, dalle buche dei challenger alla semi alla Rod Laver
Arena contro Djokovic.
27 anni, cabeza che va e viene, arriva da una vita di viaggi (in
economica) per raggranellare dindi: Giaffa e Tanganrog da bimbo, poi
Halle, Barcellona e Minsk.
Mantenersi nel circuito, pagarsi le spese e il resto, è diventato un
mestiere (..) che va oltre il tennis.
La domanda delle cento pistole è: quanti Aslan Karatsev smettono, prima
della svolta, e buttano a mare anni di speranze e illusioni?

8

Serena Williams viene battuta, senza nemmeno troppa fatica, da Naomi Osaka.
Nella semifinale nobile, il confronto tra chi è stata la numero uno più
a lungo di tutte e quella di oggi (e non badiamo alle classifiche WTA:
il dominio va oltre quei punti), è stato impietoso.
Williams, coi piedi di marmo, e i traccianti della giapponese che le
passavano a fianco.
Al di là degli atteggiamenti a volte sopra le righe, dell’aria da bulla,
dei completini improbabili, dei fan e delle fan che le hanno perdonato
tutto (troppo: per esempio quella finale a New York 2018, proprio contro
Osaka), Serena è stata campionessa più di tutte.
Se la più grande rimarrà Martina Navratilova, irraggiungibile, la
sorellona di Venus è stata la più forte.
Ha abbracciato ere geologiche del tennis e dello sport professionistico
come nessuna: esordì down under (1998) quando non erano ancora state
popolarizzate le luxilon, finisce con le racchette in titanio più carbonio.
Giocò a Wimbledon prima che si imponesse il lolium perenne e il taglio a
8 millimetri, si è esibita sul cemento colla (il Plexicushion) di certi
Aussie Open.
Inscalfibile, che vincesse (moltissimo) o che perdesse (poco), lei c’era
sempre.
Oggi, intrappolata in quel corpo da mamma e con la clessidra che scorre,
non pare più in grado di essere ancora se stessa – almeno una volta –
nelle due settimane di uno Slam.
Siamo all’epilogo, in questo 2021 bislacco, dell’atleta che più –
nell’evo moderno – è riuscita a caratterizzare (piegare) il suo sport.

9

Il curioso caso di Alex Schwazer si reitera, dispiegando molti temi del
rapporto (incestuoso) tra controllori e controllati.
Lo si era compreso, senza lo straccio di una prova, da eoni.
Gli schiamazzi, inevitabili se si tratta di culti esoterici (tipo
Pantanology), non ci distraggono dal ricomporre un mosaico il più fedele
possibile.
Bistrattata, due mesi e mezzo orsono, un’intervista a sports.ru di
Anfisa Reztsova, una leggenda degli sport nordici, illuminava ancora
meglio quei tempi.
Quando robosport si era impossessato del giochino.
Fottutamente russa, la Reztsova – senza volerlo – ci spiega (va) quella
mentalità.
Un minestrone di cose assurde ma (per forma mentis) logiche.
Non crede nel coronavirus, ma in Dio sì e nel potere salvifico delle
preghiere, la plurimedagliata di fondo e biathlon ci descrive un iter
agonistico a mo’ di fabbrica.
La selezione avveniva anche a letto, con gli allenatori, e
diversificando il doping di gruppo: i prelievi, tre o quattro prima
degli appuntamenti clou, e poi le iniezioni.
Racconta l’anabasi granguignolesca di Sergei Tarasov, ad Albertville
1992, che morì clinicamente (in albergo) dopo una trasfusione di sangue
conservato male.
Fu salvato in terapia intensiva, a Grenoble e poi a Novosibirsk.
L’ex campionessa sottolinea l’accelerazione nelle pratiche, dal ’96 in
poi: sempre più farmaci, costosi, pagati dagli atleti stessi ogni
quattro mesi allo staff medico.
Dopo le vittorie, le sbronze e le liti (per i premi in denaro), con i
faccendieri del Vory v Zakonye a presidiare il castello.
Negli ultimi tempi, Reztsova non sapeva cosa le iniettassero e nemmeno
le fregava: andava come una moto e le bastava.
Definisce Tamara Tikhonova e Olga Danilova due esperimentì (riusciti) di
laboratorio, Ljubov Egorova una persona malata (e puzzolente).
Leggendo tra le righe, il filo (rosso) ci porta alle sanzioni di oggi
contro la Russia.
E ci rammenta la solitudine lunare (e beata) di una Stefania Belmondo.

10

Lo sport italiano di altissimo livello, in una crisi che pare senza
soluzione di continuità, vede (nello specchietto retrovisore) una
fuoriclasse.
Larissa Iapichino è il più grande talento futuribile dello sport
azzurro: per la gioia di molti e lo scorno (dissimulato) di altri
(quelli con un concetto d’italianità che risale alla borghesia criminale
di “Tempo di uccidere”).
Un talento assoluto, genetico, cullato da genitori campioni.
Che devono gestire un patrimonio, magari ricordandosi di come si sprecò
Andrew Howe: la regola (aurea) è fare l’opposto di ciò che fece il clan
del reatino.

11

Se avete una nostalgia canaglia di quando la Serie A dei nostri
sceicchi, che arrivavano dalla Brianza, dalle colline torinesi, dai
Castelli Romani, dominavano in Europa.
O nostalgia delle (simpatiche?) canaglie: la cavalcata del Monza del
dinamico duo – Silvio Berlusconi e Adriano Galliani – ci riporta agli
anni ruggenti del Milan degli Invincibili.
Dei biancorossi, decenni fa, mentre lanciavano grandi talenti nel calcio
italiano (da Claudio Sala a Billy Costacurta, passando per Castellini,
Buriani, Massaro e Casiraghi), circolava la leggenda metropolitana che
non potessero permettersi – per ragioni strutturali ed economiche – di
essere la terza milanese in Serie A.
Così, meglio una sequenza di quarti e quinti posti, che la promozione.
Adesso, con quella coppia geriatrica di assi in tribuna, il sogno è alla
portata (di portafoglio).
La definizione di “sudditanza psicologica”, coniata con l’Inter di
Moratti e Allodi, applicabile ad altre ere, diverse ma uguali (la Juve
di Boniperti, quel Milan là, etc.), si materializza come un deja vu.
Succede che sabato scorso, nell’incontro chiave contro il Chievo, al
Monza – uno squadrone (per i criteri della B) che gioca da squadraccia –
venga permesso di tutto.
Botte a centrocampo, un rigore solare negato ai veronesi e anche due gol
annullati per fuorigioco (uno di sicuro regolare, ma la moviola tra i
cadetti non esiste).
Lo spettacolo da quattro soldi al Bentegodi ci ricorda – in versione
Lego o bonsai – cosa sia stata quella Serie A, fortissima e corruttibile,
che oggi si rimpiange.