JASI, LO STREGONE DI VILNIUS

Elogio in zona Cesarini, all’imbrunire della carriera, di un vecchio fusto: Sarunas Jasikevicius.

Culto cestistico da ormai tre lustri, prodotto della migliore scuola europea, forse mondiale se ne facessimo una questione di percentuale demografica, ovvero la Lituania.

Una terra che ha sfornato sempre grandi talenti, prima per l’Unione Sovietica, poi in proprio

Tralasciando le considerazioni, trite, tristi e breriane, sulla predisposizione della stirpe, sottolineremmo invece il sistema che hanno creato da quelle parti.

Che oggi coltiva, seleziona e premia le promesse autoctone e che, allora e adesso, consiglia (va) l’esperienza americana.

Saras a diciassette anni emigrò negli States: prima il liceo a Quarryville, Pennsylvania, e poi quattro anni a Maryland.

Dove giocò bene ma senza sfolgorare perchè, visto il fisico potente, fu impiegato tout court da guardia tiratrice.

Una posizione che, come dimostrerà all’apogeo della carriera, gradirà assai poco.

Il Jasikevicius di ritorno, anno di grazia 1998, era uno sbarbatello ignorato dalla moltitudine.

Ricominciò da zero o quasi, a Vilnius nel Lietuvos Rytas: ironia della sorte, per un adolescente cresciuto nel mito del grande Zalgiris degli anni Ottanta-Novanta.

Se Saras era ancora potenziale grezzo (diciotto di media in campionato) la svolta è dietro l’angolo.

La firma con l’Olimpia Lubiana e l’incontro con Zmago Sagadin furono il momento cruciale della sua evoluzione: in una sola stagione, all’interno di un sistema che ha rifinito dozzine di talenti, sbocciò lo Jasikievicius che conosciamo.

Sagadin, un visionario, lo spostò in pianta stabile in punta, nel ruolo di point guard creativa.

E quell’annata super, a un passo dalle Final Four, cambiò definitivamente la vita al nostro.

L’approdo al Barcellona ne confermò lo status: fu un triennio indimenticabile, con i blaugrana che si liberarono del gorillone sulla schiena.

Sfatarono il tabù Eurolega/Coppa dei Campioni nel 2003 quando, per inserire meglio Dejan Bodiroga e Gregor Fucka, il biondo si sacrificò accettando lo spot da due.

Il ringraziamento del Barca, dopo il triplete, fu il disinteresse nel prolungargli il contratto a cifre competitive.

Così facendo le volpi (..) catalane crearono i presupposti per il ciclo del super Maccabi, proprio durante l’estate dello storico oro lituano in Svezia.

Trionfarono sciorinando una pallacanestro equilibratissima, orologeria cestistica di pregio, con Jasi a fare da Valery Gergiev dirigendo Eurelijus Zaukauskas, Arvydas Macjiauskas, Ramunas Siskauskas, Darius Songalia…

“Individualmente non valgo Bodiroga, Nowitzki e altri. Non avrò mai il loro impatto su una partita. Ma mettetemi in campo con i giocatori giusti e io li trasformerò in giocatori migliori di quello che pensano di essere.

E vale anche il contrario…”

Appunto, Jasi è il figlio prediletto della più raffinata scuola tecnica del Vecchio Continente, l’Indiana del Baltico.

E’ un manuale di basket, non un superdotato alla Sarunas Marciulonis o uno scherzo della natura stile Arvydas Sabonis.

Fu il miracolo di Derrick Sharp allo Yad Eliyahu, un tiro da tre disperato proprio contro lo Zalgiris (!) del Principe, la finestrella della dea Fortuna che consentì il biennio dorato.

Oltre al 13, playmaker a ventiquattro carati, c’erano Anthony Parker, più forte “europeo” dell’epoca, Nikola Vujcic, il Cresimir Cosic dei poveri, Maceo Baston, l’uomo gomma, Deon Thomas, il già citato Sharp, Tal Burstein, Yotam Halperin.

A Tel Aviv, per dar a Cesare quel che è di Cesare, l’animus pugnandi lo portò Pini Gershon ma l’ideale tattico fu opera di David Blatt.

Conciliando l’estetica con il risultato, furono forse il meglio di sempre in Eurolega.

I dominatori gialloblu nascondevano una fase difensiva sospetta con un attacco di lusso, princetoniano: favoloso per timing e la qualità dei tagli e dei passaggi, nei dì più ispirati parevano un flipper, con le assistenze di tocco e l’arancia in movimento perenne.

Il Maccabi non contemplava come prima opzione l’inevitabile penetra e scarica, che ha reso certe contese contemporanee uno skeet olimpico.

E Jasikevicius, bontà sua, riuscì nell’impossibile: con lui il pick and roll, il bordone maledetto che caratterizza il basket postmoderno, smise di essere meccanico e ripetitivo.

Il palleggio sincopato, lo sguardo dall’altra parte e il pallone sinfonico al compagno: una fiondata, col polso spezzato, e un controllo del gesto con pochi rivali.

Paragonabile, al di là dell’Atlantico, ai sommi (Jason Kidd, Steve Nash, Chris Paul, Deron Williams).

Il sesto senso nella lettura dell’adeguamento difensivo altrui, l’anticipo sulle scelte degli avversari.

Il migliore nel passarla direttamente dal palleggio, senza toccare la palla con l’altra mano.

Un particolare, l’ennesimo, che in Europa lo accomuna a Mike D’Antoni.

Il resto, a dispetto della difesa telepass, è di altissimo livello.

Un jumper soffice, con il corpo leggermente in avanti.

Palleggio, arresto e tiro pregevole, di una rapidità (e un’efficacia) incredibili.

Convintissimo di non aver mai commesso fallo, un seganervi nel rapporto (complesso) con gli arbitri, trattasi del classico pistolero che adorava mettere il tiro della staffa.

Avendo la capacità di far le cose semplici nei momenti più difficili, il segreto di Pulcinella dei veri vincenti, risolse una camionata di contese sul filo.

Le italiane, ahinoi, sperimentarono l’assioma più volte: in blaugrana ricordiamo due montanti, in Top Sixteen, a Pesaro e contro la Benetton.

Con le insegne del Maccabi, un canestro alla Montepaschi allora diretta da Charlie Recalcati.

Una specialità della casa, esportata in NBA e anche contro i suoi esponenti più celebri.

Ad Atene 2004 la performance più clamorosa.

Quasi affiancabile al magistero nella finalissima devota 2005, opposto al Tau di Luis Scola, Macjiauskas e Travis Hansen.

Col doveroso asterisco che ci presta Tim Duncan (“Fiba sucks” sempre e comunque), Jasi smontò quasi da solo la possanza di un Team Usa imbarazzante per pressapochismo.

A meno di tre minuti dalla fine, americani sopra di tre (si erano spinti fino al +10) e palla in mano, Sarunas scippa Richard Jefferson.

Su un cambio difensivo, “chiama” il fallo di Lamar Odom e mette la tripla: 85-84 con il libero aggiuntivo.

Di là Allen Iverson sbaglia da sette metri, Jasi invece replica ancora dall’arco.

Altro errore yankee, stavolta Starbury (..), ma Duncan recupera il rimbalzo e la offre a Jefferson da tre: 88-87 per i biancoverdi.

Sarunas?

In trance agonistica, risponde con un’altra tripla spezzagambe.

Fece 12 punti in 2’47” sui 28 totali che scrisse a referto.

Un gran peccato che quel combo lituano, eliminato in semi da un’esibizione di tiro ignorante della nostra nazionale, non si sia giocato l’oro con l’ensamble dell’oltre States che più ci ha affascinato.

L’Argentina di Manu Ginobili, Andrés Nocioni, Fabricio Oberto, Scola, Pepe Sanchez: una cattedra dell’attacco flex e del quoziente intellettivo riversato sul parquet.

Chiusa l’esperienza israeliana, Jasi provò l’NBA e, malgrado un esordio promettente, ne fu respinto.

Ciccò la scelta della franchigia, avrebbe dovuto accontentarsi di poche svanziche, un annuale, e firmare per l’organizzazione che lo corteggiò più a lungo: i San Antonio Spurs.

Ai Pacers, al servizio di un Rick Carlisle fondamentalista difensivo, si ritagliò un bello spazio nella rotazione.

Agli Warriors invece, la squadra giusta nel momento sbagliato, finì in fondo alla panca.

Noi lo ritenevamo perfetto per i Suns di D’Antoni, come cambio di Captain Canada e al suo fianco in un quintetto estremo, lisergico.

L’avrebbero gradito pure in Arizona, forse il tassello mancante, l’ultimissimo, sulla strada per giocarsi una serie nel mese di giugno…

Rientrò, deluso il giusto, al Panathinaikos di Zeljko Obradovic per alzare il suo quarto trofeo di Eurolega nel 2009.

Negli ultimi anni, l’età e un infortunio al ginocchio ne hanno accentuato il declino.

Ma rimane, sulla singola giocata, ancora uno dei migliori nell’illustrare certe dinamiche celesti.

La scorsa estate, agli Europei organizzati accà, intruppato in una nazionale di transizione, lo ha dimostrato con la solita classe.

I pick and roll con Jonas Valanciunas, una sorta di passaggio del testimone tra generazioni, erano mozzafiato: piccole Variazioni Goldberg, decise dagli istinti superiori di uno stregone del gioco a due.

Oggi Saras, al canto del cigno o quasi, (ri) evolve nel Pana di Diamantidis.

Alla faccia della stagionatura e del tachimetro complessivo, i Verdi vorrebbero l’ennesimo scalpo.

Vedremo come andrà a finire, di sicuro non è un altro alloro che potrebbe farci cambiare le valutazioni sul biondo: non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore…

Pubblicato l’1 marzo 2012 da Indiscreto