LA RIVOLUZIONE BORGHESE DEL CANNIBALE: EDDY MERCKX, IL FLAHUTE ALFA

Cosa rimane da scrivere su Eddy Merckx?

Sono pochissimi gli sportivi di successo che possono reggere il confronto con il Cannibale, ci vengono in mente Edwin Moses e Toni Sailer: campionissimo del Novecento in una disciplina professionistica dura e spietata come il ciclismo.

Il merckxismo, fortunato neologismo coniato da Gianpaolo Ormezzano, impose la modernità a un mondo antico, conservatore per definizione, ma avanguardistico nella sua funzione.

In un rito per fachiri, caratterizzato dagli scorfani, introdusse l’atleta universale.

Fu, da solo, l’Arancia Meccanica dell’Ajax ma un po’ prima e soprattutto con una dirompenza inedita e universale.

Il giovane Eddy, prima di scegliere la bicicletta, fu boxeur, calciatore e giocatore di ping pong: il ciclismo gli regalò l’ebbrezza dell’impresa assoluta, epica.

Stravolse i canoni della pedivella, ridicolizzando stereotipi e leggende metropolitane.

Esemplari nel merito furono le tesi, vagamente lombrosiane, esposte dal grande Gianni Brera durante il Giro d’Italia 1968.

In un eccesso di particolarismo, o forse di fumi alcolici, sostenne che il corredo cromosomico del nostro, fiammingo, non gli avrebbe consentito di reggere per le tre settimane di corsa.

Dimenticandosi Philippe Thys e Sylvére Maes – fra gli altri – con quella sparata non comprese che Merckx era l’apogeo, la sublimazione, della scuola belga.

La specie flahute di Brik Schotte, i passisti del pavè e dei ventagli, portata alle conseguenze estreme. Eddy Merckx fu un Georges Ronsse all’ennesima potenza, il capociurma di una generazione bulimica di successi.

Re Edoardo come Attila: gli altri, il seguito, soldati Unni in cerca di gloria e denari.

Razziarono e saccheggiarono l’Europa ciclistica come nessuno, prima e dopo di loro.

C’erano Roger De Vlaeminck, Walter Godefroot, Herman Van Springel, Patrick Sercu, il povero Jempi Monseré, George Pintens, Freddy Maertens (l’erede designato ma non troppo), Lucien Van Impe, Frans Verbeeck, Ferdinand Bracke, Eric Leman, Roger Rosiers… Il Cannibale correva solo per vincere, con una continuità di rendimento straordinaria.

Quando irruppe sull’agone, i ras del plotone lo notarono subito: fu osteggiato da due mammasantissima degli anni Sessanta, Rik Van Looy e Jan Janssen, che pagarono a caro prezzo questo atteggiamento.

Eddy ne ha fatti smettere tanti; in salita come a cronometro, sul passo, in volata, anche pistard e ciclocrossista, sempre con una voglia ossessiva di competere e affermarsi.

Nacque borghese, benestante il giusto, con un’estrazione sociale lontana dagli sfregaselle classici, poveri in canna.

La fame per Merckx non è mai stata atavica bensì agonistica: lo muoveva un impeto nietzschiano contro gli avversari e pure contro sé stesso.

Non è un caso che il suo declino giunse presto, improvvisamente, e lo costrinse a scoprire il lato più atroce del mestiere: salendo in crisi il Monte Maddalena, al Giro 1976, venne sorpassato da colleghi che lo deridevano.

Avevano capito, sollevati dalla scoperta, che quel fuoriclasse era umano come loro.

Eppure, retroscena nascosto, Eddy avrebbe potuto essere fermato anni prima.

Enrico Peracino, suo medico alla Faema, scoprì che proprio durante il primo trionfo in maglia rosa (1968), sottoposto a elettrocardiogramma, evidenziò una miocardiopatia ipertrofica.

Con le regole odierne, non avrebbe avuto il permesso di correre.

Ma il cuore enorme, in tutti i sensi, non lo tradì mai. Ebbe uno squadrone zeppo di campioni che, per servirlo, divennero luogotenenti fedeli: Martin Van Den Bossche, Joseph Bruyere, Jos Huysmans, Roger Swerts, Giancarlo Bellini, Georges Vanconingsloo, etc.

L’avversario più pericoloso, a tappe, fu Luis Ocana.

Quello più continuo, da febbraio a ottobre, Felice Gimondi.

Delle quattrocentoquarantacinque (!) vittorie da pro, su strada, potremmo citare la tappa di Mourenx al Tour de France ’69, una cavalcata di 140 chilometri, oppure la terza Parigi-Roubaix (1973) dopo una fuga solitaria di quaranta chilometri e a dispetto di una caduta.

Il dì dopo L’Equipe titolò “Merckx au-dessus de Merckx” (“Merckx al di sopra di Merckx”).

Ma il mondiale di Mendrisio, anno di grazia 1971, fu perfetto nell’illustrare lo strapotere dell’orco del Brabante.

Eddy arrivava dall’epopea di un Tour vinto, a dispetto di un Ocana stellare (e sfortunato).

Il tracciato selettivo e il caldo furono la benzina della contesa. I belgi, padroni della corsa, annullarono un tentativo a quattro comprendente Franco Bitossi, Joop Zoetemelk, Giovanni Cavalcanti e Swerts.

Allo scatto di Leif Mortensen e Cyrille Guimard, Merckx cominciò la selezione: si portò sui due col fido Georges Pintens e la coppia azzurra Gimondi e Giancarlo Polidori.

Il gruppo principale alzò bandiera bianca.

A un giro e mezzo dalla conclusione, Eddy attaccò: l’unico che riuscì a restargli in scia fu Gimondi.

Il Cannibale provò a staccarlo più volte, con una serie di accelerazioni che parevano coltellate alle gambe di Felice.

Il sedrinese non mollò, nemmeno un metro, e si presentò al traguardo per una volata dall’esito scontato. Gimondi si lanciò per primo ma il Cannibale, come un gatto col topo, lo saltò senza difficoltà.

Lo sforzo disperato di Felice si riverberò in una curiosa, piccola, tendinite: infatti, per una settimana, ebbe il braccio destro dolorante.

Si era appeso al manubrio, per rimanere con l’avversario, con tutte le forze a disposizione… Anche questo significava correre contro Eddy Merckx.

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 16 marzo 2012