10 STORIE SUL GIRO 2020 (PIU’ UNA SUI VAN)

Pallini rosa, speciali, dedicati al Giro d’Italia 2020.
Dalla Sicilia a Milano, cronache di una follia autunnale che regala ancora più spunti di quella che si sarebbe corsa, in tempi di normalità apparente, a maggio.
Chiudiamo dando i numeri (..) al nostro taccuino.

1.

Non poteva che concludersi così, nella stagione asteriscata dei giovani, della nuova generazione.
Jai Hindley, 24 anni, e Teo Geoghegan Hart, 25, appaiati all’ultima cronometro: un unicum nella storia (bislacca) del ciclismo.
L’australiano correva da under 23 con Umberto Di Giuseppe, alla Aran, e da noi vinse il GP Capodarco.
Il londinese, partito dal nuoto, quando era juniores lo vedemmo dominare un Giro della Lunigiana.
Prima dell’armata di Dave Brailsford, del professionismo, fece praticantato con Axel Merckx nell’Axeon.
Al pari di Joao Almeida (22 anni, forte e futuribile sul serio…), Jonathan Narvaez e Ruben Guerreiro.
Nell’annata senza una base solida di allenamenti, la linea verde sta spazzando via i vecchi assi.

2.

L’inglesino indossa la rosa definitiva perché più completo del suo (improvvisato) avversario.
Un crescendo – da metà Giro in poi – che ne ha realizzato le potenzialità, evidenti da un paio di anni: versatile, svelto, con una pedalata (potente) controcorrente rispetto ai dettami odierni.
Il resto è stata una Ineos Grenadiers che si è reinventata dopo la sfortuna, cosmica, l’ennesima in Italia, del capitano Geraint Thomas.
Che avrebbe stravinto, comandando l’inerzia – con lo squadrone dei Filippo Ganna, Ben Swift, Nicolas Castroviejo, etc. – e rendendo la gara molto meno divertente ma di un lignaggio superiore.
Ricordiamolo sempre: chi eleva la performance, quasi sempre sterilizza la competizione.
Lo spettacolo, a volte, dipende da fattori che abbassano la qualità: si scatta più forte quando si va più piano (sic).

3.

L’MVP della terza settimana è stato Rohan Dennis.
Testa matta, uno che quando fece le bizze in BMC si presentò a un Mondiale con una bici senza marca (!), e un motorone che persino nel Team Ineos avevano visto raramente: l’unico più freak di lui, Chris Froome.
L’anno scorso, al Tour de Suisse, ci volle un Egan Bernal extralusso per batterlo.
Il suo forcing sul Passo dello Stelvio è stato un numero di altissima scuola.
1’11″08″ a 1561 di VAM, sui 5,58 watt al chilo…
Un bel pezzo della vittoria del compagno Geoghegan Hart sta nel suo treno sullo Stelvio (salita e discesa) e sul falsopiano che portava ai Laghi di Cancano.
Wilco Kelderman, il dieselone che pareva sin lì il favorito, ha perso il Giro avvelenandosi delle catenate di Dennis.
Che avevano contaminato (..) anche le gambe dei vagoncini Hart e Hindley: che, sull’ultima salita, sono andati su come la prodigiosa Annemiek van Vleuten al Giro donne 2019 (24’45”).
Il resto del lavoro, Dennis lo ha completato sabato salendo (due volte) il Sestriere.
Chissà, se solo volesse, il due volte iridato a cronometro potrebbe giocarsi un Grande Giro.

4.

Un Giro con una partecipazione così così, e lo sapevamo, ma con alcune caratteristiche, tecniche, che mancavano alla concorrenza (pure al Tour de France vueltizzato).
Una crono vera, quella nelle terre del Prosecco, una prova della verità, e due tappe di alta montagna che ridicolizzano il ciclismo garagista e a scartamento ridotto.
Le Pinzolo-Laghi di Cancano 2020 e Venaria Reale-Jafferau 2018 mostrano l’esempio massimo, di cosa era e cosa deve essere questa disciplina nei Giri.
La Vuelta, un esperimento ASO, ne mostra un’altra che è – a lungo andare – un’aberrazione televisiva.
Le rampe asfaltate, i chilometraggi da Master 8 (o da gare giovanili) abituano lo spettatore (appassionato, casuale, cliente…) a un concetto ripetitivo e povero di contenuti.
Un tratto di strade bianche fa la selezione di dieci arrivi sull’Alto (a 900 metri d’altitudine…) del Garage (..), tutti uguali nel loro svolgimento: il plotone dei big che attende salvando la gamba, il trenino e lo scatto decisivo ai 400 metri dal traguardo.

5.

Ci hanno raccontato di un servizio RAI imbarazzante.
Con lo Yoghi verde al comando hanno marginalizzato, progressivamente, le risorse migliori a loro disposizione.
L’aspetto più surreale è che ogni pretesto è buono per non raccontare questo sport, bellissimo.
I pensionati al seguito, la promozione degli amici e della corte, i fenomeni da baraccone come Pantanology.
Il disprezzo verso il mondo nuovo, soprattutto quello anglosassone, ha avuto nel passato picchi di diffamazione con pochi eguali.
L’impero del male degli uomini neri, nei giorni di Top Ganna diventa una narrazione tragicomica: la realtà nuda, della nuova carne, è che – dal peccato originale della fronda contro la Mapei – il Team Ineos (ex Sky) rivela pienamente l’apocalisse del movimento tricolore.
Che in vent’anni è passato dalla cima (Coppi) alla quasi irrilevanza.
Gli squadroni World Tour dominanti, come il boom dei giovanissimi, spiegano la (nostra) pochezza di idee parallela alla mancanza di mezzi.

6.

La violenza con la quale si sono scatenati contro i ciclisti, in occasione di quer pasticciaccio brutto della Morbegno-Asti, pareva quasi preordinata.
Dalle cifre di una Caporetto televisiva.
Non possono reiterare la tecnica, la storia, la modernità (ebbene sì…) del ciclismo poiché non sanno nulla.
Allora avvelenano il pubblico generalista di illusioni e insinuazioni.
Vivevano, e adesso muoiono, di gossip e nazionalismo da quattro soldi.
La maleducazione usata con un Adam Hansen è un’altra faccia della stessa medaglia: i corridori, che sono mille volte meglio del seguito, non sono più ricattabili (e stupidi…) come quelli dei tempi di Epolandia.
L’amarcord per tregende stile Gavia 1988, col gruppo trattato a mo’ di bestie da macello, potremmo risparmiarcelo.

7.

Piancavallo è una salita da VAM con responsi cronometrici più veridici, rispetto ai gpm con settori differenti.
Un monte da Tour, dove si scava la differenza tra i primi e gli altri: se chi sta davanti fa i 22-23 all’ora, quelli che non reggono l’andatura beccano minuti.
Quest’anno, nella quindicesima tappa, il Team Sunweb ha imposto un ritmo infernale.
A’ bloc, mentre saltavano Vincenzo Nibali, Jakob Fuglsang e gli altri, la litorina Hindley con Kelderman e Hart sono andati via.
Nel 2015, una settimana più tardi rispetto al 2020, era la frazione numero 19, la contesa fu dominata dal tatticismo imposto dalla classifica cortissima.
Thibaut Pinot – dei migliori – fece i 13,8 chilometri in 38’50”.
Domenica 18, i tre registravano un eccellente 37’50” a 21.890 di media.
Nel 1998, la sfida tra la lepre Marco Pantani e i cacciatori: il Pirata chiuse in 36’20” (22.790 orari), Pavel Tonkov e Alex Zuelle 36’33”, Giuseppe Guerini 36’48”.
Ventidue anni e un’epoca differente (bici, preparazione, alimentazione): ci vorrebbe il bollino rosso, o il naso rosso (da pagliaccio o alcolizzato), per chi rivendica la nostalgia (canaglia) dei calzoncini corti e delle merendine.

8.

L’infomedia, i decibel, il rumore bianco coprono (confondono) la realtà lapalissiana.
Di un Giro a ottobre inoltrato che, trent’anni fa, sarebbe stato meteorologicamente impossibile da disputare.
Il menu orribile di Cesenatico, i 7 gradi centigradi, la pioggia e un vento invernale, erano la norma prima del cosiddetto Riscaldamento Globale.
Che consente di passare uno Stelvio che, negli anni Ottanta, chiudeva la strada a settembre.
Si spera di non rivedere più un Giro a ottobre, comunque: per il covid-19 e la pellaccia dei corridori.
Il fachirismo lo apprezzano soprattutto gli agonisti da divano.

9.

I Grandi Giri sono quelle corse di tre settimane dove emergono i migliori: passisti, scalatori, sprinter, fughisti e – alla fine – vince uno del Team Ineos (Sky).

10.

Curiosità statistiche.
Il bis britannico di Tao lo vede indossare la maglia del primato solo l’ultimo dì.
Prima di lui, nei Grand Tours, sei vincitori in zona Cesarini.
Due della Vuelta, Agustin Tamames ’75 e José Pesarrodona ’76: edizioni talmente ai margini del professionismo che contava, che non dovrebbero essere considerate.
Gli altri due del Giro di Spagna appartenevano così tanto all’evo cyberpunk della bici, Angel Casero 2001 e Aitor Gonzalez 2002, da essere inspiegabili oggi.
Gonzalez, scuola Kelme, grassò un contrattone alla Fassa Bortolo.
Talento mefistofelico, uno stilista (elegante e potente), che tornava dalle pause rubicondo e allegro: pensiamo che non abbia mai disputato una gara senza aiuti biochimici.
Nel post carriera, durata il giusto (..), va e viene dalle galere spagnole.
Il blitz di Jean Robic nella Grande Boucle 1947 occuperebbe le pagine di “Guerra e pace”: la maglia gialla (italiana) Pierre Brambilla fregata dalla santa alleanza franco belga, la fuga di Testa di Vetro sulla cote du Bonsecours a trenta chilometri da Parigi, il patto faustiano con Edouard Fachleitner (si disse, comprato con 100000 franchi…) e una sequenza dietro derny con un’auto del seguito.
Meno oscena la straordinaria crono di Jan Janssen nel ’68, con l’ultima giornata che prevedeva quattro (!) corridori (Herman Van Springel, Gregorio San Miguel, Janssen e Franco Bitossi) in 58 secondi e sette in nemmeno due minuti.
L’olandese ribaltò la generale, sconfiggendo il favorito Van Springel, lungo i 55,2 chilometri della Melun-Parigi che terminava al velodromo La Cipale.
Un Tour spettacolare, a dodici mesi dal prologo del Merckxismo.
Un fuoriclasse, Janssen, anche nella tecnica di guida: un gatto a limare nel gruppo, frenava poco e leggeva da mago le curve.

11.

Nel duello annunciatissimo dei Van, il primo diretto in una monumento, domenica 18 ottobre alla Ronde, si impone il più furbo.
In una volata normale (..), Wout Van Aert l’avrebbe spuntata: quando si parte dai 60 chilometri orari, negli sprint (più) affollati, il motore turbo del belga viene esaltato.
Da fermi o quasi, si fa per dire, i 25-30 orari verso lo striscione di Oudenaarde favorivano Mathieu van der Poel, più esplosivo.
Il nipotino di Poupou è un po’ meno strapotente di Van Aert, ma più classicomane nel senso (antico) del ruolo.
Nato flahute come il babbo Adrie, che era un drago di quel tipo.
Il suo Giro delle Fiandre (1986), allora si arrivava a Meerbeke, fu vinto a dispetto di un gigantesco Sean Kelly che comandò le danze sui muri.
Van der Poel senior si impose, succhiando le ruote dell’irlandese sino al rettilineo finale, nella volata (a quattro) beffando il Re irlandese.
Che non sarebbe mai riuscito a inserire nel palmarès la Ronde: una maledizione fiamminga, per un ballerino delle pietre come lui, che condivide con Francesco Moser.