RE JAMES. IL PROFETA BLASFEMO E UN’EREDITA’ GIGANTESCA

E’ finita come sospettavamo da un po’ di tempo, per l’entusiasmo di alcuni e la bile di altri, la stagione più lunga nella storia dell’NBA. 355 giorni dopo la prima palla a due, in regular season, la morte di David Stern e Kobe Bryant, il coronavirus, lo sciopero per l’assassinio di Jacob Blake… Nella bolla di Orlando, ad alzare il Larry O’Brian Trophy, i Lakers di LeBron James.

A raccontare il presente, a invaderlo militarmente, LeBron James è qui da oltre diciassette anni. Atleta, personaggio, che spacca il mondo in due fazioni opposte, quasi inconciliabili. Amato e odiato in quanto prosecuzione commerciale, non nello chassis complessivo, del monolite jordaniano, il Prescelto è carne da cannone quotidiana, estenuante, della sovraesposizone che i divi dello sport propongono e subiscono. Inumano il 23, un corpo e una testa “for the ages”, che sopporta da due decenni una pressione che schianterebbe chiunque. Atlante tatuato, col mondo sulle spalle, talmente forte, superuomo, da farci dimenticare che – il 30 dicembre – compirà 36 anni. Per qualità e quantità, abbattendo primati a spallate, l’unica comparazione (statistica, per la lunghezza della coperta) è rimasto Kareem Abdul-Jabbar. Lui, LBJ, che – nell’essere così altro e freak, a dispetto di una lega di freak – è il Wilt Chamberlain degli esterni (?). Pur non avendo un senso, non lo aveva nemmeno nel 2005, in questa palla con estro senza interni classici, definendo l’indefinibile. 2 metri e 6 centimetri, 125 chili senza un filo di grasso: il fisico del più forte decatleta di sempre, o del migliore wide receiver NFL e il pensiero (superiore) di un calcolatore da basket. Oscar Robertson nel corpo di Karl Malone. Gus Johnson cresciuto a pane e Penny Hardaway e Grant Hill. LeBron James è uno scherzo, una frattura, nella dimensione spazio temporale.

Era The Chosen One già a 15 anni, bimbo prodigio liceale dell’Ohio, e si è trasfigurato nel cestista più scrutinato, osservato, vivisezionato di sempre. L’equivoco massimo è stato confondere i piani differenti, mescolare l’icona mediatica, la macchina da soldi, con il numero 23 dei Los Angeles Lakers e Cleveland Cavs, e il numero 6 dei Miami Heat. Gli spot pubblicitari con le triple doppie; i quarantelli in stagione regolare con The Decision su ESPN. Lo spettacolo integrato è un meccanismo infernale, dall’andamento entropico (e minaccioso). Quindi, a ogni maledetta partita, qualcuno riformulerà il giudizio (biblico) su di lui. 1525 match (260 nei playoffs), 59432 minuti di gioco, dieci Finals, e siamo ancora qui con la paletta a dar giudizi.
James è un eletto, della razza – rarissima – degli universali. Al di là dell’Atlantico potremmo ridurli, banalizzando il concetto, in una lista sparuta: Maurice Stokes, Oscar Robertson, Magic Johnson e LeBron James. Un giocatore qualche lustro avanti rispetto ai contemporanei, capace di evolvere in ogni posizione richiesta e di migliorare il rendimento dei compagni. Quattro ruoli offensivi nel basket pre percentile, cinque oggi e, in difesa, la possibilità di applicarsi a tutti: una volta avremmo scritto dalla point-guard al centro. E lo fa ancora da two-way, gestendosi, mettendo le marce, comandando i movimenti altrui. Un mostro.

Comparve, un ologramma, un diciottenne che pareva un trentenne, prima con la maglietta di St. Vincent-St. Mary, poi salvatore della patria a Cleveland, e fu subito mattatore.
L’iradiddio, malgrado gli isolamenti eccessivi, l’Hero Basketball che fu l’unico punto di contatto con l’altro 23, e delle forzature regolamentari (i due passi e mezzo..). Ala che ragionava da playmaker pure con i denti da latte, super nel ribaltare il lato, dominante in post – scoperto piano piano, guarito (con ricadute) dalla sindrome della big guard – come nell’uno contro uno fronte a canestro. Portò allo showdown, fino in fondo, una combriccola di miracolati: i Cavs 2007 di Larry Hughes e Drew Gooden. A ogni fermata, una tradizione, un Boobie Gibson al quale regalare un pluriennale altrimenti improbabile. Per farsi spazzolare dagli Spurs, col Re che pareva George McGinnis negli Washington Generals, la prima performance spaventosa della sua mistica. I 29 punti finali (su 30 complessivi…) per sbancare il Palace di Auburn Hills, attonito, e i Pistons in una gara5 al calore bianco. Quel James, brutale, lasciava l’odore del napalm.
In un contesto non irresistibile quali gli Heat 2012, l’anno dopo il flop (il suo più di tutti) con Dallas, LeBron divenne – definitivamente – il capotribù. Un combo che viveva e moriva sull’applicazione difensiva, la Miami dei Big Three. Che diverrà anche un modello, accentratore, di tipo salariale: il potere allo stardom.
Quel livello tecnico, mantenuto per tutta la postseason, ebbe forse due soli paragoni: Julius Erving nell’epilogo ABA (1976), l’Hakeem Olajuwon 1995. Almeno un paio di volte, con la spada di Damocle sopra la testa, innalzò il proprio gioco ad altezze sconosciute. In gara4, a Indianapolis, a un passo dal collasso dell’intero progetto, una performance da 40 punti, 18 rimbalzi, 9 assist (e la partecipazione dell’altro dioscuro, Dwyane Wade) e poi nella sesta sfida ai Celtics. Quel primo tempo al TD Garden (30 punti, 12 su 14 dal campo) fu irreale: un uomo in missione contro l’universo. L’anello agognato, opposto nelle finali ai giovani Thunder, la logica conseguenza. 

La scimmia dalla spalla – anche se le cifre individuali, l’impatto sul collettivo, i premi conquistati, lo collocavano già tra i più grandi di sempre – se la tolse a ventisette anni.

James significa polarizzazione. Dopo il quadriennio in Florida con la banda Riley, il ritorno a casa – laddove si erano bruciati i suoi manichini in piazza – e l’idea di una missione (quasi) impossibile. L’anello con i Cadavers che furono di Ted Stepien, in una città – Cleveland – sportivamente depressa da eoni. Il capolavoro, con l’aiuto degli Dei, lo realizzò con un processo inedito e inimitabile (vedasi James Harden a Houston): la personalizzazione di un combo. Che partiva (parte) dal clan di fedelissimi che formano la sua corte, dopo Aaron Goodwin. La parentesi della CAA creava il territorio, inesplorato, del connubio Klutch Sports e LRMR. LeBron gestisce se stesso, stabilendo un rapporto paritetico con il management della franchigia: come sul parquet, una rivoluzione. Il Re troneggiò in una Eastern ridotta a feudo privato. Nella sua scia i nuovi Boobie Gibson, che a Miami era Mario Chalmers, si chiamavano Matthew Dellavedova, Tristan Thompson. Il migliore James di sempre, forse nella campagna (perdente) del 2015: fuori Kevin Love, infortunatosi (definitivamente…) Kyrie Irving in gara1 delle Finals, il 23 fu ciclopico. Per tre partite, i LeBroners misero in scacco quella Golden State, la più forte macchina da pallacanesto dell’NBA moderna. L’incipit al 2016, l’impresa più incredibile, in una serie (emotivamente folle) sulle montagne russe: qualcosa di completamente diverso, rispetto ai suoi rivali, non contemporanei ma quelli nella Hall of Fame. Talmente oltre da suggerire a Michael Jordan – la sera della gara7 con la chase-down su Andre Iguodala – l’autorizzazione al lavoro di produzione su “The Last Dance”.
LBJ, visto dalla generazione jordanizzata fin dalla culla come Lobo che uccide Babbo Natale, al pari di altri (grandissimi) aveva evoluto l’arsenale. Ogni anno, un particolare (fondamentale). Ricostruito il tiro, correggendo il gomito, piazza triple da otto metri. Invecchiati, noi e lui, ci accorgiamo che processa a una velocità pazzesca le informazioni della contesa. Legge tutto in anticipo: difesa e attacco. Crea problemi tattici, tecnici, occupando ogni casella offensiva: in questo, e lo sottolineano pochi, l’unica cosa comparabile a Larry Bird in quel basket là.
Il banner e le macerie, appena il Re portava via gli stracci. La sfida, l’ennesima, rivitalizzare i Los Angeles Lakers comatosi dal tardo Kobismo. 2019 agrodolce, con lo smacco dei playoffs visti come un comune mortale (cioé alla tivù), e quindi la Lebronizzazione di Tinseltown. La famiglia Buss prestava, volentieri, le chiavi e il sistema del Re di Akron si materializzava: Anthony Davis, il lungo two-way più straordinario dai tempi di Tim Duncan, Kentavious Caldwell-Pope (tostissimo), Markieff Morris, J.R. Smith (sic). Tutti della scuderia di casa, quella del fratello (..) Rich Paul. Via la linea verde, inutile per vincere (subito), e dentro i veterani: il genialoide Rajon Rondo, Danny Green, il miracolato Dwight Howard. Il resto è stato James al cento per cento: nella regular, capintesta degli assist. Nelle finali occidentali contro i Nuggets, una Wes Unseld – dal rimbalzo difensivo, uno Spalding terra-aria – in un movimento solo. Il supereroe della Marvel col 23 sulla tuta, nelle partite giuste, sembrava aver già visto tutto: uno studente del gioco che è diventato uno scienziato dello stesso. L’eterno MVP anche del 2020, non il freak nigeriano di Atene, Giannis Antetokounmpo.
Porta alla Los Angeles gialloviola, da una Bay Lake ballardiana, un anello storico con l’asterisco e un’eredità gigantesca. Impossibile da replicare.

Il profeta blasfemo aveva un piano che aggiorna, a ogni passo: non piacerà mai agli ipocriti, riassunti dallo “Shut up and dribble” di Laura Ingraham, che fingono di pensare che lo sport professionistico sia solo sport. Non sopportano che un orfano, nato e cresciuto nella miseria di un’area gentrificata, possa rivendicare – a testa alta – un miracolo, una storia incredibile con una possibilità su un miliardo che accada.
E nemmeno provano vergogna a tifare per Greg Stillson. James non si cura di loro e della fisiologia umana: il dì dopo il quarto anello era in palestra a programmare la prossima campagna. Il futuro prossimo è un’altra sfida: il bis con L.A. (complicatissimo), magari con l’amico Chris Paul, altri traguardi da tagliare, con le Colonne d’Ercole dei 38387 punti del 33 dei Lakers come sfondo.