RAFA FORZA 13. THE WEAK ERA OF TENNIS. UN GIRO DI 100 ANNI FA. IL DUELLO DEI VAN: WOUT VS MATHIEU. JIMMY BUCKETS SAID

Pallini che piovono dal cielo, mai violenti quanto i 517 millimetri di pioggia scesi, in dodici ore, il 2 ottobre scorso su Limone Piemonte.
L’Alta Val Tanaro verdissima ammirata alla Milano-Sanremo, nemmeno due mesi dopo ha avuto la terza alluvione in ventisei anni (1994 e 2016, le altre due).
Eppure, nel fango, col cielo che ci cade in testa, escono ancora le frasi mandate a memoria da decenni di lavaggio del cervello: la colpa è sempre di qualcun altro, anzi degli ecologisti (sic).
Rifiutarsi di vedere oltre il proprio giardino (allagato).
Il tema centrale del presente e del futuro, politico, dovrebbe essere come ricostruire il nostro rapporto – malato – con la creatura più intelligente del pianeta: la terra stessa.

Nella stessa giornata, in poche ore, Lewis Hamilton – al Nurburgring – eguaglia le vittorie di Michael Schumacher in Formula Uno, Rafa Nadal – a Parigi – fa lo stesso con le corone Slam del rivale Roger Federer e LeBron James – a Orlando – sigilla la sua era col quarto anello, MVP delle Finals con tre squadre differenti.
Tre mostruosità.
Un carico da novanta che testimonia l’eccezionalità di questi atleti, icone, e un bordone (moderno) sempre più evidente nei giochi.
Che, pur richiedendo una performance psicofisica complessa quasi come negli sport, dimostrano – da qualche anno – quanto sia più semplice rispetto al passato rimanere in vetta.
Regolamenti, denaro, medicina sportiva: i tre fattori che allungano le carriere dei super campioni.
Nella stagione asteriscata, il trionfo del wikipedismo.
“Merdre” urlava Ubu Re.

I tredici titoli sull’argilla di Rafa Nadal, nel suo Philippe Chatrier, parevano fantascienza appena quattro anni fa.
Quando il maiorchino, con le ginocchia a mezzo servizio, sembrava (al pari di Re Roger) prossimo al viale del tramonto.
La cabeza, oltre il corpo da cyborg, ha consentito l’ennesima ripartenza di uno che, calcolando gli Slam (un’ossessione wikipedica, la più contagiosa di tutte), è riuscito a ottimizzare il proprio chassis come nessun altro.
Soprattutto partendo da quelle basi atletiche, straordinarie ma logoranti, e quel diritto rivoluzionario: a Nadal, un ninja, non è sfuggito mezzo major di quelli vincibili.
Al contrario degli altri due, in particolar modo Federer, che di occasioni ne hanno sprecate.
Il nadalismo, una specie di furore agonistico unito a una lucidità strategica zen, consiste nel vincere nel momento che si è superiori: un affare difficilissimo, una primula rossa, non nel tennis, ma nello sport professionistico in toto.
Una mistica, sul mattone, che è un unicum storico.

Avevamo sottovalutato, nell’approccio a Parigi, la novità (?) di un Roland Garros (autunnale) così pesante.
Al netto dei quasi dieci centimetri di rimbalzo in meno, uno svantaggio per il Minotauro, la terra più lenta favoriva – e suggeriva – il piano tattico del campeon contro Novak Djokovic.
L’iberico, col serbo, va (andava) sotto regolarmente da anni, poiché il baricentro dei due – nelle sfide, esasperate da stili robotennistici, allo specchio – era a favore di Nole.
Servizio e risposta, il belgradese partiva un metro e mezzo davanti rispetto a Rafa, consentendogli tanti (troppi) angoli e soluzioni.
La magata di Nadal, domenica, è stato ribaltare l’inerzia del gioco dall’incipit: al classico maglio di diritto, che chiudeva Djokovic nell’angolo del rovescio, si alternavano variazioni (immediate) profondissime.
Sono bastati tre giochi perché le certezze del numero uno evaporassero, di fronte all’aggressività del Minotauro.
Una lezione di gioco e di tattica (6/0 6/2 7/5): le statistiche, decriptate, spiegano bene il flusso dei tre parziali.
Se i long rallies, gli scambi sopra i cinque colpi, sono (quasi) pari – 53 a 52 per Rafa – quelli da 0 a 4 illustrano il dominio del maiorchino.
Il 53 a 25 negli short rallies ribaltava il tavolo.
Nel mucchio selvaggio delle tredici, la finalissima dello spagnolo più simile – per intensità e avvicinamento alla perfezione (balistica) – a quella (debordante) del 2010 con Robin Soderling (6/4 6/2 6/4).
Nadal, impedendo il tennis percentuale e il sovraritmo, sulle due diagonali, toglieva le zone di comfort a Djokovic che rompeva (..) nei colpi da fondo.
24 vincenti e 20 errori (14 unforced: sulla terra, in 2 ore e 41 minuti, un dato irreale) dell’iberico, soli 23 winners e ben 60 errors del serbo: che smarriva pure l’amato rovescio (35 errori e 13 vincenti).
L’aiutino di Robonole, confuso e infelice, si aggiungeva al pomeriggio da leone di Nadal che – al solito – non sbagliava una lettura.
Incomprensibile l’uso smodato della palla corta, opposto al più forte difensore del tennis orizzontale.
Un seppuku che, dopo il mediocre 11 su 18 dei primi due parziali, si concretizzava nel terzo set (più sul filo, tecnico e agonistico) con un 2 su 10 decisivo.
E’ la seconda volta in una finale Slam, in poco più di un anno, che Djokovic non capisce le variazioni (i blitz) altrui: all’All England Club – nel 2019 – ne uscì, da Maestro (e con molta fortuna…), stavolta no.

Le lodi al fenomenale Rafa non ci impediscono di vedere la luna, invece che il dito.
Con l’eccezione degli Australian Open 2017, che fu il risultato di una serie (irripetibile) di combinazioni, la summa di un’era o giù di lì, ogni torneo dello Slam viene ormai deciso dal sorteggio.
Che, a volte, riserva dei tabelloni da 250 (o 500) per uno dei tre mattatori: l’esempio massimo fu Nadal agli US Open 2017, ma potremmo citare anche – per Djokovic – New York e – per Federer – Melbourne del 2018.
Nole ha perso con Rafa approcciando, male, i quarti con Pablo Carreno Busta (4/6 6/2 6/3 6/4) e prolungando di un’ora e mezza – fallito un match point – la semi contro Stefanos Tsitsipas (6/3 6/2 5/7 4/6 6/1).
Il match del torneo, di un major da accattoni che consente di giocare, a ottobre, sotto i dieci gradi centigradi, la sera.
Bastava osservare la battuta del serbo, nei primi game della finale (la più vecchia di sempre!), la (non) velocità della sua palla negli scambi, per comprendere che – contro un Nadal à bloc – avrebbe rischiato una stesa.
Non è un caso che si battano tutti i primati: dal 2002, le 32 teste di serie – tranne casi eccezionali – consentono ai big una prima settimana di allenamenti agonistici.
L’omologazione, superfici e racchette, ha fatto il resto sconsigliando (..) la specializzazione e la biodiversità di stili: niente più pallettari e attaccanti, solo repliche (minori) dei tuttocampisti da dietro.
La leggendaria weak era è questa, a causa del buco generazionale della leva di mezzo e di un sistema che protegge e riverbera lo stardom: la corte dei miracoli.
Coi miracolati che applaudono, a favore di camera, e che scavano il fosso – coi coccodrilli – dai vassalli: psicologo, medico, accordatore, fisioterapista, dietologo, allenatore, sparring, manager.
La calcistizzazione del tennis è servita.

Il Giro, come annunciammo a luglio, non si meritava questo trattamento (francese, il combinato ASO più UCI).
La corsa rosa in sé, per il valore tecnico e storico che porta, non il carrozzone della RCS Sport di Urbano Cairo.
Un tracciato più intelligente e completo del Tour vueltizzato, con almeno tre tappe di montagna (vera), una cronometro di altissimo livello e frazioni intermedie ben ideate.
A ottobre, una grande corsa a tappe perde il suo senso (microclima, bioritmo degli atleti, preparazione): nella stagione del coronavirus, diventa un esperimento sanitario.
La partecipazione, mediocre, ha la concorrenza (sleale) delle classiche del Nord, quelle sì di lignaggio assoluto: pensate che il Peter Sagan di quest’anno possa battere i van (..) e gli altri flahute?
Perso subito il favorito (Geraint Thomas), il giovane emergente (Aleksandr Vlasov), per la classifica (dopo le defezioni per covid-19 di Simon Yates e Steven Kruijswijk) rimangono la strana coppia Vincenzo Nibali-Jakob Fuglsang, col danese che – a 35 anni… – prova la terza settimana, e poco altro.
Wilco Kelderman, Pello Bilbao, Joao Almeida, Pozzovivo, Geoghegan Hart, Majka…
Un Giretto che rischia, sulle Alpi, di riportare il gruppo – senza la macchina del tempo di H.G. Wells – a cento anni fa: quando il ciclismo su strada era un mestiere per bestie.
Pioggia, neve, freddo, strade alternative (sic), escursioni termiche quasi invernali: una prova estrema con l’srm sulla bici e le maglie di filati riciclati.
Adda passà ‘a nuttata, sognando Milano.

Domenica di Gent-Wevelgem, una classica fiamminga che è tornata agli splendori (luridi…) degli anni Settanta.
I ras si prendono a cornate, prima e dopo il Kemmelberg.
Ci provava il rouleur Stefan Kueng, rispondevano Matteo Trentin, Sep Vanmarche.
Sul più bello, una trenata spaventosa di Wout Van Aert avvisava la concorrenza: l’attimo fuggente era la Polaroid successiva.
Mathieu van der Poel, capita l’antifona (cioè che l’altro, quando accelerava, pareva una moto), si francobollava all’alfiere della Jumbo-Visma.
Marcamento stretto, una riproposizione dei duelli (antichi) tra draghi fiamminghi.
La rivalità – del decennio? – tra classicomani arriva direttamente dal ciclocross: iniziava ufficiosamente, sui muri e il pavé, mentre i due puntavano il traguardo di Wevelgem.
Van der Poel preferiva vedere vincere il terzo uomo di turno, l’ex iridato Mads Pedersen (che è forte forte…), piuttosto che farsi battere da Van Aert.
I due non si sopportano e non lo nascondono: finalmente, dopo eoni di rivalità latte e miele, politicamente corrette, una dove voleranno stracci.
Belgi e olandesi.
La Ronde di domenica sarà già la seconda puntata del serial: che occuperà gli anni Zero delle classiche.
Asparago fiammingo, famigliare di Kriek gelata, tifo indiavolato e rutto libero.

“Questo per me è un viaggio di lavoro. Non sono qui per scherzare.
Tutti vogliono avere la propria famiglia, senza dubbio. Ma stiamo facendo questo da così tanto tempo, cosa sono allora ancora un paio di mesi?
E’ una decisione personale e rispetto i miei compagni che la fanno, ma io sono qui per lavorare e basta.”
(Jimmy Butler, a fine agosto, sulla scelta di rimanere da solo nella bolla di Orlando)