MARCELO RIOS, L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TALENTO PURO

Una delle poche cose interessanti di questo Roland Garros è stata l’apparizione – da quel buco nero che si chiama circuito dei challenger – di Hugo Gaston.

Un Pollicino mancino, svelto di gambe e ancor più di fosforo, con una manina fatata: quaranta smorzate contro Stan Wawrinka, due set e mezzo (in rimonta) opposto a Dominic Thiem ubriacandolo di variazioni, di uno che è (era) il 239 del mondo.

Ogni tanto, magari vedendolo colpire di rovescio – d’anticipo e in spinta – col saltello su una gamba, è comparso un fantasma.

Dagli anni Novanta, con i tratti (bambini) da indios…

Nello sport, come nell’arte, ci sono personaggi che si materializzano come allucinazioni selvagge.

Appaiono, consumano la scena stravolgendo i canoni evolutivi e si bruciano.

Marcelo Rios, oggi viene ricordato soprattutto per essere stato numero uno dell’ATP senza Slam in bacheca e per le intemperanze.

Lungi da me il difendere certi atteggiamenti: dalla matita spezzata a un bimbo che chiese un autografo, impagabile aneddoto narrato dal Clerici, al piede fratturato del suo preparatore atletico (da quel momento ex..) investito con la jeep, il personaggio si distinse anche per i comportamenti da disadattato.

Ma il genio talvolta si accompagna male con l’educazione civica.

E allora, tornando al Chino, ciò che ci interessava era il suo talento urlante, atavico, da Oskar Mazerath della racchetta.

Rios nacque così, campione del mondo e vincitore dello Us Open juniores.

Nei pro ebbe una carriera folgorante, un’ascesa velocissima e un declino rapido, improvviso.

Fu uno che sperimentò la demenzialità di quel calendario, e quelle superfici, pagando il prezzo dell’iperattività con una serie cronica d’infortuni (alle ginocchia e alla schiena).

Nel suo momento migliore, brillò di una luce accecante: la cometa di Vitacura d’inizio 1998, il suo zenit, è stato uno dei più grandi giocatori ammirati in quell’epoca feroce.

Ancora all’insegna della specializzazione, dei major a sedici teste di serie (mica le trentadue dal Federerismo in poi…), di campi che incoraggiavano la biodiversità nello stile di gioco e delle luxilon che non erano il verbo (dominante).

Se poi credete alla favola, procteriana, di marketing, che l’ultimo tennis dei tre divi sia il migliore dell’era moderna…

Rios inaugurò il suo fatidico ’98, a Melbourne, con la sua unica finale Slam. Contro un altro mancino dotato dagli dei, Peter Korda, in quel dì anche dopato dagli uomini.

Fu, quella vicenda australiana, la perdita della verginità per gli ultimi illusi dei gesti bianchi.

Il segno dei tempi che il tennis stava diventando definitivamente robotennis.
Nel gioco già ostaggio della muscolarizzazione, il piccoletto di 172 centimetri che dominò quella primavera fu uno scherzaccio.

A Indian Wells e Key Biscane, affrontando la sua versione americana e più fortunata (Andreino Agassi), Rios mostrò un tennis visionario, frutto di una concezione ritmica misteriosa.

L’anticipo, il timing sulla palla, qualcosa di magico e inspiegabile.

L’impressione, nei giorni di grazia, di assistere a un giocatore con due diritti: il rovescio bimane, colpito col saltello su un piede solo, in controtempo totale.

I tocchi beffardi, degni di un Macca andino, e il divertimento sadico nell’utilizzare l’altro, l’avversario, come una marionetta: spostata, sballottata, illusa e trafitta dal burattinaio cileno.

Il campo, un flipper sovradimensionato, tagliato da traiettorie che parevano traccianti. Senza strategie preordinate, solo istinto superiore: puro e semplice talento maradonesco, inconcepibile.

Una gioiosa trasposizione tennistica, così dannatamente latinoamericana, del realismo fantastico.

Purgatorio Rios, anello di congiunzione tra l’Inferno e il Paradiso del talento. Quello incontrollabile di uno (dei tanti) Scott Draper che si perdono – nelle nebbie – e l’incarnazione felice, di successo, di Roger Federer.

Lo Zurdo di Vitacura, suo malgrado, sarà ricordato dai distratti come il più forte tennista della sua generazione a non aver vinto un major: dopo Tom Okker e Miloslav Mecir, prima di David Nalbandian.

Manco quella lista di vincitori, che annovera i Brian Teacher e gli Albert Costa, fosse la verità assoluta e non un semplice dato statistico.

Che non spiegava i colpi dagli angoli impossibili, contro i Terminator delle Academy, di quel posseduto con i capelli lunghi.

Potremmo non risparmiarvi i suoi numeri fuori dal campo, lui che il tennis (vero, non il Senior Tour) dovette abbandonarlo appena ventisettenne: compresi il lancio della (seconda) moglie dall’auto in corsa, le dichiarazioni da bullo, le risse, la sindrome di Asperger sempre più evidente.

Milionario tatuato in pensione, l’ennesimo, che non perde occasione per farci comprendere che il genio è molte (troppe) volte ignorante.
Chissà cosa combinerebbe – oggi – nell’era dell’omologazione, il tamarro che definì i prati di Wimbledon “…buoni solo per le vacche.”

Di sicuro, la terba si adatterebbe di più al suo chassis. Manca, nella cronologia esatta del tennis, quel Rafa Nadal (imberbe, coi pantaloni alla pescatora) contro Rios al Philippe Chatrier.

Avrebbe fornito più risposte a qualche domanda, inevasa, sulle (due) ultime ere.
Se il Chino non ha mai avuto paura di farsi odiare, con la racchetta in mano – il mutante che dichiarò di avere dodici (..) impugnature diverse di diritto – non potevi che amarlo.

Il pomeriggio che salì al numero uno, a Miami, realizzando il Sunshine Double, per un minuto pensò di annunciare lì il suo ritiro, durante la premiazione.

Era lo stesso che a Roma, qualche tempo prima, si era fidanzato (momentaneamente) con una (bella) raccattapalle del torneo.

A briglie sciolte, sempre, pure contro i suoi interessi: uno scapigliato al quale, in fondo, non interessava la tattica e l’altro che giocava.

Solo colpire, ammaestrare, accarezzare, violentare quella palla gialla.
La bellezza inconsueta della sua gestualità: beatamente ignara della razionalità del resto del mondo.