UN TOUR 2020 CHE E’ L’83. HOUSTON, YOU HAVE A PROBLEM. OSAKA MON AMOUR

Pallini infuocati, visti dall’alto, nemmeno fossimo l’elicottero che
riprende il Tour: come gli incendi in Oregon e in California, la Baviera che a
inizio settimana era dodici gradi sopra (!) la sua temperatura media e
il Polo Nord che si scioglie a una velocità imprevista.

Troveremo comunque qualcuno che neghi l’evidenza, del pianeta terra con
il febbrone, e altri che chiedono di comprendere il voto a un coglione
tipo Jair Bolsonaro.

La vueltizzazione della Grande Boucle procede spedita, a dispetto di un
personale che – guardando oltre il presente – pare assicurare un decennio di lignaggio. 

Il cercare la rampa, su un territorio che vive di montagne da un’ora di
ascesa, e il ridurre il chilometraggio è un controsenso storico che regala un equilibrio fittizio (e instabile) e ulteriori tensioni a un plotone che, essendo al Tour, corre già con il coltello fra i denti dal chilometro zero.

Contenta l’ASO, contenti tutti.

Il ricambio generazionale in atto, poderoso, viene confermato dalle vicende agonistiche.

Se Primoz Roglic, trent’anni, è della leva di mezzo – come il moschettiere Julian Alaphilippe e i gemelli Yates – ma ciclisticamente più giovane della sua età, gli altri protagonisti hanno un futuro splendente davanti a loro.

Anche Egan Bernal, in crisi, e l’assente (e infortunato) Remco Evenepoel
o il Mathieu van der Poel che sta preparando la campagna del Nord alla
Tirreno-Adriatico.

Brillano il fenomenale Tadej Pogacar, la locomotiva Wout Van Aert (il più forte, alla faccia della classifica…), Marc Hirschi (attenti allo svizzero a
Imola…).

Poi ci sono Miguel Angel Lopez, Richard Carapaz, Enric Mas, Lennard Kamna, Daniel Martinez, etc. Lo scenario, quasi inedito, ha qualcosa del travolgente 1983.
La Festa di Luglio che ci rivelò il mondo nuovo.

La vinse il ventiduenne Laurent Fignon, di classe e fortuna (non fosse
cascato – sul più bello – Pascal Simon…), scoprimmo il pirata Eric
Vanderaerden, il torero Perico Delgado.

Robert Millar, che scattò come un gatto sul Col de Peyresourde e che
oggi si chiama Philippa York, la tribù colombiana all’esordio, Stephen
Roche, Marc Madiot, Adrie van der Poel (si, il babbo).

Se volete, potremmo raccontarvela tutta: qualcosa di completamente
diverso
.

Gli italiani, ora come allora, facevano le comparse: e stavolta,
osservando le isobare tra under 23 e continental, il terzo mondo – al
pari dell’atletica italiana – sembra una prospettiva certa.

A disegnare quel Tour de France non c’erano i procteriani, ma il
diabolico (e rivoluzionario) Felix Levitan.

C’era il pavé a Roubaix, con tanto di arrivo al Velodromo, quattro crono
(due lunghe, due scalate: Puy de Dome e Avoriaz) più due (il prologo e
una a squadre), un tappone pirenaico classico e Alpi monstre.

Due frazioni, tra l’Alpe d’Huez e Morzine, per undici gpm e 470 chilometri complessivi.

Sarebbe bello rivedere quel canovaccio al Tour, adeguandolo alla
modernità (più umana), senza lo stillicidio di garagismo circense: la
crema del gruppo, degna degli anni Ottanta, lo meriterebbe.
Il sottotesto (un altro…) dell’amarcord all’83 è implicito: fu l’ultimissimo trionfo di una matricola alla Grande Boucle.

Dal dopoguerra, non considerando l’edizione 1947 della ripartenza (non
si correva dal ’39), vinta da un dietro derny parigino del clownesco Jean Robic.

Fausto Coppi (1949, la prima doppietta col Giro), Hugo Koblet (1951: un
dominio…), Jacques Anquetil (1957), Felice Gimondi (1965), Eddy Merckx
(1969: si sbranò tutte le classifiche a disposizione…), Bernard Hinault (1978) e Laurent Fignon (1983).

Alle gambe (e al serbatoio) di Pogacar e Lopez l’ardua iscrizione a questa lista gialla

Il bello dell’NBA, malgrado Orlando e il pubblico virtuale, è che rimane
l’NBA: una soap con una sceneggiatura avvincente.
Così, abbiamo assistito allo showdown dell’anno – un imperdibile scontro
tra sistemi: Raptors contro Celtics – e a due piccole (e annunciate)
apocalissi.
I Clips, pure con i dollaroni e la voglia matta di Steve Ballmer,
rimangono i Clips.
Riscrivono la storia, a modo loro, facendosi rimontare quattro gare (!)
con un vantaggio in doppia cifra.
Sarebbe un evento clamoroso se non avessimo visto la banda Rivers: un
combo (individualmente forte forte) senza identità offensiva.
Solo isolamenti, scarichi (pochissimi ribaltamenti di lato) e qualche
transizione.

Nessun playmaker: quanti ancora (nel ventunesimo secolo, sessant’anni
dopo Oscar Robertson…) scambiano la point guard, cioè chi porta su la
palla, con chi il gioco lo vede e lo implementa?

Curioso che gli altri, i Denver Nuggets della pepita d’oro Jamal
Murray, lo spieghino col loro play corpacciuto (..): Nikola Jokic,
reincarnazione di Cresimir Cosic – l’emblema della point center – e
lungo europeo più talentuoso (nelle mani e negli occhi che creano palla
con estro) dai tempi di Arvidas Sabonis (e Pau Gasol).

Il non ritmo dei Clippers, che accendevano e spegnevano senza soluzione
di continuità, è riuscito a regalare inerzia e possessi alla contender
difensivamente più scarsa…

Gli Houston Rockets di Mike D’Antoni invece si estinguono, in una
modalità con pochi precedenti anche nel basket pro americano, alla
vernice di una gara4 contro i Lakers (in ciabatte) che ne annuncia
l’autodistruzione.

Separati in casa, allenatore e dirigenza, da un anno, la squadra
rincorreva un basket – seppure nella bolla e nella ripartenza – che
pareva una parodia estrema delle tendenze attuali.

Col senno di poi, ma lo si capì subito, il treno era passato nel 2018
nella (splendida e spietata) finale occidentale contro i dinastici Warriors.
Era quella, nell’esagerazione della ricerca della tripla, del ritmo
sincopato, ancora un’idea dantoniana (..) di pallacanestro: small ball e
una point guard (Chris Paul) eccelsa.

L’infortunio a CP3 in gara5, lo 0 su 27 durante gara7 impedirono l’impresa.
Un combo biodegradabile per i concetti cari all’ex play dell’Olimpia: la
classe operaia (Trevor Ariza, Clint Capela, Gerald Green, etc.)
contribuiva al caos organizzato.

I Rockets 2020, schiacciato l’acceleratore sul massimalismo più folle,
no: i cambi difensivi di P.J. Tucker (un grande giocatore di piccole
cose), gli aiuti di Robert Covington, lampi isolati in un ensamble
dedicato ad altro.

L’uno contro uno, esasperato, parossistico, di James Harden e le
zingarate (fuori sincrono) di Russell Westbrook.
Rockets sequestrati, e autorizzato dal management, dal magnifico solista
(solipsistico) con la barba.

Che produce offensivamente come nessuno, oggi, con uno chassis
originale: un palleggio hip hop, lo step back marchio di fabbrica, le
entrate per creare (inventare: inarbitrabile) falli e tiri liberi.
Prigioniero di una concezione ignorante e sopravvalutata (dal
Jordanesimo in poi) del gioco: che i realizzatori puri servano a vincere
i titoli, sul serio.

Ci si inanella con una visione collettiva, magari non giocando bene, ma
giusto (..).

La rinuncia a Paul, che non gradiva lo stile di Harden e lo fece capire,
ha generato tutte le retroazioni successive: compresa l’imbarazzante
Waterloo con Tinseltown.
Houston, you have a problem.

Il momento migliore della finale fusti degli US Open, all’insegna del
robotennis Pampers, arriva a un cambio campo: quando il deejay – ironico
o cinico? – dell’Arthur Ashe Stadium mette su “Under pressure”…
Uno spettacolo così così, a volte orribile, lo psicodramma offerto
da Dominic Thiem e Alexander Zverev.

Finisce, sfinisce, che si impone lo zoppo (l’austriaco) sul più
meritevole (il russo di Amburgo) ma troppo emotivo: titoli di coda
adeguati a un torneo più brutto che asteriscato.

Altra musica, clamoroso al Cibali, nelle donne: a dispetto delle
assenze, il Laykold è stato onorato da una serie di match (molto) più
interessanti.

Nelle ultime otto, da una parte, erano rimaste tre mamme: un segnale di
civiltà, di crescita, in un universo caratterizzato – non molto tempo fa
– da troppe storiacce di lolite.

Se la finalissima è stata rapsodica, pur mostrando un livello altissimo,
altre contese (e stelline) hanno brillato nel vuoto di Flushing Meadows.
La semi tra Serena Williams e Victoria Azarenka su tutte, Serenona
opposta a Cvetana Pironkova nei quarti, Vika contro Karolina Muchova
negli ottavi, etc.

E Maria Sakkari, Jennifer Brady, Elise Mertens.

Williams, esposta nel suo declino, più fragile atleticamente, mostra
meglio il suo talento tecnico: due colpi mancini, istintivi, con la
Pironkova e un’incredibile sequenza di vincenti nel primo set contro
Azarenka (6/1 3/6 3/6).

Bielorussa, smagrita rispetto all’evo da numero uno, impressionante nel
parziale d’apertura della finale: Naomi Osaka, per almeno venti minuti è
parsa impotente di fronte agli anticipi della bionda.
Col rovescio telecomandato, profondo e piatto, diagonale o in
lungolinea, che buttava indietro la giapponese.

A un passo dal baratro, un set e un break sotto, Osaka è tornata a
spingere: il suo baricentro è avanzato, quello di Vika è arretrato.
Naomi (che si imponeva 1/6 6/3 6/3) di lotta e di governo: una fluidità
rara nel colpire, un servizio preciso e potente, una risposta
(soprattutto dalla parte sinistra) esiziale. L’impressione (oltre lo
sguardo sbadato) di una campionessa che sappia leggere il momentum della
sfide, l’inerzia delle stesse.

Al di là del tre su tre nelle finali Slam, che ne indicano la qualità e
lo status acquisiti, la nipponica sta diventando il nuovo vessillo del
tennis femminile.

Antipersonaggio che, per scelta, non si sottrae a prese di posizione
scomode: come se diventare la sportiva più ricca del pianeta
precludesse, nel contratto, il dire e fare cose meno banali di alcune
(alcuni) sue (suoi) colleghe (colleghi).