IL CURIOSO CASO DI FABIO ARU. IL COMPLESSO DI NOLE DJOKOVIC E QUELLO STRONZO DI JIMMY CONNORS

Il curioso caso di Fabio Aru occupa un bel po’ dello spazio, ingeneroso,
di ciò che resta del ciclismo nei media generalisti.

La sorpresa, per un atleta di lignaggio in difficoltà evidenti (da tre
anni…), può esserci solo se la narrazione rimane – convinta – quella
del teatrino della tivù di Stato: dalle parti de “Gli Occhi Del Cuore”
di “Boris”.

Aru è vittima (e carnefice) di un meccanismo infernale, mediatico e
nazionalpopolare: la pretesa – irrazionale – che un paese con una
tradizione ciclistica secolare possa reiterare – ad libitum – campioni
di alto livello a ogni generazione.

Soprattutto quando questo sport, di un verismo brutale, è andato oltre
le scuole egemoni che, per una serie di eventi (che in Italia si
chiamano declino organizzativo e culturale), non stanno più al passo del
nuovo, che avanza e travolge i vecchi feudi (corrotti) comandati da
feudatari senza idee e futuro.

Del sardo fummo testimoni al Giro delle Valli Cuneesi 2011, doppiato
dallo storico Giro della Valle d’Aosta: quell’anno e il successivo.
Le VAM dell’alfiere della Palazzago, sulle salite alpine, erano già da
piano superiore, da pro del World Tour.

Per certe caratteristiche, l’ingobbirsi sulla bici, l’azione di forza
coi rapporti medi e lunghi, ci ricordò Fabio Parra: avevamo trovato un
colombiano nato nel Campidano…
Rispetto al rivale di Lucho Herrera: molto meno performante a
cronometro, ma con una botta, quando la strada è all’insù, che faceva la
differenza.

Alla Astana, in una coabitazione difficile con Vincenzo Nibali, Aru è
diventato un nome quasi immediatamente.

Un lustro ascensionale, irresistibile ma non troppo, e il picco
(assoluto) nell’estate 2017 con quel gruppo lì (fortissimo).

Al Criterium del Delfinato, un numero da circo sul Mont du Chat, il
titolo italiano di cazzimma e prepotenza a Ivrea, e la vittoria al Tour
a La Planche des Belles Filles staccando i Chris Froome e i Geraint Thomas.
Scusandoci per i Vayerismi, necessari quanto antipatici: 463 watt e 6,65
al chilo di potenza in quel frangente.

Quinto a quella Grande Boucle, finita così così ma con prospettive
(sulla carta) rosee (sic), e poi lo strapiombo.

Una programmazione senza senso (la Vuelta di quell’anno, conclusa in
apnea con una deriva sull’Angliru), il cambio di squadra all’UAE
Emirates per tanti tanti dindi e il gorilla sulla schiena sempre più
evidente.

Aru che correva poco (e male), senza amici in gruppo (poca empatia per i
compagni sgobboni…), che pedalava sempre peggio (sembra un ciclista
anni Sessanta…): abbiamo rincorso le voci, finché ci siamo stufati
della tiritera.

Non sarebbe il primo campione a finire presto il motore e le
motivazioni, non sarà l’ultimo.

I successi di Aru andavano contestualizzati, subito: la Vuelta 2015,
meritata, fu anche figlia di una serie di avvenimenti.

La squalifica del suo capitano, il Nibali, per traino (ripreso in
mondovisione…), la frattura al piede di Froome (il favorito) e Tom
Dumoulin che corse da isolato contro lo squadrone del sardo.

Con Aru c’erano Mikel Landa (che a maggio – al Giro – era stato
sacrificato per Fabio stesso…), Luis Leon Sanchez, Dario Cataldo,
Diego Rosa (che perderà il Lombardia 2016, secondo, tirando mezza gara
per Aru…).

Il praticantato da Olivano Locatelli (un sergente di ferro),
preparatorio quanto esigentissimo, ci sovviene di Yaroslav Popovych: la
stessa parabola, forse più esagerata.

L’ucraino da under 23 era un’iradiddio: vinse tutto, pareva un Sergei
Soukhouroutchenkov, un Eddy Merckx (sic).

Grandi promesse al Giro, per un combo di Colnago disegnato apposta per
lui, e poi una carriera piano piano anonima.

Citato il grande Ernesto, non possiamo farci sfuggire Beppe Saronni che,
ci hanno riferito, si è prodotto in una straordinaria imitazione di
Diego Lopez in diretta televisiva (il teatrino).

Che inchiostrò Aru, ai tempi, con tanto di dichiarazioni roboanti, e
dovrebbe invece solo supportare (e sopportare) una sua scelta.
Perché il punto è proprio qui, la luna non il dito che la indica: il
problema del ciclismo italiano non è Fabio Aru, dipinto ieri come il
nuovo Federico Bahamontes e oggi uno scansafatiche (dagli stessi!), è
che il giochino viene gestito – da eoni – da quelli come Saronni.
Punto, due punti, punto e virgola…

.


C’è voluto il dimenticabilissimo 2020.
Il covid-19, il Roland Garros che sbraca, l’Adria Tour, la bolla, la bua
al ginocchio di Roger Federer, il forfait di Rafa Nadal e la follia di
Novak Djokovic per avere un nuovo campione Slam.

Asteriscato, lo sapevamo da tempo: il brivido di un universo nuovo dopo
il Federerismo (e il Minotauro e Robonole, dunque).

Più ignorante e imperfetto di quello prima, speriamo meno omologato (ma
non dipende da loro…) e più biodiverso; di sicuro, vedendo i gradini
(..) del babbo di Stefanos Tsitsipas durante l’anabasi del figlio (sei
match point buttati nel cesso contro Borna Coric), con la psicopatia a
condire battute e risposte.

Il pomeriggio di ordinaria follia del numero uno, in un Arthur Ashe
Stadium spettrale, ne è stato l’esempio migliore.

Opposto a Pablo Carreno Busta, un cerbero che non si batte da solo, il
fuoriclasse serbo aveva mostrato il repertorio completo di questa stagione.

Un tennis quantitativo sfolgorante, innestato di qualità laddove non si
deve colpire la palla alta e al volo, con un rovescio (arma totale)
mostruoso per profondità e angoli.

Servizio de luxe (al suo meglio di sempre) e più variazioni (pensate).
Le ombre?
Il diritto, discontinuo e strappato, smargiassate (la palla corta
telefonata) e una nevrosi costante: stare sul campo senza rispettare la
liturgia del tennis e i propri cali agonistici.

Una recita continua, estrema, vocale (senza pubblico, le parole si
sentono bene…) e gestuale.

E’ il suo guaio, storico, rispetto agli altri due: se Federer comunica
la gioia del gioco e Nadal quella della competizione, fiera, della lotta
in sé, Djokovic ci trasmette la volontà diabolica (e insana) – un’ansia
totalizzante – della vittoria a ogni costo.

Non pare mai divertirsi sul serio (..): un aspetto grottesco se pensiamo
che, agli esordi, dei tre pareva il più buffo, il Djoker.

Dovrebbe far pace con la propria immagine, le moine costruite almeno
quanto la seconda di servizio (peraltro ottima…), e la sua fama.

Utilizzatore finale del tennis postmoderno, ha avuto in sorte (ancor più
del Fedal) un bonus statistico: un Jimmy Connors destrorso e senza Orso
tra le scatole, un Ivan Lendl a favore di terba.

Se il suo ’20 a gioco fermo è stato tragicomico, gli appelli No-Vax, la
baracconata indegna tra Belgrado e Zadar, la pallata filinesca (e
pericolosa) alla giudice di linea, dovrebbe comprendere che è
maledettamente bravo a fare il suo mestiere.

Anche se la clessidra incombe, pure per lui, e stronzo quanto Jimbo non
riuscirà mai a esserlo.

Che agli US Open, sfruttando il vantaggio campo, ne fece di ogni colore.
Nel ’77 il blitz per cancellare il segno della palla, sulla terra verde,
nella semifinale contro Corrado Barazzutti.

Sei anni dopo, nel 1983, in una finale all’O.K. Corral opposto
all’odiato (ed emergente) Lendl: un match di quella Flushing Meadows,
brutta (straordinaria), sporca e cattiva.

35 gradi all’ombra, un ventaccio umido e una folla rumorosa e ipereccitata.
Sul più bello, un set a testa, la leggendaria visita al bagno di
Connors, che chiese e ottenne per una (presunta) diarrea.

Il break, contro le regole di allora, consentì a Jimmy di incontrare –
in gran segreto – il medico dei New York Jets che gli praticò
un’iniezione di novocaina a un piede dolorante.

Roba che i medical time-out calibrati di Djokovic, cinque in finali di
major (quattro vinte), paiono il ruttino di un neonato.

Connors, che degli attaccanti da fondocampo fu il capostipite, trionfò
(6/3 6/7 7/5 6/0) aggiudicandosi il suo quinto (e ultimo) US Open.
A trentun’anni, a quel tempo, pareva un matusalemme.

Chiudiamo il cerchio (stavolta seriamente) poiché tutto torna: nell’83,
durante la finale juniores, una battuta di Stefan Edberg (vincente quel
dì, opposto a Simon Youl) colpì un giudice di linea.

Richard Weirtheim, 61 anni, cadde e battè la testa: un’emoraggia
cerebrale lo uccise, dopo cinque giorni di coma.