Pallini giordaniani ovunque, mai quanto i dieci miliardi (o forse quindici?) di cartucce per armi da fuoco, vendute ogni anno negli Stati Uniti.
Cristo si è fermato a Columbine.
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Partenza nizzarda, tra pioggia e cadute, del Tour 2020.
Il tracciato, che pare disegnato da un bambino francese di dieci anni, estremizza il concetto (digitale e scemo) di Vuelta de Francia tanto esplorato negli ultimissimi anni da ASO.
Nella speranza che si chiuda il digiuno bleus e che un Thibaut Pinot oggi, un Romain Bardet ieri, realizzi il colpaccio.
Il sogno sarebbe Julian Alaphilippe, un fuoriclasse, il galletto più talentuoso dai tempi – lontani – di Laurent Fignon e Bernard Hinault.
Ci si affida alla teoria del caos, a un percorso nervoso, senza molti riferimenti tecnici: le cronometro quasi abolite, una tappa una sopra i 200 chilometri, i Pirenei di passaggio, etc.
I corridori proveranno a salvare una corsa senza un’identità: priva di una logica nel calendario, al contrario delle classiche (splendide anche nello svolgimento), col coronavirus a mò di nuvola (nera, minacciosa) sulla carovana che dovrà essere una bolla – in movimento – per ventitre giorni.
Una Grande Boucle che – agonisticamente – ci consentirà di comprendere meglio il ribaltone in atto, nei rapporti di forza tra portaerei.
Nel ’19, la vittoria di Egan Bernal fu consentita dalle circostanze: pesce pilota di Geraint Thomas, senza Chris Froome nella squadra, correva nella situazione ideale.
Stavolta guida una Ineos Grenadiers, insieme alla matricola (al Tour) Richard Carapaz, contro la nuova dominatrice del plotone.
Una Jumbo-Visma di lotta e di governo: il nuovo padrone tra i classicomani, Wout Van Aert, l’emergentissimo Sepp Kuss, i vecchi leoni Tony Martin e Robert Gesink a scortare la (strana) coppia regale, Primoz Roglic e Tom Dumoulin.
Lo sloveno, strapotente, all’occasione della carriera, affiancato da una Farfalla di Maastricht che potrebbe riprendersi lo scettro di ciò che era, prima dell’incidente di Frascati al Giro 2019: quello di miglior tappista del dopo Froome.
Sulle api olandesi, i fantasmi (divertenti) di una coabitazione scomoda simil Le Vie Claire 1985-86, della faida tra il Tasso e Greg LeMond: potrebbe essere la chiave, spettacolare e tattica, di tutta la giostra.
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La scoperta dell’acqua calda ciclistica è accorgersi di quanto siano appassionanti alcune gare femminili.
La Course by Le Tour de France, dove Lizzie Deignan beffa la regina Marianne Vos, e – qualche dì prima – un’edizione spumeggiante degli Europei.
A Plouay, su un circuito storico, Elisa Longo Borghini mette in difficoltà Annemiek Van Vleuten, più volte, e poi perde (inevitabilmente) lo sprint a due.
I commenti, giusti nei toni, dissonanti nella lettura della gara, sottolineano la generosità della figlia di Guidina Dal Sasso, dimenticandosi le regole – non scritte – di questo sport.
In un pomeriggio dove la Van Vleuten ha mostrato di essere alle corde, gli attacchi (scriteriati) della Longo Borghini non permettono all’attaccante stessa l’oro.
All’azzurra della Trek-Segafredo, un motorone, manca ancora la lettura della corsa per agganciare (..) le olandesi dominanti.
Non aveva senso fare quel forcing, opposta alla campionessa del ciclismo ignorante, tutta watt e incoscienza.
Nel finale, più che proteggere la medaglia, avrebbe dovuto far perdere l’iridata: è la base della disciplina, si corre anche contro gli avversari.
Jacques Anquetil docet.
E’ un metodo che si può rivelare vincente: che tiri la Van Vleuten negli ultimi chilometri…
Senza citare le prodezze, sadiche, di una Jeannie Longo che a un Mondiale, eravamo ad Agrigento (1994), rincorse pancia a terra le connazionali (Catherine Marsal e Cécile Odin) per impedire loro di vincere.
Lo sport rosa, rispetto all’altra metà del cielo (..), vanterebbe proprio queste caratteristiche implementate: le rivalità sono (più) feroci e, di conseguenza, meno prevedibili.
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Mentre là fuori, nel cosiddetto mondo reale, ci si indigna se degli sportivi milionari protestano per la situazione, estrema, della propria comunità (e lo fanno i fanatici di un miliardario nato col c**o al caldo), la bolla ci consegna la prima serie di playoffs di Luka Doncic.
Opposto ai Clippers, favoriti a Ovest (..) a dispetto di una pallacanestro bipolare (e brutta da vedere), e al two-way più forte dell’NBA contemporanea, un Kawhi Leonard sempre più assassino silenzioso ed MVP ombra.
Il 4 a 2 per la banda Rivers non toglie un grammo (d’oro) alle performance dello sloveno che, come e forse ancor più del pre serrata, ha disegnato e comandato il gioco – modernissimo, dunque drogato nelle cifre – nemmeno fosse una versione europea (meno supereroe di Stan Lee) di LeBron James.
L’impressione, al di là dei ventuno anni, è che il pupone sia sul serio il prossimo (prescelto) per versatilità (estrema) e dominio tecnico e tattico.
Sessant’anni dopo il profeta, l’iniziatore della palla con estro, che predicava alla Crispus Attucks e poi a Cincinnati e in NBA, l’Europa e mamma Mirjam hanno prodotto il loro Big O: un paragone da far tremare i polsi.
Rimanendo qui, nel Vecchio Continente, citiamo due antenati (più uno).
Mirza Delibasic, il primissimo swingman moderno dell’eurobasket: istinti inenarrabili per il canestro e il playmaking, una visione complessiva del match (flusso e inerzia).
Qualcosa di Hedo Turkoglu, un corpaccione (la testa separata dal resto, ahi lui) a suo agio in ogni zona del parquet che – all’apice, nel clutch delle partite chiave – portò quei Magic (2009) alle Finals.
Lampi di Doncic, nella classe (purissima), si vedevano anche in un altro sloveno che, a causa degli infortuni (alle ginocchia), ebbe una carriera a metà: Sani Becirovic.
Contro la Los Angeles che fu Paperclips (sic) Doncic, nei Mavericks privi di Kristaps Porzingis, è stato raddoppiato quasi sistematicamente.
Eppure molte volte ha imposto il suo ritmo, a tutti, guidando i parziali più felici dei suoi: come ribalta il lato col passaggio, leggendo l’aiuto e le rotazioni difensive con un timing alieno, è l’aspetto più straordinario del suo arsenale da all around.
Va (sempre) meglio nella varietà delle soluzioni offensive soliste, le triple, lo step back, gli arcobaleni, l’euro step rallentando (alla Oscar Robertson…) la penetrazione.
Nel futuro, considerando la pallacanestro che si sta implementando (le spaziature raddoppiate), Doncic dovrà moderare l’hardenizzazione già in atto.
Giocare più dimensioni, limitare gli isolamenti e il palleggio passivo (..), per ricordarsi che il suo stile non può essere rapsodico al pari di quello di un Barba.
La mancia, vedendo i miglioramenti dei pretoriani Tim Hardaway jr, Maxi Kleber (che bel giocatore da piccole cose…), Seth Curry, sarà compito del dinamico duo Mark Cuban e Rick Carlisle.
Prove tecniche di franchigia da anello.
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US Open 2020 particolari, in uno scenario che definiremmo desolante.
Il colpo d’occhio di Flushing Meadows semivuoto, il catino dell’Arthur Ashe Stadium dall’alto, sembra una simulazione della Lego (o di un Subbuteo tennistico).
Ad aggiungere sale sulle ferite, le lacerazioni dell’ATP con Novak Djokovic alla guida dei ribelli: le ragioni ci sono, le retroazioni paiono troppe.
Andrea Gaudenzi, dopo la smargiassata del Roland Garros, si ritrova l’associazione in uno de I Tagli di Lucio Fontana.
Finirà male e la determinazione delle parti promette una telenovela, che ci potrebbe (ri) portare a un tennis anni Sessanta, a due circuiti.
In mezzo, a mo’ di piramidi, il sistema dei quattro Slam che produce (molti) dindi per le Federazioni e l’ITF.
Le ambizioni di Nole, una capatosta, non sono da sottovalutare: per adesso, i nemici (di oggi e ieri, chissà domani) lo riconoscono come l’organizzatore del più grande coronavirus party nella storia del tennis, tra Belgrado e Zadar.
Djokovic, tornando al Leykold dei campi, è l’unica certezza – verso il major numero diciotto – di un torneo (maschile) più illeggibile che monco.
Il numero uno avrebbe pure aggiunto un rovescio in back angolatissimo, ai confini con la palla corta, nella valigia strapiena.
Sono le condizioni atipiche, di ingaggio e di abbordo, a costituire un enigma: anche nel Mille di Cincinnati (finta), le contese erano attraversate da cali di tensione sconcertanti quanto umani.
Un cybertennis meno sicuro nelle intenzioni, un ossimoro: vedere Nole affossare diritti a punto fatto o Roberto Bautista Agut – senor regularidade – non riuscire a piazzare una prima (a velocità da circolo veterani…) faceva impressione.
Il discorso è più semplice per il tabellone donne: visto il momento, e il prologo, una lotteria che coinvolge almeno una dozzina (!) di atlete.
Inutile sottolineare, che il combined ne fa lo Slam più scarso dai tempi degli Australian Open fine anni Settanta.
La tombola degli infortuni, dietro l’angolo con quelle preparazioni così così, ne asterischerà ancor più i risultati.