BURATTINAI, CORDE E BURATTINI. LA PROFEZIA SENZA TEMPO DI KYNODONTAS

Andiamo contro la funzione ludica della rete e stravolgiamo il mantra che la obbliga a incagliarsi sul tempo presente.

“Kynodontas”, secondo film del regista ellenico Yorgos Lanthimos, è uscito (..) nel 2009.

Fece sensazione soprattutto in patria in quanto colse l’attimo, drammatico, di quel paese.

Fuggite a gambe levate, se cercate novanta minuti di intrattenimento hollywoodiano.

Uno dei pregi più visibili dell’opera è proprio l’apparente rifiuto della funzione, puramente estetica, del mezzo cinematografico.

Perchè “Dogtooth”, questo il titolo anglicizzato, destruttura ogni cosa.

A partire da quelle inquadrature fisse, teatrali, oscene nel senso più puro del termine, ovvero fuori scena.

Un lungometraggio nel quale i protagonisti rimangono privi di un nome, un’identità che è tale solamente nei ruoli che ricoprono.

Un padre padrone, una madre moglie complice e tre figli, le cavie da laboratorio, un fratello e due sorelle, prigionieri inconsapevoli di una pantomima.

E’ pure indefinito lo scenario: potremmo ipotizzare, osservando gli oggetti, un’ambientazione nella prima metà degli anni Ottanta.

La trama non c’è, o meglio è un chiavistello per forzare l’inconscio dello spettatore.

Dalla villa con giardino, sogno bagnato (e indotto) di intere generazioni, non sembra esserci via di fuga.

L’invenzione di un nemico spaventoso là fuori consolida le catene, le fortifica.

L’habitat, artificiale oltre l’immaginazione, diventa macchinazione: il non luogo dove la saliera è il telefono e la vagina una tastiera.

“Kynodontas”, con la sua violenza primordiale, è un film sul linguaggio e il potere intrinseco, totalizzante, che esercita su di noi.

Che costruisce la forma mentis e decide lo sguardo e la visione dell’individuo sul mondo.

Il linguaggio delitto perfetto, essendo ovunque, si rende invisibile.

La vicenda ha sullo sfondo un’esile, ma evidente, vena umoristica.

Nerissima.

Ci ha ricordato, in alcuni passi, le pagine più geniali di Goffredo Parise quando, ne “Il padrone”, afferma “…Il prototipo della famiglia ideale che (si) intende creare nel futuro: cioè il capolavoro della proprietà assoluta.

Infatti le sole catene che non si possono spezzare sono quelle della specie…”

E se tutto ciò fosse solo l’approdo, lo sbocco naturale, della civiltà tecnologica?

I dialoghi asettici, minimali, sono fondamentali nel colorare l’intreccio.

Le parole, la loro semantica, paiono infilate in una fantasmagoria, una scatola magica, illuminate parzialmente nel buio.

Il potere assoluto quindi non risiede nelle immagini, ma nel riuscire a veicolarle con il lessico giusto (gli ordini…) per connetterle, al meglio, nel meccanismo posto in essere, prima, con metodo.

Un caso biologico.

Cancellare le prospettive anche visive, nel film il tormentone dell’aereo ne è l’emblema, riduce tutto a un universo di burattinai, corde e burattini.

E’ la nostra cronaca collettiva, il cosiddetto sistema.

Chi arriva dall’esterno di quella casa, Christina, è l’unica ad avere un nome proprio.

Introduce un elemento scardinante, un germe, che rischia di compromettere la costruzione verosimile dei genitori carcerieri.

Il batterio arriva tramite innocue videocassette: la finzione, attraverso i miti improbabili dei blockbuster, veicola la realtà o almeno un segmento di essa.

Non pensiamo sia un caso che un (capo) lavoro così sia stato partorito in Grecia, l’epicentro europeo della crisi che sta mettendo in discussione, pesantemente, il nostro modello socioeconomico.

“Dogtooth”, incatalogabile, molto probabilmente sfuggirà anche al controllo dei suoi creatori.

Accade soprattutto per le opere, come questa, che contengono una profezia.

Brutale, spietata, essenziale.

Studio antropologico dell’umano o di ciò che ne rimane, (ri) definisce un’epoca fornendo un catalogo, un bestiario, della nostra modernità.

Pubblicato da Indiscreto il 19 dicembre 2011