L’ODIO ITALIANO VERSO IL CICLISMO. L’NBA CONTRO DONALD TRUMP. LA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA NEL CALCIO E L’ULTIMA SPIAGGIA DI MESSI

Pallini estivi – nel senso di Mister Pressing – come la grandine che è scesa sul Col de Porte al Delfinato: sassi di ghiaccio, grossi e rossi (echimosi) – sulle schiene di quelli del gruppetto – come la Pimpa e la maglia a pois del Tour.
Di cose, ne succedono troppe e starci dietro non conviene.
Il 2020 al pari di un set matto di Hana Mandlikova, che partiva annullando l’avversaria – impotente di fronte a quel talento fuori misura – e poi, all’improvviso, cancellava se stessa uscendo dalla partita e dal torneo.

Arrivano contati, uno alla volta, i protagonisti di un Lombardia cattivo: le foglie morte, a Ferragosto, ridiventano verdi e sottolineano l’atipicità del momento.
Il ciclismo è, tra gli sport professionistici post covid-19, quello che – esteticamente e nella carne – ci offre lo spettacolo migliore.
L’asterisco, in questo caso, aggiunge epicità allo scenario: il caldo, le preparazioni così così, le molte squadre sbrindellate sovraccaricano il menu.
Accade che, più che del successo di Jakob Fuglsang, di watt e cazzimma, ci si preoccupi per il volo (spaventoso) di Remco Evenepoel.
Il fatto, riproposto sadicamente migliaia di volte, da angolazioni diverse, sui media digitali, sottolinea cose mai rimarcate abbastanza.
Evenepoel non è granché in discesa.


A Remco, una specie di Sergei Soukhouroutchenkov, dunque un mostro, è mancato il praticantato under 23: non è brocco quanto Ilnur Zakarin o Miguel Angel Lopez, ma la guida tecnica del mezzo è essenziale se si vuole realizzare quel potenziale (atomico).
Il marketing, le attenzioni rivolte verso il personaggio (mediatico), gonfiano l’avvenimento: nel 2017, da quelle parti, Laurens De Plus rischiò sul serio di ammazzarsi.
Due settimane fa Fabio Jakobsen, anch’egli del gruppo di Patrick Lefevere, chiuso alle transenne dal collega Dylan Groenewegen in uno sprint (i celeberrimi cento metri di buio morale…), al Tour de Pologne ha visto la morte in faccia.
L’anno prima, nella corsa organizzata da Czeslaw Lang, la tragedia del promettentissimo Bjorg Lambrecht.
E nel ribaltone prospettico – tra ras – degli squadroni fu determinante anche l’incidente (scioccante) a Chris Froome al Critérium du Dauphine 2019: in pochi mesi, l’Ineos (Sky) è passata dal probabile pokerissimo in giallo del suo capitano a un gruppo senza un’identità.
Il ciclismo è ormai lo sport più pericoloso di tutti: alle asprezze ataviche del mestiere, leggendarie, si affastella la cosiddetta modernità.
Le strade, lisce come l’olio, circondate (assediate) da automobili ovunque, parcheggiate male, indisciplinate, ignoranti (la signora in suv che travolge Maximilian Schachmann a Como…).
Gli ostacoli si sommano: i restringimenti della sede stradale, le rotonde, le isole pedonali, bici sempre più performanti che invitano al rischio, un plotone internazionale che non prevede più appartamenti e gerarchie (e amnistie nel ritmo di gara).


La cicuta nel caffé (amaro) è solo nostrana e la riportiamo alla Milano-Sanremo del nuovo Spartacus Cancellara, Wout Van Aert, un altro che – alla Grande Boucle ’19 – si era fatto malissimo contro una transenna malmessa.
Quei sindaci del Savonese, rifiutando la Classicissima (che si spera rimarrà ad libitum col percorso rinnovato, più bello e selettivo), hanno solo interpretato la pancia (non fanno altro, per mestiere…), il comune sentire, di molti.
L’odio italiano, antistorico, verso il ciclismo è un dettaglio importante nel quadro generale: oltre il d****g , Pantanology, l’impreparazione culturale dei giornaloni, l’antropizzazione del paese non prevede riserve indiane.
Tutto ciò che è altro dal carnaio, dalla deviazione da Il Sorpasso (siamo ancora là, biologicamente, sempre più Bruno Cortona o Roberto Mariani), ha quasi dell’intollerabile per un popolo che considera la libertà un esercizio solipsistico (e massificato…).

L’NBA arriva al suo zenit, sfoderando un’organizzazione (militaresca quanto procteriana) che il resto, o i resti, degli States si sognano.
Nel conto delle otto sfide in Florida, verso i playoffs, l’insostenibile leggerezza di un tabellone che – soprattutto a Ovest – è privo delle certezze acquisite.
Poiché i parametri della regular season 2020, fino alla serrata, sono tutti saltati: compresi il fattore campo e gli stessi roster.
Ai numeri uno occidentali, i Lakers di LeBron James, mancano due giocatori chiave nella rotazione (Avery Bradley e Rajon Rondo). Opposti ai Trail Blazers dell’MVP di Orlando, Damian Lillard, i margini sono pochi…
La bolla ci ha restituito una pallacanestro con percentuali di tiro folli: giocare nello stesso ambiente, con punti di riferimento imparati a memoria e senza pubblico (rumori, urla, tifo contro), esalta i meccanismi offensivi che paiono sotto naftalina.
Il resto invece non lo è, compreso l’immaginario dell’NBA stessa che – volente o nolente – si è fatta carico delle istanze del Black Lives Matter.
Silverville rischia grosso, estremizzando il proprio brand (..) di riferimento: le aree metropolitane, il mercato globale, etc.
Lo scontro con certa America, cavalcata, blandita da Donald Trump, il commander in chief più divisorio (e nichilista) mai avuto dallo Zio Sam, sta scritto sulla pelle (..).
In fondo, a molti nella Bible Belt non è mai fregato dell’NBA dominata dagli afroamericani: il negro è tollerato (..) meglio nel college football e nell’NFL, laddove un casco e le protezioni rendono meno evidenti l’identità degli atleti.
Ci fanno ridere coloro i quali stigmatizzano alcuni atteggiamenti: laggiù, senza lo sport, senza l’esempio di Jackie Robinson, le vittorie della Crispus Attucks di Oscar Robertson, certi processi di integrazione non sarebbero cominciati.
Così, un occhio alla viralità social e un altro agli ascolti televisivi, l’NBA partecipa al consesso e prende una posizione, costosa ma inevitabile.
Perché ottobre, il mese delle Finals, sarà l’approdo caldissimo a novembre: Trump, da figlioccio di Roy Cohn, sa che il razzismo sistemico può essere una leva per arrivare al (clamoroso) bis.
Dividi, disorienta e impera.
Bastava osservare i flussi elettorali del colpaccio del 2016, realizzato col voto di una minoranza rumorosa (bianchissima): gli afroamericani, l’idolo di Patrick Bateman non lo voterebbero nemmeno sotto tortura.

La stagione europea dei club, tra Lisbona e la Germania, chiude un’annata inverosimile.
La scoperta dell’acqua calda sembra il prossimo verbo del giornalismo calcistico, il più povero (e fieramente) ignorante.
Ci sovviene, tanti anni fa, Maurizio Mosca sbalordito dalla notizia che, per disputare a mezzodì un anticipo (ai tempi, una primula rossa), le due squadre dovettero pranzare la mattina all’alba.
Il nostro non conosceva le usanze degli altri sport, che così facevano (e fanno) a mo’ di prassi fisiologica.
Prima di Bayern-Barca, ci pareva scontato un risultato “tanti a pochi” per le caratteristiche tecniche e tattiche delle due nobili continentali.
Eppure, molti anticipavano (vendevano) una sfida galattica.
In un gioco che, da almeno un ventennio, è atletica leggera applicata a un pallone e a un campo in erba lungo cento metri, ha quasi dell’incredibile non comprendere che la base è innanzitutto psicofisica, poi collettiva, infine individuale.
Come potessero sfolgorare le squadre italiane, spagnole e inglesi di Champions con quell’approccio agostano, approssimativo e affannato, resta un mistero.
Se poi le big sono a fine ciclo (la Juventus, rotta e cotta) o all’ammazzacaffé (i blaugrana), il calendario rendeva loro il torneo – con una formula simil Coppa del Mondo FIFA – il Colle delle Finestre con la pioggia e il fango…
La Serie A – terminata il 2 agosto – aveva preparato (..) le sue squadre, arrivando a far disputare (tra Coppa Italia e campionato) fino a quattordici partite in cinquanta giorni: d’estate, la sera, a trenta gradi centigradi nelle città italiane.
Idem con patate per la Liga, undici match in trentotto dì, e la Premier (con l’appendice fino all’1 agosto dell’FA Cup) che poteva prevedere tredici gare in quarantadue giorni.
Una differenza fondamentale con la sorpresa Olympique Lione che, nello stesso periodo, senza impegni agonistici, ha programmato otto settimane di allenamenti specifici prima dell’epilogo della Coppa di Lega con il PSG (un combo extralusso con il medesimo avvicinamento), il 31 luglio.
O con la Bundesliga che, chiuse le danze con la finale di DFB Pokal (il 4 luglio), ha dato oltre un mese di tempo alle sue rappresentanti per ottimizzare la forma.
Un’occasione d’oro per una corazzata, già dominante in condizioni normali, come il Bayern Monaco.


L’umiliazione del Barcellona, un allenamento agonistico bavarese degno del 7-1 della nazionale tedesca contro il Brasile ai Mondiali 2014, ripropone un tema coperto dal rumore bianco delle cifre e dei Palloni d’Oro.
Il vero ruolo di Leo Messi nella storia del calcio, quello prima del macchinario mediatico-finanziario Champions League: che era (molto) meno facile per i fuoriclasse, per le regole d’ingaggio e i regolamenti, rispetto all’omologazione contemporanea.
L’argentino, un fenomeno, supportato dall’estetica del gesto e dalle statistiche (gonfiate, persino nell’attribuzione di quella che una volta era un’autorete…) che si oppongono al senso classico del (vecchio) campionissimo.
Ovvero colui che ribalta l’inerzia di una contesa, di un torneo, e che va oltre il lignaggio dei propri compagni, elevandoli.
Messi, ciliegina sulla torta della cantera che produsse Xavi, Andrés Iniesta, con l’eclissarsi della generazione d’oro pare più divertente che utile.
In Portogallo, il rovescio (brutale) è stato l’ennesimo di una tabella di marcia – nelle partite decisive – eloquente.
2016 QF Atletico Madrid 0-2 / 2017 QF Juventus 0-3 (R16 PSG 0-4) / 2018 QF Roma 0-3 / 2019 SF Liverpool 0-4 / 2020 QF Bayern 2-8 …
Siccome i gol e le giocate decisive si dovrebbero pesare, non contare, l’ultima spiaggia della Pulce sarà nel Qatar 2022 a dicembre.
In una rassegna iridata terminale, anche per l’idea – un po’ cretina – che coltiviamo del foot, Messi proverà a scacciare i (troppi) fantasmi di una carriera straordinaria quanto robotica.
Il più grande calciatore dell’evo Champions League è anche il più sopravvalutato nella storia del calcio?