MONICA, DA NOVI SAD CON FURORE, E LA RIVOLUZIONE INTERROTTA

In televisione e sugli altri media – per ingannare il tempo, si dice: ma avviene sempre il contrario, è lui che ci frega – dilaga la retromania.

Solitamente distorta da un amarcord a senso unico, lo sport di quando si era adolescenti sì che era sport non come adesso (..), con l’aggiunta – al pari del ketchup sul cibo plastificato – del voto (acchiappaclic) in sondaggi involontariamente (?) demenziali.

Ma, quasi per sbaglio, in quelle che furono visioni catodiche, ci si imbatte in repliche e scopriamo l’acqua calda.

Per esempio, nei giorni di un Roland Garros che non c’è, si viene corroborati da due partite d’archivio della WTA: due O.K. Corral tra le più forti tenniste degli anni Novanta.

Steffi Graf e Monica Seles, le amazzoni che traghettarono il tennis femminile dalla prima età dell’oro, quella del duopolio fra Chris Evert e Martina Navratilova, a quella – che cominciò proprio con loro – che ci introdurrà alla generazione delle Williams, Martina Hingis, Lindsay Davenport, etc.

Malgrado la grandezza di Fraulein Forehand, un’atleta fuori dal mondo, un oro olimpico nei quattrocento ostacoli convertito al tennis, in quelle due contese, Parigi 1992 e Melbourne 1993, luccica l’altra.

La bambina che irruppe sulle scene come un uragano, rivoltando il gioco (e la Graf) per sempre.

La finalissima al Court Central, che Seles si aggiudicò dopo due ore e quarantatre minuti di braccio di ferro (6/2 3/6 10/8), ebbe qualcosa dell’evento.

Confermò la nuova inerzia, ribadita – dall’anno prima – anche dal ranking mondiale: nella lotta, disperata, dell’ultimo parziale (novantuno minuti di contesa!) c’era tutto il senso (tecnico, tattico e agonistico) della rivalità.

La tedesca, abituata a travolgere le avversarie di ritmo, con la jugoslava si imbattè in una nuova specie, addirittura un unicum nella storia del tennis.

Monica da Novi Sad, i Seles erano di origini ungheresi, era una pulcina (..) quando prese in mano la racchetta.

La leggenda racconta che il babbo Karolj, di professione fumettista, per farla giocare dipinse le righe del campo in un parcheggio.

Monica aveva le gambe lunghe, da fenicottero, del padre che, in gioventù, fu un eccellente triplista.

Madre Natura, oltre il talento per impattare la pallina con un anticipo sconosciuto alle altre, le regalò anche un cuore bradicardico: a riposo, 40 battiti al minuto.

Quell’ultimo set, crudele, Seles avrebbe potuto vincerlo di giustezza, mezz’ora prima: non furono solo i cinque matchpoint smarriti a suggerirlo, ma l’andamento (furioso) dell’incontro.

Graf, di fronte a quella versione (potenziata, nella comparazione femminile) di Andreino Agassi (scherzi del destino…) annegava.

Il back di rovescio (pur prodigioso), sulla terra, non infastidiva quel tennis aggressivo, con gli angoli strettissimi (e aperti), piedi (veloci) in campo a comandare lo scambio, dirigerlo, e un lungolinea micidiale.

Seles era apparsa così, subito, quindicenne, nello stesso stadio, contro Graf nella semifinale del 1989.

L’impugnatura doppia, sia a sinistra che a destra, battezzata quadrumane da Gianni Clerici, creava angoli mai pensati.

Quella furia, che grugniva a ogni colpo, era arrivata all’accademia di Nick Bollettieri, in Florida, col fratello Zoltan, a dodici anni.

Appena quattro stagioni e – a sedici anni e sei mesi – il Roland Garros era già suo: la trentaseiesima vittoria consecutiva del 1990.

Mentre Monica sbriciolava piano piano le certezze di Steffi Graf, la Jugoslavia cominciò la sua diaspora violenta.

Campionessa apolide, senza patria (e pace), pareva aliena a tutto: alla pressione, al pubblico (che a Parigi quel pomeriggio le tifò contro…), alla logica (antica) di gesti che lei aveva stravolto.

Quasi otto mesi più tardi, agli Australian Open, un’altra recita della stessa saga.

Per un quarto d’ora, Graf si illuse e conquistò il parziale d’apertura; poi la realtà (tecnica) irruppe sul rebound ace.

Seles serviva (mancina) e rispondeva meglio della tedesca, durante i rally era quasi sempre l’adolescente della Vojvodina a decidere: nel terzo set, Steffi entrò in una specie di camera della tortura.

Martellata sulla diagonale del suo backhand, nell’angolo, in attesa di una variazione (vincente) dell’altra.

Un no contest o giù di lì (4/6 6/3 6/2).

Due asterischi.

Quelle accelerazioni, violente e profonde, Seles le produceva con una Yonex (o una Prince) pre luxilon.

Allora era difficile farle, oggi molto meno.

L’adattamento all’erba dell’epoca, per il suo stile, era più complicato rispetto alla terba (dove sarebbe a suo agio…): vedendo Melbourne, era solo questione di tempo.

Dal gennaio 1991 al febbraio 1993, Monica infilò 33 finali (vincendone 22) nei 34 tornei disputati: 55 a 1 negli Slam.

Fino a quel (maledetto) 30 aprile 1993, nel circuito maggiore, la jugoslava – a diciannove anni – aveva compilato un incredibile 231-25.

Avvenne poi l’indicibile in Germania: un tranquillo quarto di finale – di paura – contro Magdalena Maleeva ad Amburgo.

Alle cinque del pomeriggio, durante una sosta, uno spettatore accoltellò Monica Seles alla schiena.

Gunther Parche, il nome dello squilibrato, era un fanatico della Graf.

La vicenda parve kafkiana, e atroce, in ogni dettaglio e sviluppo della storia.

Le rose spedite a Steffi, ignara, a ogni compleanno dal pazzoide, il torneo che continuò il dì dopo come nulla fosse, le minacce (geopolitiche) che aveva ricevuto Monica in piena guerra dei Balcani.

A Parche, che interruppe – ammazzò – la rivoluzione, non venne riservato un solo giorno di carcere: Graf tornò numero uno e dominatrice della WTA.

Seles scomparve, si eclissò, fino all’estate 1995: quando ritornò era ancora un’ottima giocatrice, ma una copia sbiadita della fuoriclasse che fu sino alle 16 e 59 del 30 aprile 1993. 

Avrebbe rivinto un major, l’ultimo (il nono) di una carriera assorbita, pietrificata, da quel buco nero di Amburgo.

Nel frattempo, attorno a lei, troppe cose: la depressione, i disturbi alimentari, la bulimia, la fuga degli sponsor, il tumore e la morte del padre.

E l’idea di una beffa: Parche, affondando la lama nella pelle di Monica, alterò senza soluzione di continuità gli albi d’oro del tennis professionistico femminile.

Un caso estremo che ci imporrebbe un’ucronia sportiva: una storia parallela, suggestiva e inutile.

Tanto quanto produrre le tavole sacre dei comandamenti affastellando statistiche che, troppe volte, vengono decontestualizzate.

O che il racconto quotidiano, non solo dello sport, dovrebbe fare a meno di insistere su un’identificazione totalizzante, nazionalista e dunque sulla descrizione dell’altro, degli altri, come usurpatori.

Meglio ricordare, noi, ciò che la Seles – per la sua salute (mentale) – dovette dimenticare.

Compreso il rifiuto delle colleghe, tranne Gabriela Sabatini, di preservarle la classifica durante l’assenza.

Un covo di serpi non si sarebbe comportato peggio: il campionismo è anche quello.