PLUME, STORIA E MALEDIZIONE DEL PRIMO CAMPIONISSIMO – PARTE SECONDA

I Pelissier possono essere considerati, ancora oggi, come il nucleo famigliare con più talento espresso in un singolo sport.

Gli altri due fratellini di Henri, che scelsero l’agonismo, crebbero nell’esempio del fuoriclasse di casa e furono campioni: Francis accompagnò Plume nella fase matura della sua carriera e diventò, oltre che un eccezionale luogotenente, un cacciatore di classiche.

Fondista adatto ai massacri dell’epoca, per esempio l’interminabile Bordeaux-Parigi, fu protagonista di tante corse: fiore all’occhiello del palmarès, i tre titoli nazionali e una Parigi-Tours da tregenda (sotto la neve: terminarono in otto).

Si aggiudicò anche l’unica corsa che sfuggì al fratello: il Grand Prix Wolber, la competizione che in quel periodo venne considerata come il mondiale ufficioso.

Appesa la bici al chiodo, divenne direttore sportivo e talent-scout: la pepita più lucente che scoprì fu Jacques Anquetil, portato giovanissimo al professionismo.

Charles, il più giovane, raggiunse i due qualche anno più tardi, al tramonto dell’era di Henri.

Passista veloce di altissimo livello, capace anche (nelle giornate di ispirazione massima) di andare forte sulle salite.

Definito il “Brummel in bicicletta” o Valentino per l’eleganza e lo stile, lanciò la moda dei guanti bianchi e dei tre Pelissier fu il più amato dal pubblico.

Il suo nome si legò – per sempre – al Tour de France 1930, quando sgominò il campo aggiudicandosi otto tappe: in quella edizione, la prima corsa con le squadre nazionali, fu anche prezioso scudiero del compagno Andre Leducq, vincitore a Parigi.

Il suo record di otto frazioni sarà eguagliato, nella storia della Grande Boucle, solamente da Eddy Merckx (1974) e Freddy Maertens (1976).

Ma rischiò di andare oltre, piazzandosi sette volte secondo e tre terzo.

Le volate con Raffaele Di Paco, grande sprinter italiano, furono un altro leit motiv di quei Tour eroici dei forzati della strada. Un’epica forgiata, involontariamente (?), dalle parole del fratello Henri…

1924. Albert Londres, il padre del giornalismo d’inchiesta moderno, seguì come corrispondente il Tour de France: digiuno di ciclismo, si appassionò a quello spettacolo vergando uno dei documenti essenziali nella storia della cronaca sportiva.

Descrisse la follia di quell’evento, parteggiando empaticamente con i corridori; reduce da un reportage sui carcerati, trovò una similitudine perfetta tra i condannati ai lavori forzati e gli sfregaselle.

“Ci sono artisti da circo che ingoiano mattoni e altri che mandano giù rane vive. Ho visto fachiri scolarsi del piombo fuso. Tutte persone normali. I veri pazzoidi sono alcuni esaltati, partiti il 22 giugno da Parigi, per abbuffarsi di polvere…”.

L’apice di quella suggestione fu l’incontro di Londres con Henri Pelissier, la mattina del suo ritiro a Cherbourg.

Al solito, Ficelle trovò da dire con un giudice di gara: il regolamento, perverso, non permetteva agli atleti di indossare due maglie una sopra l’altra e Plume, all’ispezione del maresciallo Baugé, reagì inalberandosi.

Raggiunse furioso il fratello Francis e Ville in fuga e propose a entrambi il ritiro.

Dopo l’ammutinamento, seduti nel bistrot della stazione, il reporter raccolse le parole (leggendarie) di Henri…

“Voi non avete idea di cosa sia il Tour de France… E’ un calvario. Anzi peggio, perché la Via Crucis non ha che quattordici stazioni, mentre il nostro ne ha quindici. Soffriamo dalla partenza all’arrivo. Volete vedere come andiamo avanti? Aspettate…”. E dalla borsa estrae una fiala. “Ecco, questa è cocaina per gli occhi. Questo è cloroformio per le gengive…”

“E le pillole? Volete vedere anche le pillole? A voi, signori! Eccole qui!”. Ne tirano fuori tre scatole a testa.

“E non ci avete ancora visto all’arrivo, al bagno. Concedetevi questo spettacolo. Le bocche spalancate, bianchi come sudari, svuotati dalla diarrea, gli occhi spenti. La notte, nelle nostre camere, non dorme nessuno e siamo presi quasi dal ballo di San Vito…”

Il pezzo scritto per Le Petit Parisien, “Les forçats de la route”, fece epoca e confermò il talento di Londres, l’uomo che viaggiò per il mondo raccontandone trame segrete e soprusi: un destino tragico accomunò il giornalista con i due eroi di quelle Grande Boucle, Pelissier e Ottavio Bottecchia, ovvero la morte prematura e misteriosa.

Nel 1932 al rientro dalla Cina, sulla Georges-Philipar, morì nell’incendio della nave: mai nessuno lesse la sua ultima inchiesta, che avrebbe potuto rivelare novità clamorose sui traffici di oppio in quella zona.

L’anno prima di “Le Tour de souffrance”, Henri Pelissier concluse la sue collezione con il gioiello mancante: la maglia gialla finale.

A supportarlo nell’Automoto con Francis anche un italiano dalle grandi doti: Ottavio Bottecchia, un friulano che pedalava per allontanare la miseria nera, divenne la sorpresa di quella edizione.

Rimase in testa alla classifica generale fino alla decima tappa, vestendo (primo tricolore a compiere l’impresa) “le maillot jaune”: nella Gap-Briancon, sull’Izoard, Plume si involò e chiuse i conti con quel gregario minaccioso (..) e soprattutto con la storia.

Fu l’epilogo sentimentale che lo confermò come il più grande talento di quell’evo ciclistico.

Purtroppo, non avendo altro orizzonte che quello della strada polverosa vista dal sellino, continuò a correre per tanti, troppi, anni.

Patetico nell’abusare del proprio mito, rimandando ad libitum il confronto con la vita di tutti i giorni.

Quando ciò avvenne si materializzarono tutti gli spettri, le ombre, del suo carattere: malgrado la ricchezza ottenuta pedalando, diede sempre l’impressione di un’infelicità cosmica.

Nella villa in stile normanno a Fourcherolles, nei pressi di Parigi, affrontò senza successo i suoi mostri personali.

Qualche tempo dopo il suicidio della prima moglie, Léonie, Pelissier si legò con una donna, Camille Tharault, di vent’anni più giovane.

La condotta tutt’altro che irreprensibile dell’ex campione portò Miete, questo il nomignolo dell’amante di Ficille, all’esasperazione: durante un alterco, Henri la ferì con un coltello.

Rifugiatasi in camera da letto, Camille prese da un cassetto la pistola con la quale Léonie compì l’atto tragico.

Ancora sanguinante in volto, quando Pelissier l’attese in cucina minacciandola con la lama, premette il grilletto.

Cinque colpi di arma da fuoco, il primo maggio 1935, uccisero quello che Léo Breton (allora presidente della Federazione francese) definì il più grande corridore di tutti i tempi.

Il mosaico funereo si completò con la camera ardente di Henri, allestita nello stesso vano dove, tre anni prima, la moglie si suicidò.

Il dì dopo Paris-Soir titolò:

“LA TRAGICA FINE DI HENRI PELISSIER non sorprende nessuno a Dampierre/ ‘Se avessi avuto dei soldi l’avrei lasciato tempo fa’ ha detto ieri l’assassina”.

Il 26 maggio 1936, al processo, dopo che Camille dichiarò che il suo gesto fu di autodifesa, la giuria la condannò a solo un anno di condizionale e di fatto la assolse.

La vicenda del primogenito dei Pelissier ebbe così il finale più eccessivo e teatrale: in perfetto stile con l’essenza brutalmente poetica della vita che condusse.

Non ci sarà mai più nessuno, nella storia dello sport, come Henri Pelissier: un unicum, un sole nero che abbaglia gli occhi di chi lo guarda.

Pubblicato da Possibilia nel febbraio e marzo 2010