UNA MINERVA DEL TENNIS DI NOME MARTINA

La notizia in sé, considerando il personaggio, non sta nel ritorno di Martina Hingis in Fed Cup – nello spareggio di Zielona Gora (Polonia), il 18 e 19 Aprile – ma nella retroazione del gesto.

L’ex numero uno, all’ennesima ripartenza di una carriera sportiva indistinguibile dalle trame (complicate) della sua vita, torna alla Davis rosa diciassette anni dopo la finale, sfortunata, contro la Spagna.

Diventerà l’elvetica meno giovane (..) di sempre a giocare nella manifestazione, superando Patty Schnyder (ovvero la compagna di doppio di quell’ultima volta…), lei che esordì addirittura nel 1995.

Martina, due decenni orsono con la Lettonia, aveva appena quattordici anni e 199 giorni.

La figlia di Melanie Molitor, che fin dal nome di battesimo le impose l’ossessione verso il tennis, ha stabilito primati di precocità oggi nemmeno immaginabili.

A dodici anni vinse il primo Slam junior, a Parigi (un luogo, un fato); tre anni dopo (1996), in coppia con Helena Sukova, divenne la più giovane di sempre nell’era Open a fregiarsi di un titolo a Wimbledon. 

Amarcord, fu proprio osservandola lungo tutto il 1996, una bambina, nella sua evoluzione agonistica, che capimmo la genialità di Minerva, una predestinata.

Perse al Madison Square Garden, con Steffi Graf, la finalissima del vecchio Master che le dame disputavano al meglio dei cinque set, ma quella notte – esibendo un Quoziente Intellettivo e istinti della Campionissima – comprendemmo che la successione al trono era prossima.

Rullando Monica Seles (6/2 6/1) in quel di Key Biscayne, il 31 Marzo 1997, raggiunse la cima dell’Everest WTA. 

A sedici anni, sei mesi e un giorno: un record imbattibile.

Palla corta con l’effetto giusto, la Hingis ne è maestra: battere il tempo – con lo scorrere inesorabile dello stesso – è un’illusione troppo impegnativa da sostenere.

Crono, che figliava per mangiarsi i pargoli, non ha mai avuto pietà dei fanciulli (e delle fanciulle) prodigio.

Il 1997, la sua annata magica, conteneva i prodromi del declino prematuro.

Smarrì un clamoroso Grande Slam, al Roland Garros, cadendo da cavallo – Maureen Connolly moderna – alla vigilia dei tornei sul rosso.

L’incapacità di accettare la sconfitta, già nel corso di una stagione straordinaria (dodici titoli vinti, tre major), sarebbe diventata psicosomatica.

Eppure è stata la migliore del drappello, la regina, durante il passaggio (epocale) tra la generazione Graf, Seles, Arantxa Sanchez, Conchita Martinez, Mary Pierce e la nuova onda delle sorelle Williams, Lindsay Davenport, Amélie Mauresmo, Jennifer Capriati, delle russe, delle belghe.

Per qualità e quantità, l’età dell’oro del tennis femminile.

La manina “cecoslovacca”, una caratteristica che la affianca ad altre superdotate, in primis Martina Navratilova e Hana Mandlikova, procede (va) parallela con una visione tattica da scacchista.

Superba per il senso del timing e delle variazioni nei colpi, un architetto con la racchetta in mano.

L’ultima campionessa (o la penultima, considerando Justine Henin) a essere stata prima tennista e poi atleta.

Il 1999, per leggere questa trasformazione e il destino di Martina, rappresentò il momento chiave: perse due Slam sul filo, il primo dolorosissimo, dalle sue nemesi storiche.

Quella del passato, Crudelia De Mon Graf, a Parigi (ancora…), al termine di un teatrino spossante di smorfie e dispetti, con tanto di crisi nervosa della perdente.

L’anno dell’ultimissimo trionfo Slam in singolare, in Australia, si chiuse con una sconfitta (a sorpresa) da Serena Williams allo US Open: il futuro era già cominciato.

L’Hingis prima maniera finì, all’improvviso ma non troppo, a nemmeno ventidue anni.

Nel torneo dei suoi trionfi più belli, l’Aussie Open, opposta alla miracolata Capriati.

Fino al 4-0 del secondo set di quella finale, nel 2002, sfiorò la perfezione: la capacità di giocare in ogni settore del campo, alterando i ritmi della partita a piacimento.

Poi i quaranta gradi all’ombra e il cemento (bollente), figli della programmazione schiava delle indulgenze televisive, modificarono le sorti dell’incontro.

Quel giorno, dopo i quattro matchpoint falliti, Martina morì sportivamente, in preda a un colpo di calore e con la caviglia sinistra dolorante.

Lo stesso piedino che la costrinse al (primo) ritiro dal tennis attivo, dopo un’operazione ai legamenti.

Sarebbero seguite le montagne russe della sua esistenza, le lune di una milionaria giovanissima e annoiata.

Nel conto, la celebrità irrequieta, la fama di mangiauomini, la passione per il dressage, una positività alla cocaina e i ritorni di fiamma.

Nel 2015, a Melbourne, si è imposta nel doppio misto col buon Leander Paes.

Ancor più sorprendente il coast to coast Indian Wells-Miami in tandem con Sania Mirza.

A rivederla, malgrado evolva in una specialità agonizzante, incanta: il tocco è meraviglioso, il resto è ancora nei geni.

Sul cemento polacco farà squadra con Timea Bacsinszky (una storia incredibile…), Stefanie Voegele, Viktorija Golubic; peccato manchi la presunta erede, cioè Belinda Bencic.

Il sogno degli appassionati, considerando i propositi olimpici della rossocrociata di Kosice, è di trovarla in tabellone a Rio 2016, nel misto, assieme a Roger Federer.

Hingis avrebbe l’onore e l’onere di affiancarsi al Mago Merlino, uno dei pochi eletti con un dna tennistico, purissimo, del suo livello. 

Pubblicato il 18 aprile 2015 da Il Giornale Del Popolo