A BERLINO TUTTO MALE

Sarebbe più semplice buttarla in caciara: sesso, sangue e suicidio.
Ne verrebbe fuori il lancio pubblicitario di un programma qualsiasi (rete o tivù, pari sono).
La verità, come un fiume carsico, è che “Berlin” – uscito più di mezzo secolo fa – è stato il buco nero della cultura rock (bianca..) al suo apogeo.
Un’opera con un campo gravitazionale così potente da attrarre – assorbire e distruggere – ogni cosa.
Non emettendo luce, quell’oggetto buio, diventa un test di Rorschach della musica popolare.
Quattro cose su “Berlin” di Lou Reed, dove a volte un giudizio è una confessione: Will Hermes e Laurie Anderson, in questa storia, non esistono.

Fu il boom bowiano (ronsoniano) di “Transformer”, lipstick rock di gran classe e almeno quattro canzoni immortali, a permettere il progetto.
Ambizioso, faraonico, bislacco, sadico.
Lou Reed senza limitazioni.
Un film per le orecchie sulle sue ossessioni, una favola nero pece.
La lampadina di Lou si accese quando ascoltò la cover dei Detroit della sua “Rock & Roll”, prodotta da Bob Ezrin.
Una versione spaccaossa, colorata dalla chitarra esagerata di Steve Hunter.
Voleva quel mago della control room e dell’arrangiamento, ragazzo prodigio (Bob aveva 24 anni..), e quel chitarrista.

Bignamino (più o meno utile).
Cinque canzoni arrivano dal passato prossimo, dai Velvet Underground, la title-track dall’esordio solista di un anno e mezzo prima.
Vengono modificate, a uso e consumo di Reed ed Ezrin.
Come disse più di una volta, “Berlin” gli stava nella testolina (calda) da un po’.
Non l’avesse tirato fuori, sarebbe scoppiato.
C’erano i soldi, la fama, l’eroina, una relazione normale (con Bettye Kronstad, fotografata da “Perfect day”): era il momento giusto.

Ezrin incontrò Reed a Toronto, a casa di Bob, e gli chiese di partire da quella suggestione sospesa, che compariva sull’album di debutto di Lou, “Berlin”.
Quando, un mese dopo, Reed gli suonò “Caroline says” e “The kids”, Ezrin (entusiasta) iniziò a pensare in grande.
“Candlelight and Dubonnet on ice.”
Una delle virtù di “Berlin” sta nell’aver applicato – fino alle estreme conseguenze – gli stilemi basici del rock con la tradizione (si fa per dire..) della musica colta.
Uno scontro, giocato su una contraddizione apparente: far suonare a dei manici (..) canzoni da tre o quattro accordi.
Sopra, alla superficie, è complesso (dicono barocco per sminuirlo, rivelando così una cultura da trogloditi).
Sotto, è all’osso.
Quei mostri esecutivi danno un’altra dimensione (la aggiungono) alle composizioni: gli arrangiamenti di Ezrin si appoggiano su quel contrasto.
Che è la chiave dell’album: mette insieme cose che non venivano messe insieme.
E’ un altro motivo per il quale, all’epoca, venne stroncato: il rock suona come musica eterna, finalmente.
Quel disco ammazza l’infantilismo del rock.

1

Della title-track, rispetto alla prima versione, vennero evirate le sequenze più pop.
La voce di Lou e il piano (dinamicissimo) di Allan Macmillan, così facendo, risultano cupi, tetri.
In “Berlin”, l’apparato sonoro rappresenta sempre la trama della vicenda, almeno quanto il testo.
Il pianoforte riproduce i miasmi dei caffé come ambiente.
Non c’è (mai) distacco tra l’orchestrazione e il racconto: arrivano nello stesso attimo.
Reed, impassibile, glaciale, fa teatro vocale.
Caroline è un mosaico di donne.
E’ alta 1 e 80, tedesca, tossica, scopa con tutti, come Nico.
Prende botte da orbi come la moglie Bettye, che (a 5 anni) venne tolta alla madre.

2

“Lady day” è un manifesto dell’estetica voluta dal duo Reed-Ezrin.
Il titolo chiama Billie Holiday, l’incedere minaccioso sembra “Pirate Jenny”, Kurt Weill e Bertold Brecht sotto anfetamine.
L’orchestra, il colore musicale caricatissimo, pare suonare a un plotone d’esecuzione.
Il richiamo a quella città, ricorda l’eterna fascinazione degli intellettuali americani verso il cuore dell’Europa.
Berlino, che nel 1973 era ancora divisa in due, spezzata, significava soprattutto Weimar, un’esplosione di arte, utopie, vita e morte, un quarto d’ora prima della tragedia degli anni ’30 e ’40.
Le svastiche, la notte dei cristalli, gli spettri, la follia di massa.

Tranne che su “The kids”, dove suona Tony Levin, il basso di “Berlin” – elegante, maestoso – è di Jack Bruce.
Che amava quell’idea, l’approccio cinematico ai testi di Reed, e arrivava da “Song for a tailor” ed “Escalator over the hills”: era in uno stato di grazia.
Il cast, stellare.
Dick Wagner, braccio destro di Alice Cooper, si unì a Steve Hunter alle chitarre gemelle.
BJ Wilson e soprattutto Aynsley Dunbar alla batteria.
C’erano tastiere dappertutto: l’organo e l’harmonium di Steve Winwood, al pianoforte Blue Weaver, Allan Macmillan ed Ezrin stesso, il mellotron lo suonarono i fiati (..), Michael e Randy Brecker.

3

“Men of good fortune, often cause empires to fall / While men of poor beginnings, often can’t do anything at all /
The rich son waits for his father to die / The poor just drink and cry / And me i just don’t care at all..”

In cinque righe, alla giugulare, la storia dell’uomo sul pianeta terra.
“Men of good fortune” ha la natura melodica (bipolare) di un valzer incastrato in un’orchestrazione rock, possente.
Le linee di Bruce, ragnatele di basso, sinuose, rispondono alla melanconia di Reed che, nell’epilogo segnato dagli stacchi, sempre più poderosi, alza il tono (ringhia).
La band picchia, sinfonica, quando degli staccato irrompono sul panorama liquido, sospeso, del canto ipnotico.
Si bemolle, Re minore, Fa e Sol minore: una botta.

4

“Caroline says I” è un giro su una giostra di invenzioni musicali, che rinnovano il pezzo a ogni passaggio.
Lou, Bob e il gruppo stratificano il suono.
“Caroline says I” è la lettera d’amore di un perdente nel technicolor di una sala cinematografica o di un massiccio Telefunken col PALcolor.
La base ritmica, implacabile, rimbalza tra un’apertura d’archi e uno stacco anni Sessanta.
Tutto si gonfia, sovraccarica il racconto, con la band che mena, fino alla chiusura con un motivetto quasi di musica da camera.

Ogni canzone è una ripresa, sempre da un’angolatura differente, della vita della coppia.
Reed non è un menestrello, è già Werner Rainer Fassbinder con una chitarra a tracolla.
L’arte ridotta a messaggio edificante, consolatorio, qui non esiste.

5

Nella seconda metà degli anni ’70, le indagini di Rocco Chinnici (Emanuele Basile, Boris Giuliano) rintracciarono i passaggi privilegiati, verso gli States, del mercato europeo della droga.
Le tratte principali, dalla Sicilia e Marsiglia all’Atlantico, divennero scomode.
Allora la mafia siciliana si mise a vendere l’eroina a casa, per le strade, a getto continuo, generando una montagna di denaro in contanti.
Da Palermo a Berlino, un mare di eroina e di eroinomani sui diciotto, vent’anni.
Ti vendevano i dischi di Lou Reed e David Bowie, le uniche entità che rappresentavano qualcosa (di forte) per loro, prima degli ultimissimi rimedi: il furto e la prostituzione.
Nantas Salvalaggio, poveretto, col figlio tossicodipendente, andava in televisione a maledire Lou Reed.
Lùrid era l’anticristo.

“How do you think it feels” è una specie di singolo.
Una missione impossibile in un album strutturato così.
La versione 45 giri differisce nell’intro.
Piacione, rock di facili costumi, un discreto casino e il numero meno riuscito dell’opera.
Funziona però come ponte, per condurre – col barcone – ad Acheronte.

6

La canzone del tradimento e del tradito.
Cinema per i padiglioni auricolari, la corteccia prefrontale, poi il cuore e il fegato.
Se togli quegli arrangiamenti, diventerebbe cantautorato rock, che nel 1973 era già una posa.
Non arriverebbe così, brutale.
“Oh Jim” sono anche i Suicide prima dei Suicide.
L’incedere minaccioso, meccanico, della batteria di Dunbar è bodhran (irlandese), l’orchestra accompagna Lou con un R&B nevrotico, marcio, performato nel ghiaccio.
Nella coda, Reed canta come un Elvis in decomposizione.
Ci viene in mente “Guernica”: non è bello, è assoluto e necessario.

Dodici giorni in studio di registrazione, a Londra, e uscirono tutti fuori di testa: “Berlin” assomiglia a una seduta terapeutica (?) di gruppo, adleriana.
Alla RCA, considerando che il mostro non proponeva un brano radiofonico, cassarono l’idea (originale) del disco doppio.
Ezrin si impegnò in un gigantesco taglia e cuci di alcune parti (strumentali) di raccordo.
L’unica testimonianza di quelle sezioni, eliminate, è la chiusura (alla Nino Rota) di “Berlin” che comparve sulla versione stereo8.

7

La cesoia tra il primo e il secondo lato, con l’elemento ritmico che si dirada, è un altro trucco filmico.
“Caroline says II” pattina lenta, dolorosa, mirando l’abisso dei due attori: lui picchia Alaska, la moglie puttanella.
Le riprese vocali di Ezrin, della voce fantasmagorica di Lou Reed, sono di una bellezza straniante.

Quando comprammo il vinile, targato RCA International, a prezzo economico, sulle prime battute di “Caroline says II” c’era un capperino.
Che produceva tre piccoli clic.
Ricomprato in cd, decenni dopo, rimanemmo sorpresi di non ascoltarli più: per noi, quei rumori facevano parte di “Berlin”.

Parole sporche, parole pulite.
Oggi si inventano vocaboli cacofonici, per non indicare la realtà.
Non fissarla dritta negli occhi.
Il luogo più violento della vita è la famiglia, mica la strada.
In “Berlin” si ama, si odia, ci si droga, si beve, si fanno figli, si tradisce, ci si picchia: accade tutto in famiglia.

8

Ballata caracollante, beffarda, “The kids” è l’ennesimo montante (alla pancia) emotivo.
A Caroline, madre snaturata, portano via i figli.
Reed canta, parla, strascica, con un suono così in faccia, da sembrare l’occhio del ciclone: lui immobile, tutto intorno girano i musici.
In questo caso, solo per questo numero, con le chitarre abbassate di un tono che paiono ubriache, BJ Wheeler e Tony Levin imbastiscono una tela ritmica iperdelica.
Ezrin con un portatile registrò i suoi figli, David e Joshua, e li fece piangere sul serio.
Quel cavolo di flauto, dissonante, si incastra nell’ippocampo e non se ne va più via.

E’ uno dei pezzi più scandalosi per la morale di allora (e di oggi): in sede di recensione, “Berlin” venne considerato un disastro, degradante e sconcio.
La critica rock, da eoni, balla l’architettura.

9

“Dammi una lametta che mi taglio le vene.”

La storia finisce qui, male, e il protagonista – un reietto – non pare nemmeno scontento.
Inizia alla “Golden hair” (Syd Barrett) e trasporta l’ascoltatore in “Lux Aeterna” (Gyorgy Ligeti): il lavoro di Gene Martynec sul tappeto di voci e sintetizzatori è da applausi.
Una ballata di Leonard Cohen immersa nei fanghi di un’enorme pozza di petrolio o David Ackles, indifferente al misticismo, imbottito di metadone.

“The bed” è un ascensore con le luci fuse, che scende e non si ferma più.
Melodia delicatissima, sussurrata da Lou, mentre un fascio di suoni trattati lo scortano.
Un’esperienza uditiva, stereofonica, spettrale.
Prendere la brutalità e trasformarla in magia.

Finito “Berlin”, coltivata ancora meglio la sua frustrazione verso il mondo del rock, Reed se ne andrà in tour (sfatto) con una band di luccicante hard and heavy, con le chitarre gemelle Wagner e Hunter a rileggere, stravolgere, riconvertire in riff music, i classici suoi e dei Velvet.
Spazzatura heavy metal per alcuni, i soliti, meraviglia sonica, pulsante, poesia urlata e suonata per noi.
Ezrin, terminato il disco, in flirt con l’eroina, andò a far visita a un istituto psichiatrico.
Bettye Kronstad – sconvolta dalla devastazione mentale di quei brani (che raccontavano pure lei e Lou) – chiese il divorzio.

10

L’antieroe vaga per la casa, ancora satura dello spirito della consorte, e imbellisce il passato: il vincitore racconta sempre le sue bugie.
“Sad song” prolunga il climax di “The kids” e “The bed” potenziando l’effetto sinfonico, il melodramma.
I voli pindarici di Hunter collegano l’inizio, l’arpeggio, la viola, il canto (dimesso, algido) e l’incedere poderoso della band, al coro.
Sono i migliori titoli di coda che questo cabaret macabro, conturbante, potesse avere.
Come passaggi armonici, effetti, ci fa capire che Ezrin ascoltò “Emotions”, la perla che chiudeva “Entertainment” dei Family.

“I’m gonna stop wastin’ my time” è la riga più bella che abbiamo letto in una canzone.
“Berlin” produrrà, e produce tuttora, spore a volte simili a miraggi per i maledettisti che proveranno a imitarlo.
Poveri loro (e noi).
Ezrin si porterà dietro con alterne fortune, come una coperta di Linus, quello sfarzo strutturale e produttivo (“Welcome to my nightmare”, The wall”, “The elder”).
Nel 2003, Rolling Stone mise “Berlin” al numero 344 dei 500 (sigh) più grandi album di sempre: vaffanculo Rolling Stone.
Lou Reed, quando ascoltiamo “Berlin” o “Magic and loss”, è ancora vivissimo.
Quel corpo di opere, di canzoni, rinnovano l’immaginazione di chi le fruisce.
Forse il senso sta tutto in una frase di Robert Schumann.

“Mi piace non mi piace, dice la gente.
Come se al mondo non ci fosse niente di più importante da fare che piacere alla gente.”