Taccuino in saldo di questo (scivoloso) 2023, a un passo dall’apertura (tra down under e Hong Kong) del 2024 tennistico.
Un viaggio al termine della notte, per citare quel bastardo di Detouches: ma qui, Italy, siamo dalle parti di Biagio Cepollaro.
La Notte Dei Botti, dunque.
1
La stagione 2023 di Novak Djokovic, il finale soprattutto, contende la palma di miglior anno dominante (nel tennis post moderno) al Roger Federer 2017, quei primi sette mesi alla Mago Merlino, categoria vecchi fuoriclasse.
Una specialità oliata (sigh) dall’omologazione del gioco e dai miglioramenti (scientifici e farmaceutici) nel prevenire l’usura fisica degli sportivi professionisti.
LeBron James e Tom Brady docet.
Il sesto gioco del secondo set contro Carlos Alcaraz – quel sabato sera sabaudo – ci rimanda allo spaventoso terzo parziale di uno scontro, un’altra semifinale, del serbo contro Rafa Nadal.
Quella volta coniammo un titolo programmatico sul robotennis: a vulgar display of cyborg tennis.
Ma eravamo a Madrid, era il 2009, e Carlito aveva appena compiuto 6 anni: Nole ha trovato un modo per manomettere la clessidra del tempo?
2
Robonole parte tutto dai due colpi d’inizio.
Servizio, vario (qui Goran Ivanisevic ha influito tanto), seconda di livello.
Risposta regale, preferibilmente carica (in anticipo) sulle mattonelle (i piedi) del battitore: lì comincia a spostare l’inerzia dello scambio.
Il resto è tennis orizzontale, diritti lavorati, il rovescio (colpo naturale e rivelatore del suo stato di forma tennistico) di una profondità e precisione cartesiane.
In tasca, come dadi da tirare al momento giusto, un’esperienza e una forza mentale (tattica) in continuo divenire.
3
Domanda da un milione di euro.
Cosa succederebbe se il Nole de luxe del 2023 affrontasse quello (dominante) del 2011?
Due su tre, mescolerebbe le carte e se la giocherebbe.
Tre su cinque, nelle condizioni di oggi, verrebbe disossato dal suo omonimo (..) ventiquatrenne.
Nessuna possibilità di competere, less than zero.
Quel Djokovic poteva innestare la marcia più alta per ore, quello del ’23 deve gestirsi.
Sa che c’è una finestra temporale: se Daniil Medvedev avesse vinto il secondo set della finale US Open, e arrivò a un passante (banale) dal farlo, Nole avrebbe rischiato – sulla lunga distanza – di schiantarsi.
E’ ormai un gioco di performance, quindi tendente allo sport di prestazione, e la benza conta più del braccio.
4
Quel 13-2 per concludere il Sinner-Djokovic della Kosmos Cup (..) segnala (va) qualcosa.
La spia rossa del serbatoio e della centralina, del serbo.
Che tornerà, ancor più incattivito del solito, ma tutti e due i match di Coppa Davis lo testimoniano, con alcuni dubbi sulla tenuta psicofisica.
In Australia Novak potrebbe avere i soliti tabelloni da 500, la prima settimana, e il calendario ricamato su misura (Craig Tiley è un amico..), ma due incontri di fila, non contro i vassalli, il Nole intravisto tra Torino e Malaga non se li può (più) permettere.
5
Rinnoviamo la previsione fatta in pieno lockdown: 2024, US Open.
Il prossimo anno dovrebbe essere quello da slammer di Jannik Sinner.
I miglioramenti al servizio, prima e seconda, si aggiungono alla pesantezza di palla dei colpi a rimbalzo del bolzanino.
La testa è (sempre) quella giusta, le chiusure al volo (schiaffi e tocchi volleatori) non ancora, particolarmente di diritto: i 17 errori non forzati della finale torinese, rivelano il suo limite tecnico.
Ma è, tranne Carlos Alcaraz, in ottima compagnia (generazionale).
Non sappiamo se la continuità basterà a Sinner per l’estate di Melbourne, che è dietro l’angolo, il cemento americano ci pare più adatto per il colpaccio.
Toccando ferro.
Niente legno (knock on wood), mancando il personale adatto.
6
Il modello nel gesto, per impatto dei colpi, del longilineo Jannik Sinner è il brevilineo Tomas Berdych.
Ma quelle bastonate di rovescio in diagonale e diritto lungolinea sono (puro) Marat Safin.
L’altoatesino, da dietro, di pressione continua con una palla pesantissima e anticipata, è Safin con un’altra testa.
Era il 2002 quando il russo perse – da strafavorito – contro (l’ottimo) Thomas Johansson la finale a Melbourne.
La leggenda (ma non solo quella) racconta che Marat, la sera prima, o la mattina stessa, si fosse divertito (molto).
Le safinette che sfilavano – scollacciate – nel suo box ci illustravano la differenza tra quel tennis e questo: quelli di oggi sono noiosi.
Anche sul campo.
7
La Sinnermania dovrà essere gestita, addirittura più attentamente della risposta alla battuta.
Il ragazzo colma il vuoto di campioni negli sport nazionali, calcio e ciclismo, e lo fa senza la sindrome da Peter Pan che affliggeva molti, troppi, sportivi italiani di successo.
Il salto sul carro del vincitore è cominciato da mo’ e gli spazi si stanno restringendo.
Le scemenze lette e ascoltate, tra tivù, stampa e rete, sono una pira d’enfasi nazionalistica (per l’ennesimo sportivo con la residenza a Montecarlo) e ignoranza sul gioco.
Inutile pretendere dal pubblico generalista, che innaffia l’avvenimento con la materia prima (i dindi, tanti e subito), una cultura specifica se, in Italia, la cultura (non solo sportiva) è quasi assente.
La “Carmina Burana” (la Macarena del Novecento colto..) sparata dagli autoparlanti, la musica a palla del dj, i vip in prima fila, schermi luminosi ovunque, ecc.
Questo è oggi lo standard – cafone – dell’intrattenimento a tutti i costi, anche dove c’era la regola (non scritta) del silenzio.
A noi fanno più specie quelli dell’ambiente, che si tuffano come Greg Louganis, che la domenica pomeriggio della finalissima a Torino prevedevano una vittoria in due set (facile facile) dell’italiano.
Spacciare illusioni, gonfiare le aspettative, di riflesso, danneggia Sinner (lo zaino con i sassi che si porta dietro) e una comprensione minima del gioco.
8
A proposito: il caro vecchio Masters con lo spirito del tennis, quel girone all’italiana, ci azzecca il giusto.
Era il motivo per il quale Sinner avrebbe potuto (dovuto) perdere contro Holger Rune.
E’ nella storia del torneo (atipico): nel 1981, al Madison Square Garden di New York (nostalgia canaglia), Ivan Lendl perse apposta – nel round robin – contro Jimmy Connors (7/6 6/1).
Così evitò Bjorn Borg in semifinale.
Jimbo, un agonista tremendo quanto Djokovic, definì il ceco “un pollo”.
Borg avrebbe poi divelto (..) Lendl (6/4 6/2 6/2) e, nel post partita, alla domanda sulla differenza di intensità (sua) con la sconfitta (ininfluente) con Gene Mayer nel gironcino, rispose onestamente.
“Perché era la finale.”
Far fuori Nole era nell’oroscopo: poiché anche il serbo si comporta, come altri, forzando regole e tempi.
Fa un po’ Marchese del Grillo in salsa ATP: “Ma io so io, e voi non siete un cazzo.”
Il quarto d’ora – di sosta: bagno e MTO – preso nella semifinale di Bercy contro Andrej Rublev, per spezzare il flusso del match, l’ultimo esempio.
Il faffing c’est moi.
9
L’aspetto più (involontariamente) comico della Kosmos Cup, con la formula sprint, è l’importanza (nel punteggio finale) del doppio.
Una specialità – mediaticamente – moribonda.
Lo spettacolo, emozionante quanto osceno (tecnicamente) che ha deciso l’evento, il doppio della semi tra Italia e Serbia, rivela i buchi di sceneggiatura.
Quattro giocatori che non conoscono l’approccio e il timing a rete: uno di questi ha vinto sette Wimbledon.
Alcune volée, sbagliate, erano roba da circolo.
Tre che picchiavano come potevano, arretrando, e uno che tirava comodini (Sinner), con una velocità supersonica di palla.
Morale della favola: Mate Pavic dovrebbe insegnare l’arte volleatoria al 95 per cento della Top 100.
Altro che il dietologo e lo strizzacervelli.
Quando ci si inebria con le statistiche, taroccate, ricordiamo come giocavano alcuni big del passato – John McEnroe, Stefan Edberg.. – nel doppio.
10
La differenza storica è che quel tennis era figlio di tre (quattro) superfici.
Solo i campioni battevano gli specialisti.
Adesso i giocatori (migliori) sono intercambiabili e fanno – a cento all’ora – 3 o 4 movimenti standardizzati.
Poiché non c’è più tempo del pensiero: hanno ristretto (abolito?) i margini della creatività.
11
Il format della Kosmos Cup è fallimentare.
In una settimana, a Malaga si sono venduti 60753 biglietti.
L’assenza della Spagna pesava, ma non troppo: l’anno scorso erano 63351: pochi, comunque.
L’effetto cinema, con le luci basse sugli spalti, serviva anche a nascondere le sedie vestite da spettatore.
Tennis Magazine Italia ci informa che pure i gironi di settembre sono stati un flop economico.
95239 paganti tra Bologna, Manchester, Spalato e Valencia, quasi il 16 per cento meno dell’edizione passata (113268).
In soldoni, la gestione ITF di Dave Haggerty è dannosa per il tennis stesso.
Ripiegato sui quattro Slam e poco altro.
La Coppa Davis è morta.
12
Andrea Gaudenzi fa cose.
Nessuna discussione su superfici, materiali, regole, conflitti d’interessi, solo una ricerca (spasmodica) di soldi e media.
Nel 2025 abbiamo moltiplicato i 500, che passano da 13 a 16 (Doha in pole position), e continua a mancare un 1000 sull’erba.
In effetti, all’unico torneo sui vecchi prati, il 250 di Newport, luogo che ospita pure la Hall of Fame, è stata tolta la licenza.
Le voci raccontano di un nuovo 1000 a inizio stagione, ricchissimo (premi e ingaggi ai livelli di uno Slam), organizzato in Arabia Saudita subito dopo Capodanno.
Il tutto ridurrebbe a una settimana il pre Australian Open in Oceania.
13
A Malaga, per la Coppa Davis, un po’ di teatro kabuki.
Djokovic avrebbe dovuto essere testato, prima del match con Cameron Norrie.
Il serbo si è limitato a urinare, il campione di sangue (tre gocce da un polpastrello: 0,1 ml) lo ha fornito dopo l’incontro.
Nole in conferenza stampa ha poi tuonato contro la WADA, nel suo stile (arrogante).
Immaginate, scrive la Sueddeutsche Zeitung, Tadej Pogacar o Jonas Vingegaard nella stessa situazione: persino i tedeschi stanno capendo la solfa.
Cosa accade a tennis, calcio, rugby, basket..
Per i soli parziali statistici, nel Q3 del 2023 (ovvero il periodo con i tornei più importanti) l’ITIA (International Tennis Integrity Agency) ha commissionato 13 controlli ematici.
Una pantomima.
14
I dolori (relativi) del giovane fenomeno Carlos Alcaraz, da Flushing Meadows in poi, hanno oscurato le punte (di qualità) toccate dall’iberico nel ’23.
Che si accoppia così così con Sinner, ma è il vero antinole del circuito.
Quella combinazione di fisicità e braccio (d’oro) è solo sua.
La dispiegherà anche nel clou del 2024.
Non vanta i margini di miglioramento di Ben Shelton.
Che ci pare il caso classico (?) di “all or nothing”: superstar da top 3 o prossimo Denis Shapovalov.
Vediamo se gli americani, vedendo uno con quel potenziale (power tennis quasi samprasiano), comprendono che sarebbe ora di risistemare il (loro) cemento.
Qualche strato plastico in meno, palle più pesanti, ecc.
Con Holger Rune, il più cattivo (..) della cucciolata, balisticamente sottovalutato, potremmo avere una (specie di) Banda dei Quattro in testa all’ATP.
Più che altro perché la prospettiva potrebbe rendere meno plumbeo un incontro, magari una finalissima (con tanti ori in palio), tra Sasha Zverev e Medvedev.
Ore e ore di randellate – 3 metri dietro la riga di fondo.
15
Si erano concluse con una festa mesta, Iga Swiatek che ha polverizzato Jessica Pegula (6/1 6/0), le WTA Finals.
Lontane, Messico e nuvole, da tutto: pubblico, attenzione mediatica, senso della storia.
A Cancun (località mitizzata da Nick Van Exel..), l’ultima spiaggia del tennis donne.
Il Centrale era ancora in costruzione, a poche ore dall’inizio: venti atlete, il loro seguito, due campi d’allenamento (quelli dell’albergo) e un incordatore.
Una struttura smontabile, 4200 posti, roba da anni Settanta, sorta su un campo da golf e a un passo dal mare.
Condizioni da Fantozzi-Filini, incontri rinviati per pioggia, biglietti gratis per (due) bambini a ogni venduto agli adulti.
Il movimento professionistico femminile sportivo più avanzato, non meriterebbe questo horror vacui.
16
Come riporta Tennis Magazine Italia, Yuriy Polskiy, il vicepresidente della Federtennis kazaka, definisce drammatica la situazione economica della WTA.
Lo spettro del fallimento nel 2026-2027 sta accelerando la proposta della fusione con l’ATP.
Escludendo gli Slam, un universo parallelo dove vige la parità di emolumenti (che droga la percezione della WTA), il tennis rosa è vicino alla bancarotta.
Nel 2021, l’ATP ha fatturato quasi 177 milioni di dollari con un più di 25 di utile.
La WTA 87, con un passivo che sorpassa i 15.
Il marketing procteriano non basta più: urgono idee.
Ma se si svendono le Finals per 9 milioni di dollari, il costo della gita messicana, il prodotto diventa un hedge fund qualsiasi.
“Il mondo del tennis oggigiorno appare viziato.
In particolar modo il circuito femminile, dove il montepremi è conseguenza del circuito maschile.
Lo devono sostanzialmente ai loro colleghi dell’ATP.”
(Daniela Hantuchova)
17
Rimaniamo in tema.
Steve Simon non è più il boss della WTA.
Per una questione di denaro, tanto e subito, si usa così quando la realtà differisce dai proclami, è stato promosso (..) ad altro.
La WTA è senza CEO: non ci sembra il momento giusto.
18
Il ’24 segna il ritorno di Naomi Osaka.
Ovvero una delle due superstar (vendibili globalmente), l’altra è Coco Gauff, di questo evo.
Per la nipponica d’America che riappare, mamma con racchetta, Belinda Bencic (26 anni) si ferma per maternità.
Il suo rovescio bimane sinfonico, il lungolinea col goniometro, ricomparirà nel 2025.
19
Inutile fare tanti giri di parole: il ritorno del 2024, qualsiasi cosa accada, è quello di Rafa Nadal.
Il re del rosso, classe 1986 con un contachilometri esagerato, all’ultimissima recita, oggi occupa un curioso numero 666 del ranking.
Roba che piacerebbe ai Dimmu Borgir.
Carlos Moya, come si usa (da secoli) a Maiorca, ha già espresso i suoi dubbi sulla tenuta del Minotauro nei primissimi tornei.
Sappiamo che, se Nadal sarà almeno il 70 per cento del Rafa che fu, potrebbe giocare brutti scherzi già tra Aussie Open e Sunshine Double.
Nessuno parte favorito, contro il campeon, al Philippe Chatrier: Roland Garros e Paris 2024 sono gli obiettivi (non dichiarati).
Quello è il suo campo, il suo stadio: gli altri giocano fuori casa.
La mistica va rispettata.
20
Non facciamo (più) il tifo da eoni, da quando portavamo i pantaloncini e ci siamo resi conto che – approfondendo la materia – certo campionismo era il risultato di persone (e famiglie) sbagliate.
Nel 2024, Karolina Muchova e Sebastian Korda potrebbero realizzare il colpaccio.
O lo auguriamo a ciò che resta del tennis come gesto – non solo – estetico.
La scuola boema insegna il gioco latte e miele, proattivo: realizza un’idea (più difficile quanto estremamente elegante) meno monodica e brutale del robotennis.
Entrambi sono pronti tecnicamente, entrambi non sono vincenti nati: la percentuale di finali perse spiega lo scalino da percorrere.
Eppure nessuno verticalizza con più varietà del figlio di Petr, che era più matto e più campione, e nessuno impatta la palla con il timing e l’armonia della Rogerina morava.
La biodiversità degli ex gesti bianchi – ai massimi livelli – si preserva con loro due, aspettando altri panda con la mano santa.
21
Torben Ulrich è andato oltre, nel cosmo, galleggiando verso Orione.
95 anni, una vita pienissima, una testimonianza (bizzarra, estrema nella sua leggerezza) di quel tennis.
Non si tratta di amarcord e di rimpianti per i bei tempi, magari nemmeno vissuti, ma solo una constatazione dello stato dell’arte.
Si poteva arrivare alla semifinale di doppio a Wimbledon, giocare più di 100 partite in Coppa Davis, vivendo (anche) altro: suonare (il clarinetto) e scrivere di jazz, interessarsi di arte contemporanea, politica e buddismo.
Non parevano milionari reclusi perché non potevano esserlo: avevano più tempo per – vedere (sul serio) – il mondo.
Postilla (scontata?).
Quei Metallica furono una storia – incredibile – di universi lontanissimi che convergono.
Un tennista hippie, fanatico di musica, danese, che cresce un figlio come lui. Creativo.
Che incontra uno scappato da casa, californiano, figlio di una famiglia devota di christian science.