LA FIGURINA DI PANTANI

Nel mettere assieme, con fatica, un pensiero sul decennale della morte di Marco Pantani ci sovviene la vignetta di un genio maudit del fumetto italiano.
Quei pochi disegni di Andrea Pazienza, sul caso Guttuso e l’eredità, leggevano lo scarto – impercettibile ma decisivo – tra verosimile e realtà: “Tutte queste mosche sul cadavere, dai mosconi più grandi e chiassosi ai moschini piccini.. Cioè io. Ecco che aspetto il mio turno per vendermi quello che so..”
Dieci anni fa, la sera di San Valentino, Pantani finiva di andarsene, consumato dalla cocaina, dalla paranoia e dalla solitudine.
Uniamo i ricordi esaltanti e tremendi del Pirata a una persona a noi cara, un amico, che gestiva un negozio di dischi nel Ponente Ligure: che un giorno, entusiasta delle imprese del romagnolo, fondò uno dei primi fan club dedicati allo scalatore di Cesenatico.
Si andava alle corse assieme e conosceva bene le nostre perplessità verso il personaggio.


Nel Dicembre 2003, due mesi prima di quella serata tragica, come ogni anno per il suo compleanno, gli spedimmo una vhs ciclistica.
C’erano pure gli ultimi scampoli vittoriosi nella carriera del Panta.
Rivedendo Courchevel, al Tour 2000, rimanemmo sgomenti nell’assistere al sorpasso del Pirata, a pochi chilometri dalla fine, a José Maria Jiménez: il Chava era appena morto, di depressione e di droga.
Allora firmammo la cassetta con un presagio: “Non si uccidono così anche i cavalli?”
Marco Pantani, in salita, era esaltante.
Ne abbiamo visti pochi con quel dono, di sicuro nessuno è riuscito a entrare nell’immaginario collettivo quanto lui.
Forse perchè comunicava altro, vendeva una cazzimma vincente e vitellona che sarebbe stata rinnovata, in Italia, con altrettanta efficacia, da Valentino Rossi.
Al di là della sociologia da quattro soldi sugli italiani, in bicicletta fu l’unico erede di Charly Gaul.
Nel bene e nel male, col mefistofelico grimpeur di Pfaffenthal condivise luci e ombre, compresa l’incapacità – propria di quasi tutti gli scalatori doc – di non farsi amare molto dal gruppo.
Amarcord, per rievocarne le gesta, potremmo raccontarvi come Marco (biondino..) vinse il Giro dilettanti (1992), ma il punto è ormai un altro.


Pantani si è trasformato, vent’anni dopo il numero della Merano-Aprica, in una figurina votiva.
Sarà che la fiction funziona benissimo anche nello sport: avete presente “Open”, la straordinaria novella di J.R. Moehringer?
Pensate che quel libro racconti veramente Andre Agassi?
Pseudorealtà romanzata, arricchita da un’epica costruita a tavolino.
L’originalità, nel vero senso della parola, offende; l’artifizio affascina, conquista e offre dividendi interessanti.
Abbiamo vissuto, totalmente incoscienti, l’apice popolare del ciclismo post Coppi Bartali e Koblet, ovvero L’Alpe d’Huez 1997.
Quell’entusiasmo, una folla replicata numericamente solo alla Grande Boucle 2013 (finalmente..), ci parve un sorpasso all’insopportabile calcio, un atto di giustizia divina.
La vertigine di Epolandia, che era allo zenit del suo sistema totalizzante, ci sfiorava appena.
Perchè l’affaire Festina (1998) e Madonna di Campiglio (1999) erano là all’orizzonte, visibili, e fingevamo di credere che il giochino avrebbe fagocitato e nascosto ogni cosa, pure il buon senso e la salute degli atleti.


Quel dì, aspettando Pantani, Ullrich e Virenque, approfondimmo la conoscenza con la posse di Cesenatico.
Un tizio, il miglior amico del nostro, ci sembrò veramente improbabile al seguito di una corsa ciclistica: difatti, assorbita la sbornia, tornammo a rifletterci su con lo spacciatore di vinili (sigh).

Che, malgrado la gioia del momento, a precisa domanda, rispose così: “Siamo nel guano fino al collo..”
Ecco dunque una visione meno banale di quel che sarebbe successo.
Si scordano i prodromi di quel maledetto 5 Giugno 1999: Pr******to, Lugano, l’eyeliner, gli ultras.
Un seguito cialtrone che potremmo rappresentare con l’attesa di due ore, in una hall d’albergo, nemmeno fosse in visita al Papa, dell’ultimo campione tricolore che vinse il Tour prima di lui.

Così, tanto per far capire l’aria che tirava..
La verità, una volta tanto, era banale.


Oggi invece – i cantori del giorno dopo – parlano e scrivono a vanvera.
Quintali di libri, di rievocazioni, pièce teatrali (?), serie televisive dall’estetica raccapricciante.
La proiezione di Pantani, non Pantani stesso, alimenta un fotoromanzo ambiguo, che continua a far pagare la cauzione al buon ciclismo, nell’unico paese europeo privo di (grandi) campioni reo confessi di doping.
E rimanda all’infinito la possibilità di scrivere punto e a capo.
Si può morire solissimi, in una pensione, oppure diventare membri del CIO, albergando all’Hilton extralusso, pur avendo fatto le stesse cose.
Dovremmo spiegare, a un bimbo che sale per la prima volta su una bici da corsa, quanto sia meraviglioso e crudele il mestiere del ciclista.
Il più bello di tutti.
E pretendere che non accada più, per lui, che una (de) generazione impazzisca e muoia: Pantani, Jimenéz, Vandenbroucke, Fois.
Oggi stiamo tornando ad aver pietà degli sconfitti, vivaddio.
E, dopo lo tsunami, si sta scavando un vero e proprio baratro tra gli appassionati e il pubblico generalista: quest’ultimo, che fa guadagnare tanti dindi ai procteriani, è una versione ancora più scema della mitica folla manzoniana.
Questi dieci anni sono fuggiti via, come macchine impazzite.
Serafino, l’amico pantaniano, è morto il primo giorno d’estate del 2013.
Quando ripensiamo alla vicenda, e alla “torrida tristezza”, citiamo le parole (perfette) scritte da Alessandro Bergonzoni una settimana dopo il fattaccio.
“Nessuno è mai riuscito a raccontare alle passate generazioni che non c’è vittoria o campione se prima non c’è una testa uno spirito un’intelligenza, che non si può separare il successo, da quello che è la vita prima e dopo il successo? … Per essere superiori non basta essere stati tristi inferiori, poveri o anonimi, altrimenti vincere vuol dire solo “vendicarsi” della gavetta, così come si vendica certa stampa il pubblico e la tv appena arranchi un pò..”

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 14 Febbraio 2014

Non abbiamo cambiato una virgola a questo articolo di 10 anni fa. E’ sulla cultura sportiva, non un fotoromanzo Lancio. Non fa prigionieri perché non fa la guerra. Il ciclismo oggi è bellissimo: sta vivendo la sua fase migliore dagli anni ’70. In Italia è ridotto a riserva indiana, discarica di ricordi che sono amnesie. Essendo il nostro baseball, il ciclismo, anticipa sempre i tempi: quindi preconizza la fine dello sport popolare in Italia. Un (povero) paese balcanizzato nella sua cultura pop.