QUATTRO COSE CHE SAPPIAMO DI MICHAEL JORDAN E DI QUEI BULLS. E DEL JORDANESIMO

“Al primo piano c’è un negozio che tratta articoli religiosi. Sopra questo un negozio di armi; in cima, un’azienda pubblicitaria che opera nel settore detersivi. Se la storia dell’Occidente fosse un edificio a 3 piani al centro di Manhattan negli anni Venti, assomiglierebbe a questo piccolo esemplare architettonico.”

(Ishmael Reed)

Quando la narrazione sportiva incrocia Michael Jeffrey Jordan e il Jordanesimo, un fenomeno pop di marketing industriale (generato da uno degli atleti più belli e vincenti di sempre), il vero diventa un momento del falso (o del verosimile).

Perché tutto, soprattutto l’analisi tecnica e tattica degli avvenimenti, viene piegato (sopraffatto) dal soprannaturale.

Così, nemmeno fossimo di fronte a un muro (di rumore), diventa un’impresa (disperata?) andare al cuore della vicenda: all’essenzialità di una storia che ha avuto troppa eco e troppe riscritture.

Da “Open”, le forme del biopic e del reality chiudono gli spazi a una visione – complessiva – che non sia agiografica (o scandalistica).

Oggi, persino ignorando “The last dance”, dal Jordan rintracciato sulle riviste cartacee, dalla matricola che segnava il canestro decisivo in una finale NCAA o dal cannoniere alato di Los Angeles 1984, siamo distanti anni luce e miliardi di frammenti di polvere cosmica.

Ci sarebbero stati almeno tre Jordan, sul parquet.

Quello degli esordi era uno slasher coi razzi ai piedi. Che impazzava donchisciottescamente contro le portaerei orientali. Charles Oakley enforcer, a piazzargli i blocchi (se necessario), e una fila improbabile di veterani e matricole intorno.

Giocava in una dimensione fisica e cinetica tutta sua: nel campionato dei superuomini.

Nel 1987, cronometrato sui cento possessi eravamo a 34 tiri dal campo e 15 liberi tentati, ogni sera. Nelle statistiche avanzate il 38,3 per cento di Usage chiariva l’assioma: lo Spalding se lo portava da casa, era suo. Quei Bulls giocavano da schifo.

Herobasketball c’est moi.

Per arrivare a quel livello solipsistico, nelle ere successive della palla con estro, dovremo attendere prima Allen Iverson e Kobe Bryant e poi l’NBA di oggi. Basata su altri concetti: analisi statistica, spaziature estreme (delle triple) e percentile.

Il Russell Westbrook più straripante e testardo, vedovo di Kevin Durant ai Thunder, è stato quello che ce lo ricordava meglio (o peggio).

Jordan non fu un unicum, non fu Kareem Abdul-Jabbar, ma un modello evolutivo della guardia (alta).

Se Kobe fu stilisticamente della stessa bellezza ed efficacia, il Dwyane Wade delle celeberrime (..) Finals 2006, che pareva giocare coi pattini a rotelle tanto era veloce e potente, trasfigurò lo stile di MJ più di Jordan stesso.

Degli eredi, per alcune caratteristiche (le giocate sotto pressione e le mani enormi, ciò che il Mamba non possedeva), il più promettente di tutti era Brandon Roy, sprovvisto addirittura dello stadio egotico dei sopracitati.

Michael, affamatissimo, avrebbe aggiunto molto altro, anzi il repertorio completo: il fade away dalla media distanza, dal post, automatico, esiziale, l’avrebbe separato (per sempre) da quello dei tempi di Dave Corzine (sic).

Una volta venne a Trieste, un’altra a Bormio. Eravamo abituati a guardie americane velocissime: lui ci parve un ologramma. Uno scherzo (della natura e del gioco).

Come definire altrimenti, nel 1985, una off guard di 1 e 97 più veloce, in palleggio, di un Larry Wright? E che decollava verso il canestro: non avevamo ancora immaginato un atleta così.

Faceva quasi tutto al doppio della velocità: le mani, stile guantone da baseball, gli permettevano cose – in volo, in avvicinamento al canestro – impensabili fino a quel momento per un due.

Studiandolo, scrutandolo, pareva il missaggio (felicissimo) di due dioscuri del passato.

La mentalità (vincente), l’ossessione (del lavoro), la qualità nel clutch di Jerry West. Il corpo (del reato), la naturalezza nel gesto, il primo passo di David Thompson: l’ispirazione di Michael bambino in North Carolina.

Skywalker, anche se non ci credereste, fino ai ventiquattro anni era Jordan, prima di Jordan. La cocaina l’avrebbe distrutto, al pari di altri colleghi di quell’evo.

Rispetto a West, al signore raffigurato nel logo NBA, la sorte con Mike fu più dolce: MJ avrebbe giocato nei Celtics degli anni Novanta; non si sarebbe consumato, di frustrazione, a giocarci contro…

Nei 63 punti al Boston Garden, perdendo, era Dio travestito da Michael Jordan che imitava Elgin Baylor: che ne fece 61 in una gara5 delle Finals, alla Gang Green di Bill Russell, vincendo. Uno forte quanto Jordan, ma che capitò dalla parte sbagliata e che l’anello lo ricevette, per cortesia, via posta. Nemmeno tre anni più tardi, MJ si era travestito da Oscar Robertson, un altro campionissimo che sbattè contro i verdi di Red Auerbach, quando Doug Collins (per disperazione?) lo schierò come point-guard: le quasi undici triple doppie consecutive ribadirono la cilindrata del 23, ma non migliorarono la qualità dei Bulls. Nel frattempo, però, era accaduto qualcosa.

La pesca miracolosa di Jerry Krause nel draft 1987 cambiò lo scenario. L’arrivo di Scottie Pippen e di Horace Grant eclissò quella Chicago così così e cominciò – piano piano – un’epopea (a tre o quattro fasi).

Mettere con la stessa canotta, diretti da Phil Jackson e Tex Winter, quel Jordan famelico, in missione, capintesta offensivo seriale, e un atleta dello stesso lignaggio che (ri) codificherà la point-forward, inventando bordoni difensivi inediti fino a lì, permise lo standard dinastico.

Ci vorranno tre anni, di batoste (e botte ed emicranie) al Palace di Auburn Hills, perchè Jordan e la sua combriccola, parecchio disfunzionale nel privé (..), si prendessero il regno.

Il mostro aveva appena cominciato la sua dittatura.

“Mo money, mo problems.”

Nell’ambiente, Jordan divenne – per l’invidia di Prince – un simbolo: ci si riferiva a lui come $. Il 23, declinati i nemici di Detroit, Larry e Magic al caffé, era ormai la lega.

Si inventava avversari immaginari, per alimentare la fame (e la fama). Labradford Smith, degli allora Bullets, una sera gliene fece – di giustezza – 37 sul muso.

Ventiquattro ore dopo, bollato l’evento col circoletto rosso, il tiranno segnò 47 punti in tre quarti di incontro e 36 nella prima metà. Pronti e via, otto su otto. L’odore del napalm al Capital Centre di Washington.

Era Michael la più incredibile macchina da canestri mai vista (con uno chassis che non fosse un centro)?

Si.

Era Michael sotto controllo della partita, del suo flusso e della sua inerzia?

Ni, poiché quella supremazia – psicofisica, debordante – non consentiva molto margine a una formazione amministrata così. Sul campo, e fuori, Jordan perdeva la misura. Al contrario del triennio aureo, il 1996-98, i Bulls – di una cifra atletica spaventosa – smarrivano ogni tanto vantaggi importanti.

Jordan forzava, sul filo, tutto lo scibile: tiri, transizioni, difese, allenamenti, riunioni tecniche, tee e drop, contratti pubblicitari.

Gli veniva concesso per status.

Uno statement game a Salt Lake City, febbraio 1992. Chicago da mesi dominava (soggiogava) le rivali. La contesa l’avremmo rivista, cogli attori principali, un lustro dopo a giugno.

Il dinamico duo, per cinque minuti, incenerì i Jazz che non avevano risposte (e non le avrebbero mai avute) per quelle partenze in punta dei (due) ghepardi. Che – a un certo punto – spensero il motore e si ritrovarono in una partita serratissima, in volata. Il finale gestito, non una novità, dal nostro produsse un quadrifoglio, un Gronchi rosa, per le regole (..) di Sternville: MJ si fece espellere.

Quel Michael (13 su 34…) nervoso, isterico (con arbitri, compagni, avversari…), ci sembrava ingestibile: non solo per le difese della Central Division.

La rivoluzione, del basket e dello sport pro, avvenne prima nell’immaginario mediatico, allestito da Knightpolis e Sternville, e poi – quasi per osmosi – nell’evento agonistico.

Un piano di marketing senza precedenti, e di un successo ineguagliabile, che modificherà – per l’eternità – la concezione stessa della pallacanestro e del professionismo sportivo.

L’invasamento martellante, ripetuto ad libitum, del cosiddetto GOAT diventerà inscindibile da Jordan e dall’apparato commerciale (gigantesco) costruito.

Il Jordanesimo fidelizza un marchio – Nike e Jordan erano (e sono) indistinguibili – e lo fa (genialmente) imponendo una suggestione, suggerita (e calata dall’alto), trasformatasi in una verità fanatica. Un dogma.

Un conflitto d’interessi che segnava trenti punti ad alzata. La storia si stava complicando non poco, ma differiva da quella venduta.

I jordaniani erano (e sono) al potere. Erano (e sono) ovunque: da Ahmad Rashad, il migliore amico del 23, microfono principe dell’NBC, agli Skip Bayless e Stephen A. Smith, i prezzemolini che occupano i media americani.

Il resto, che non era mancia, era (ed è) David Falk, NBA, Nike, McDonald’s, Warner Bros, Coca-Cola, Gatorade.

Difficile capire, trattando del re di Sternville, dove cominci il parquet e finisca il macchinario. Sam Smith scrisse il leggendario “The Jordan Rules” ed entrò, di diritto, nella lista nera. Qualche anno più tardi, durante la pausa del baseball, bastò un titolo (“Bag it, Michael!”) per scatenare le ire di MJ e l’embargo con Sport Illustrated.

1993. L’uscita serale ad Atlantic City, un nastro imbarazzante di (tre) match dei playoffs (25 su 77 complessivo al tiro) coi Knicks e una gara4 furiosa, onnipotente, da 54 punti.

La partita seguente, quella chiave, una bolgia, sei o sette fischi generosi dei grigi e il pubblico del Madison Square Garden che, in coro, urlava “Bull-shit!”.

Contro i Phoenix Suns nelle Finals, individualmente, il migliore Mike ogni epoca. L’ologramma di Trieste, dieci volte più forte e incattivito. Una belva.

La sceneggiatura del supereroe zoppicava: Richard Esquinas, un procacciatore di affari (e di attenzioni), rivelò le manie compulsive di MJ e i debiti accumulati con lui.

Jordan, un colpo sul green poteva valere dai 100000 ai 250000 dollari, era andato sotto di un milione e duecentocinquantamila verdoni. Nel 1991, mentre gli altri Bulls erano alla Casa Bianca da George Bush senior, giocava a golf a Hilton Head: quella settimana perse 57000 dollari in una sfida con il caddie, James Butler, che era anche uno spacciatore di cocaina.

Scommetteva su tutto, anche coi compagni.

La soap-opera era pure in campo. Il despota consigliò (..) di non passarla a Bill Cartwright, negli ultimi minuti delle partite tirate. Distrusse – non solo in allenamento – Brad Sellers, Rodney McCray (un veterano di mille battaglie), Craig Hodges. Il nemico pubblico numero uno, ancor più di Jerry Krause, era Horace Grant, col quale si picchiò.

Separato in casa, Jackson e Pippen a fare i pompieri in una vicenda forse senza precedenti. I suoi non lo sopportavano, allora – dopo la morte (violenta) del padre – l’annuncio del ritiro non fu una sorpresa, altresì una conferma dell’intelligenza (politica) di David Stern.

Il ritorno, calmato il caos, un trionfo.

Dei Bulls campioni erano rimasti, al ritiro prestagionale 1995, i tasselli indispensabili. Lui, Pip, coach Zen e maestro Tex più Crumbs.

A un passo da firmare Derrick Coleman, avremmo voluto vederli col Wolverine nero (sic), giunse invece un altro mutante, il pezzo perfetto del mosaico: Dennis Rodman.

Era – tatticamente – il combo di Pippen, al suo zenit, ma con la leadership di Jordan a sublimarlo. MJ poteva centellinarsi e poi, uno squalo, firmare il parziale spaccagambe. Uno spettacolo.

Per un biennio, non parvero battibili: avevano (aveva) troppo nella gerla. La Triangolo, eseguita sul serio, l’arroganza (splendida) di una mistica che si riassumeva in tre numeri. 23, 33, 91. Aggiungete al menu Toni Kukoc, Steve Kerr, il free agent di passaggio (Bison Dele, Scott Burrell).

La vincevano in difesa, demolendo la fluidità offensiva degli avversari. Li vedemmo rimontare, sotto di diciotto nel terzo quarto, nella gara2 delle finali est 1996, gli Orlando Magic di Shaquille O’Neal e Penny Hardaway.

Scottie, che comandava il fortino (movimenti e parole), veniva assegnato sull’esterno più pericoloso o il lungo battezzabile. Nell’ultimo caso scattavano i raddoppi, superbi, del 33.

Il migliore difensore della lega, che di là faceva il play e 20 punti a partita, interagiva (un’intesa quasi telepatica…) col migliore attaccante del mondo, uno che – dall’altra parte dei ventotto metri – era strepitoso nel leggere i corridoi di passaggio altrui.

“Datemi Michael e Scottie e non importa chi altro ci sia in campo.” disse Chuck Daly. Jordan e Ron Harper erano i dobermann sguinzagliati dai movimenti di Pippen. Il Breakfast Club, la commissione interna, dava l’esempio alla truppa. Completava il quadro, dietro, il Verme, micidiale nel marcare a uomo qualsiasi lungo (quattro o cinque): tecnica, mestiere e cuore.

L’extra, mediaticamente era il sogno bagnato di qualsiasi procteriano. Dove trovare un circo a tre piste del genere?

Mike, il sole nero al centro dell’universo, un uragano di attenzioni. Pip, l’occhio (calmo) nel ciclone. I due boss si cambiavano in uno spogliatoio (camerino) a parte. Rodman (del quale si tenevano le statistiche, a seconda del colore dei capelli…) si presentò vestito da sposa per promuovere “Bad as I wanna be”. Jackson e Krause, in rotta di collisione, conversavano tra loro – con l’alfabeto cifrato – mediante le interviste rilasciate. Sapevamo tutto: quei Bulls, in diretta, erano già “for the ages”. Capivamo, vedendoli, che nulla – nello sport – sarebbe più stato lo stesso.

La rivincita delle finali 1996, al Coliseum, con Seattle nel ’97. I Sonics avevano Shawn Kemp al dessert, dopo quella sera iniziarono a circolare voci della sua vida loca, confermate più in là da “Where’s daddy?”, un’inchiesta (giornalismo a ventiquattro carati) di Sport Illustrated. La banda di George Karl confusa e infelice, i Bulls (tosti) con un Pippen fuori sincrono in attacco. Bastò Jordan: il migliore visto dal rientro, e forse di sempre. Una messa di giocate, di canestri, con una fluidità aliena, incluso un jumper da metà campo sulla sirena del primo tempo. Quel Michael che sapeva aspettare, la partita e il momentum, era molto più grande del cannibale degli anni strapotenti.

La diaspora era a un passo: il ’98, nel limbo, visse di un gruppo che trovava la benzina compattandosi contro tutti, management incluso.

Vissero pericolosamente, nelle finali orientali, opposti agli Indiana Pacers che – per un quarto d’ora warholiano – all’incipit di gara7 allo United Center, diedero l’impressione di poter chiudere la dinastia.

Si salvarono di cazzimma e intangibles, tirando col 38 per cento (e il 58 ai liberi…), e spazzolando i tabelloni. Coi Jazz, una classica dalle dinamiche tattiche più consolidate.

Il problema, per Utah, cominciava dalla single coverage – un lusso pazzesco – di Rodman (in forma splendida: molto meglio dell’anno precedente) su Karl Malone: il terminale del gioco latte e miele (e gomiti appuntiti) Jazz veniva limitato dal catalogo difensivo del Verme.

Non era un guaio solo del Postino: nel dicembre ’96, quando i Bulls rientrarono da meno 22 coi Lakers, assistemmo a uno Shaq impotente contro Dennis (18 rimbalzi). Il Diesel ridotto a due canestri (e zero punti nel supplementare) nel secondo tempo. Quel dato tecnico, a ritmi oltraggiosamente bassi (il pace delle sei contese fu di 82: una lotta nel fango…), non permetteva alla partenza UCLA di Jerry Sloan di svolgersi come al solito. Due macigni: Jeff Hornacek, il terzo uomo ideale per sfruttare i giochi a due tra John Stockton e Malone, in difesa doveva scegliere il veleno col quale uccidersi. Jordan o Pippen. In attacco, l’impiego di Greg Ostertag (importante dietro, per chiudere il canestro alle razzie rossonere) permetteva gli aiuti e i blitz della dea Kali Pippen che mettevano in crisi il pur fenomenale Stockton.

Era un no contest, esemplificato dal massacro di gara4, quando i Jazz (il 30 per cento al tiro, 16 assist e 26 palle perse) misero assieme il primato negativo di punti – 54 – in una finale.

Eppure, nella quinta, un fatto ribaltò le prospettive: la schiena (l’ernia) di Pippen cominciò a cedere.

In gara6, di nuovo a Salt Lake City, fu evidente che il castello (difensivo) dei dinastici, senza Scottie, stava franando. Pip fece Willis Reed molto più di Willis Reed: l’eventuale bella l’avrebbe vista alla tivù. In piena emergenza, Chicago zonò (..) costretta dalle circostanze. I Jazz, a un passo da un’impresa che pareva impossibile, morirono fondamentalisti con le loro leggi (sacre): sarebbero bastati, forse, cinque minuti in più del deviante Chris Morris (appestato dal Postino, da quando ebbe un alterco in panca con coach Sloan) per evidenziare meglio l’emoraggia (tattica e di forze) dei Bulls.

Lo psicodramma, nell’ultimo quarto, assunse le forme di un romanzo: Rodman teneva Malone, Chicago (selvaggia nel comprendere l’attimo fuggente) non permise la fuga in avanti a Stock e soci.

Sapevamo cosa sarebbe accaduto: quel mezzo minuto di Michael, con il pianeta terra sulle spalle (larghissime), una pressione inumana, lo battezzò definitivamente – nella cultura americana – Babe Ruth moderno.

Fu un buco nero che assorbì tutto, non solo il gioco inventato da James Naismith ma lo sport come racconto (epico), e trasformò quelle sequenze in una pietra di paragone (ingenerosa per chiunque) dal peso specifico incalcolabile.

MJ e i Bulls conclusero lassù: sul Monte Everest, senza bombole d’ossigeno, dove i pensieri si confondono e producono allucinazioni.

Quando venne in Italia, prima dei sei anelli, qualcuno (che ci vedeva lunghissimo) convinse Mike a posare per uno scatto fotografico con una targa di Fausto Coppi.

In un’immagine, per caso, tagliando l’argomento con una cesoia da quattro soldi, l’apogeo culturale dello sport novecentesco, in Europa e in America.

Fenomeno sociale e commerciale inclusi.

Il terzo tempo jordaniano, stavolta inatteso, qualcosa da spartire ideologicamente con una vecchia gloria del pugilato o Frank Sinatra, vide il nostro (deificato) a Washington.

Trentotto primavere e la classe inalterata: meno atleta dell’ologramma che fu, avevamo più tempo per apprezzarlo.

Il magistero in post, le finte, la palla mossa con le manone, il jumper (dalla parabola più bassa rispetto all’uomo-molla dello Chicago Stadium), le improvvisazioni sullo spartito.

C’era anche la parte oscura che emergeva: non si portava solo lo Spalding da casa, l’Usage da 36 nel 2002 fu indicativo, ma nessuno – nella franchigia e sui media – glielo avrebbe fatto notare.

Era l’executive degli Wizards, mise l’amico (sottoposto) Doug Collins ad allenarlo e i rapporti coi compagni, cari inferiori, non parevano dissimili da quelli – tempestosi – degli anni ruggenti nella città del vento.

Ma stavolta si vinceva poco e fallire per due stagioni consecutive l’entrata nei playoffs – in una Eastern non irresistibile – non fu un’impresa memorabile.

L’icona, la sola presenza, bastava e avanzava per il pubblico pagante: il brand delle scarpe di $, a tutt’oggi vende di più del totale delle superstar odierne (LeBron James, Stephen Curry, Durant, il povero Kobe, etc.).

Il Jordanesimo è una religione di massa e questo è un piccolo vangelo apocrifo.

Amen.