LA PRIMAVERA DI PETER SAGAN

Il prossimo 26 gennaio Peter Sagan compie trent’anni: a dispetto dell’aria da monello, lo slovacco è ormai un veterano di cento (sedici) vittorie da professionista.

L’uomo di Zilina apparve sul proscenio giusto dieci anni fa, alla Parigi-Nizza 2010, con la maglia della Liquigas, aggiudicandosi due tappe. Il 2019 mediocre, per il suo standard regale, suggerisce un 2020 a mò di snodo cruciale della carriera: il declino potrebbe essere accentuato dai mammasantissima che stanno arrivando; quelli nati dalla seconda metà degli anni Novanta in poi.. 

Che il ’19 sarebbe stato complicato, lo si capì da una notizia dell’anno scorso: il divorzio (lampo) dalla moglie Katarina.

Un virus intestinale, a febbraio, si sommò a una condizione così così: il Peto zerodiciannove venne fotografato dalla Parigi-Roubaix di Philippe Gilbert. Sul più bello, dopo il tremendo settore del Carrefour de l’Arbre, Sagan si è eclissato.

Un’immagine che si è ripetuta molte volte, tra primavera ed estate: a Harrogate, sotto il diluvio universale, quando Mathieu van der Poel e Matteo Trentin hanno spaccato in due la contesa, lui non c’era.

Il quinto posto racimolato al traguardo, con l’arcobaleno che già cingeva il busto di Mads Pedersen, racconta (va) il serbatoio (infinito) del fuoriclasse e una stagione storta, certificata dai soli quattro successi nel palmarés.

Il suo primato negativo da quando Sagan è diventato Sagan, ovvero il più forte corridore da gare in linea del suo tempo.

2013. Peto, a suo modo, festeggia così la prima delle tre Gent-Wevelgem.

L’erede (designato quanto contrastatissimo) della generazione d’oro dei Tre Tenori (Tom Boonen, Fabian Cancellara e Filo Gilbert).

Agli esordi coi denti da latte, con Spartacus, il meno tenero dei tre ras, si sarebbe scornato (..) fino al riconoscimento nobiliare dell’elvetico stesso.

Peto, anema e core da biker, è un brevilineo con una postura sul mezzo, raccolta, da classicomane doc (alla Sean Kelly), un mare di potenza col cambio di ritmo di uno che prospera con l’acido lattico che avvelena i muscoli.

Un torello dalle capacità tecniche, di controllo della bicicletta, degne di un Roger De Vlaeminck: un acrobata che si diverte a limare, nascondendosi nelle pieghe del gruppo (e della corsa), per poi apparire davanti a tutti, disarmando gli avversari per facilità d’azione e forza.

Il surplus, che non è tale nella società dello spettacolo, è il personaggio globale, guascone, uno dei pochi espresso da questo sport, nel bel mezzo di un’era evolutiva con pochi precedenti storici.

Sagan che vince la (prima) Gent-Wevelgem impennando come un cowboy; Sagan che si ferma, durante una frazione di montagna del Tour de France, a firmare autografi.

Peter Sagan diventa campione mondiale, per la prima volta, a Richmond nel 2015.

Il capitano slovacco, prima della Tinkoff-Saxo e oggi della Bora-Hansgrohe, nel (suo) decennio ha vinto tantissimo e bene, perdendo ahi lui gare che parevano in saccoccia.

La maledizione della Milano-Sanremo, essendo quella classicissima perfetta – in teoria – per le sue doti da velocista resistente, è curiosa. Sanremo smarrite dopo il Poggio: dominandola, nel 2017, contro quel genio (anche tattico) di Michal Kwiatkowski; nel gelo e nelle pozzanghere del 2013 (una tregenda, si impose la renna Gerald Ciolek) o con le amnesie e la paura di non essere (ancora) reuccio, nel ’14, opposto ad Alexander Kristoff e al solito Cancellara.

Quel pomeriggio, al Tour de Suisse 2016, a Rheinfelden. Un capolavoro.

Un destino opposto alle fortune iridate: con l’eccezione della magata di Richmond 2015, la discesa à bloc dopo lo scatto in fondo alla Ventitreesima Strada, Sagan si è sempre appartato (..) sotto le foglie, interpretando al meglio il ruolo di Oscarito Freire degli anni Dieci.

Uno dei gesti più incredibili del ciclismo post moderno è stato il suo assolo durante la terza tappa del Giro di Svizzera 2016: forse il migliore, assieme alla fuga coppiana di Chris Froome nella Via Lattea, al Giro d’Italia 2018.

Quel pomeriggio, nella Grosswangen-Rheinfelden, pioveva a dirotto: Sagan, dopo quattro ore di battaglia, rimase senza compagni di squadra. Sullo Schoneberg – a tredici chilometri dall’arrivo – partì per riprendere Silvan Dillier e Michael Albasini, isolatisi all’inizio della salita.

Peto tirò dritto, con gli altri due a ruota (attaccati con il nastro autoadesivo..), scendendo a tomba aperta: i trenta secondi sul gruppetto, al termine della discesa, consigliarono alla Lotto-Soudal e all’Etixx un inseguimento pancia a terra. Il campione del mondo, a tutta, e la muta a cacciarlo: a cinquemila metri dallo striscione, per qualche istante, i due svizzeri furono staccati dal forcing (spaventoso) dello slovacco.

Albasini, con il plotone a un passo dal terzetto, tentò il contropiede appena transitato dall’ultimo chilometro.

Sagan, in apnea, lo riprese e lo battè di giustezza. Un capolavoro. I cretini, che abbondano, la definirebbero un’impresa d’altri tempi.

La realtà è che il ciclismo è sempre di un altro tempo: il suo, particolarissimo, che se ne fotte del presente e incapsula insieme passato e futuro.

2018, nel Velodromo di Roubaix, regolando Silvan Dillier, si aggiudica l’enfer du Nord.

Il nostro, nel 2020, esordirà finalmente al Giro. La Bora e RCS nell’annunciò ci hanno sguazzato, provando a venderla come una scelta, quando è altresì un obbligo, con la doppietta Tokyo-Martigny indigesta per quelli oltre i 70 chili di peso e una Grande Boucle sempre più Vuelta di Francia.

E la cancellazione, per problemi finanziari, del Tour of California. La corsetta, in concorrenza col Giro, che permetteva alla Cannondale di esibirlo in America come un Picasso.

Nei due mesi precedenti però, tra marzo e aprile, Peto e quelli come lui, per esempio Kwiatko, un altro uscito male dal 2019, dovranno farci capire a che punto sono i nuovi fenomeni, soprattutto Mathieu van der Poel e Wout Van Aert, che vorrebbero sbranarsi i vecchi leoni. Darwinismo e pedivelle.

Van der Poel, potenzialmente, sembra un Sagan due punto zero: un freak, il risultato di un incrocio genetico (e in effetti lo è, pensando al nonno e al babbo..) che potrebbe fagocitare lo scenario classicomane.

Lo slovacco, che ha bisogno di sfide fortissime, vorrà procrastinare – a una data lontana – il passaggio del testimone: stavolta, con la clessidra che detta le regole, nel ruolo che fu di Cancellara c’è il tre volte iridato.

Che ha un appuntamento, rimandato troppe volte: la primavera di Peter Sagan è tutta su un rettilineo di Sanremo, il sabato, in Via Roma.