HANA BI

Rieccoci dunque col tennis, l’unico sport professionistico senza soluzione di continuità, per l’entusiasmo dell’ATP che può contare alternativamente il denaro affastellato e i feriti sul campo.

Si ricomincia dall’Australia, con quello che per molti anni fu considerato lo Slam di scorta; idiosincrasia autentica per molti Grandi della prima era open.

Pensi aussie e, tra un’immagine degli Whiz Kids e di Rocket Laver, ci ritorna in mente quello strano androide proveniente dall’est Europa, oggi cittadina down under a tutti gli effetti.

Hana Mandlikova rappresenta, ancora oggi, il Muro di Bimini dei gesti bianchi femminili: un mistero inquieto, inspiegabile.

“Il tennis è quasi troppo facile per Hana.” (Martina Navratilova)

I segni di una grandezza nascosta, sommersa, appena scalfibile dallo sguardo del resto del mondo.

Un enigma che si adatta allo spirito cecoslovacco del Novecento che fu: quella terra meravigliosa produsse tennisti artisti, tanto straordinari quanto incostanti.

Gattone Mecir, genio bimane che anticipò il gioco moderno di un buon decennio, talvolta spariva dalla contesa; magari nei momenti meno adatti alla mancanza di ispirazione.

Il male di vivere (?), in fuga da un regime e forse anche da se stessi, lo incarnarono anche due leggende come Jaroslav Drobny e Martina Navratilova.

Quindi ci pare inspiegabile il tranquillo campionismo, nevrotico il giusto, di un altro figlio di quelle lande come Ivan Lendl.

Ma per giustificare l’eccezione alla regola, per il Buster Keaton della racchetta dovremmo scomodare l’etimologia di una parola.

Robot deriva dal boemo e indicava originariamente il lavoratore: ecco, allora Ivan il Terribile interpretò la sua parte con una dedizione quasi diabolica…

Hana fu l’ossimoro perfetto di un Lendl, perchè nacque già campionessa; lo sarebbe stata in qualsiasi sport con quei piedini alati, concessione paterna del signor Vilem Mandlik, olimpionico in due edizioni estive e con un personale di 20″4 sui duecento.

Hana con Andrea Jaeger: che a sedici anni (!) era già numero due WTA..

Scelse il tennis perchè gesto individuale espressivo, benedetta dalle parole di un’ammirata Martina, Pentesilea regina delle amazzoni, che la vide bambina sul campo ad appena dieci anni.

Poi a quindici apparve, intoccabile, all’Avvenire di Milano; l’anno dopo divenne la prima numero uno junior della storia ed esordì nel circuito WTA.

Fu una della triade designata a spodestare la diarchia delle regine Evert e Navratilova: Tracy Austin, meteora lucentissima, ebbe addirittura l’ardire di scalzarle momentaneamente dalla vetta del ranking.

Andrea Jaeger, Lolita più di tutte, battè ogni record di precocità.

La nemesi, ordita dagli dei offesi, furono gli infortuni che le costrinsero alla resa ancora giovanissime, con la bionda Andrea che, dopo aver confessato un’adolescenza di abusi e droghe, è diventata suora domenicana.

La cecoslovacca invece, malgrado tutto, realizzò le minacce: divenne l’alternativa poetica alle dittatrici, almeno nella primissima parte della sua carriera.

Non si issò mai oltre il numero tre delle classifiche, ma inanellò quattro finali Slam consecutive: fu quel momento, dall’estate americana del 1980 al Wimbledon dell’anno dopo, che affermò una blasfemia.

Per dieci mesi la diciottenne Mandlikova fu superiore, nelle partite clou, a Navratilova e Chris Evert.

Lo fu esibendo un gioco di un’eleganza mai vista, alieno alle meccaniche tecniche del tennis rosa.

Agli US Open 1980.

Perse gli Us Open dall’odiatissima Chris, allora Lloyd, e si prese in serie Kooyong e Roland Garros, oltre ad altri sei tornei su tutte le superfici.

Arrivò col piglio della predestinata all’appuntamento sull’erba londinese.

In semi fece fuori Martina, giocando una partita quasi perfetta e poi, in finale contro la Evert, mostrò l’altro versante della Luna: sparì, scuoiata dalla rivale meno propensa al sentimento di pietà.

L’altra Hana, dopo l’ascesa di quei mesi frenetici, divenne sempre più presente; sui campi da gioco come nella vita privata cominciò una discesa frenetica.

“I cannot survive in this world with my honesty”.

Incompresa dalle colleghe nello spogliatoio, eccentrica negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni, illogica con una racchetta in mano: il talento pantagruelico battè in ritirata, i segmenti di partita imbarazzanti iniziarono a susseguirsi.

Forse raggiunse il segreto troppo presto e annoiata iniziò a odiare quella vita, oppure aderì alla sua natura di personaggio hrabaliano: Pierrot incrudito dall’esistenza, nel tentativo di gestire la solitudine più rumorosa.

Due anni e mezzo senza aggiudicarsi un evento WTA, perdendo incontri impossibili da perdere, tra una pausa di riflessione e un infortunio.

Eppure, giovane vecchia di ventitre anni, ritornò a sfidare il duopolio e vinse: perchè quel talento (tanto, troppo) non le permise di eclissarsi definitivamente.

Anche nei momenti di buio meno terapeutico, durante il plenilunio, la Mandlikova appariva ingestibile per chiunque: la reattività di un felino, i colpi a rimbalzo piatti, impossibili da contrastare.

Nei venti minuti giusti, “posseduta” dal gioco, pitturava il campo con i suoi traccianti magici.

Artemisia Gentileschi della volée impossibile, fu in quegli attimi la più grande di sempre, senza paragoni con la concorrenza.

Soprattutto perchè quelle recite di perfezione geometrica seppero abolire l’idea dell’avversaria dall’altra parte: a volte cancellata dal tennis assoluto della praghese.

Fu così che nel 1985 sconfisse, una dietro l’altra, le due regine: il fiore ricrebbe sul cemento metropolitano di Flushing Meadows e la finale fu un capolavoro mai più visto.

Due fuggiasche boeme, omoeroine, la Maestra contro l’Allieva Prediletta: venne fuori la partita femminile più bella di sempre; il serve and volley di Martina contro la versatilità di Hana.

1985. Durante la finale contro Navratilova (7/6 1/6 7/6) a Flushing Meadows.

Un match che fotografò una carriera folle e affascinante, con la Mandlikova che in diciassette minuti cancellò la numero uno dalla scena: 5-0.

Dopo, all’improvviso, un blackout dei suoi e Martina pareggiò: sul 5 pari, la bimba di Vilem cancellò otto palle break e sullo slancio si aggiudicò il tie-break.

Il secondo fu un assolo della Navratilova, che poi (nel terzo parziale) fu nuovamente travolta da quel mostriciattolo di creatività: sul 5-3, si ripetè la vertigine e Hana fu costretta al tie-break decisivo.

Che non ebbe storia, con una Martina all’angolo, stremata contro quella fenomenale autistica.

La rivincita, un anno dopo, tolse a Hana Bi l’ultimo sogno della carriera, ovvero lo scettro di Wimbledon: affiancò così, idealmente, Ken Rosewall nel palmarès delle beffe.

Rimane assurda la sua assenza da quel club; poche, nella storia, furono erbivore come lei: a testimoniare la sua attitudine arrivò, nel gennaio 1987, il quarto Slam della carriera.

In Australia, contro la solita Martina, e nell’ultima edizione giocata su erba: i titoli su quella superficie, nel totale, salirono a sette.

Smise senza molti rimpianti a ventotto anni, consumata da una diffidenza malinconica verso il mestiere, ma non lasciò il tennis e i suoi riti: vinse all’All England Club per interposta persona, allenando Jana Novotna.

Ma, al limite della bulimia, capì che solo un gesto l’avrebbe interessata sul serio alla quotidianità: così, ebbe due gemelli da un amico e li crebbe con l’amata Liz.

Forse comprese appieno, finalmente, una frase che la sua allenatrice di sempre, Betty Stove, gli rivolse a inizio carriera.

“There is no love in tennis, only 40-love”.   

Pubblicato il 9 gennaio 2010 su Indiscreto