IL RAGAZZO CHE CADDE SULLA TERRA

Sono rimaste quattro Sei Giorni quattro, di livello, nel mondo delle pedivelle.
L’UCI propone – più o meno disperatamente – la Champions League della pista.
Il ciclismo, col ritorno (prepotente: e ci mancherebbe altro..) del ciclocross, e la MTB d’estate, vive (e muore) sulla (e con la) strada.
Fa più notizia il calendario 2024 di Tadej Pogacar, se correrà il Giro d’Italia, che cento competizioni nei velodromi.
In Italia, l’universo della pista è roba da carbonari.
A dispetto dei santi e dell’evidenza: Filippo Ganna e Jonathan Milan, due pistard (fuoriclasse), sono anche i migliori talenti tricolori della strada.
Ennesimo bigliettino nietzschiano dello stato (culturale) delle cose, di un mondo mediatico che batte la grancassa per la Ryder Cup a Roma (il golf!) e che costringe l’attività di base (di qualsiasi sport) ad arrabattarsi per sopravvivere.
Tornando all’anello, continuiamo a maledire l’esclusione dal programma olimpico della corsa a punti e dell’inseguimento individuale.
Uno sfregio alla storia.
Una proposta miope, sbilanciata verso le fibre bianche (sprint, velocità a squadre, keirin) e punitiva nei riguardi della tradizione che, più di ogni altra, si impollina colla strada.
L’inseguimento, specialità nobile che con un filo rosso collega Fausto Coppi e Bradley Wiggins, passando attraverso Sydney Patterson, Guido Messina, Roger Rivière, Rudi Altig, Leonardo Faggin, Hugh Porter, Knut Knudsen, Detlef Macha, Hans Henrik Oersted, Vjaceslav Ekimov, Chris Boardman, il già citato Ganna.
Da questa lista solitamente si evira, per ignoranza, il nome di uno degli atleti più incredibili apparsi su una bici.
Tiemen Groen.

Nel romanzo del ciclismo belga e olandese, le due più grandi generazioni di corridori crebbero quasi parallelamente.
Nei Sessanta, divisi da appena tredici mesi nella data di nascita, nelle categorie giovanili apparvero tre mostri nati a metà degli anni Quaranta: Eddy Merckx, Fedor Den Hertog e, appunto, Tiemen Groen.
Se il primo non ha bisogno di presentazioni, e il secondo meriterebbe uno spazio a sé, il frisone di Follega – lillipuziano villaggio agricolo – rappresenta uno dei misteri (irrisolvibili) più affascinanti di sempre.
René Pijnen, un grandissimo, sostiene – e con parecchie argomentazioni a favore – che uno così, con quelle peculiarità tecniche e atletiche, non ha avuto eredi.
Imparò ad amare il ciclismo per caso, percorrendo in bici i 40 chilometri (andata e ritorno) che lo separavano dalla scuola a Heerenveen: nessun compagno di classe riusciva a seguirlo..

Nel 1962 Groen (classe ’46), il ragazzo che cadde sulla terra, vinceva senza soluzione di continuità.
Prima corsa nell’aprile 1961, la Ronde van Veendam, una kermesse, che si aggiudicò doppiando il gruppo.
Tutti i maledetti fine settimana, Groen mostrava una combinazione, illogica, di agilità e potenza.
Era diciottenne quando si impose nel campionato nazionale debuttanti: a Zandvoort, su un tobòga battuto dai venti che rendeva impossibile l’assolo e favoriva la soluzione in volata.
Per gli osservatori e i suiveur, il numero di maggior classe, pro compresi, ammirato in quelle lande.
Partì a 50 chilometri dal traguardo, rincorso da tutti.
Tiemen fece i 43 di media; lui davanti e gli altri a menare, con la bava alla bocca, dietro.
Non lo ripresero.
Il 1964 di Groen divenne leggendario: alla settantesima (!) affermazione su strada, in meno di un triennio, scoprì la pista.
Era la dimensione perfetta di chi amava la fuga, la solitudine, e rifuggiva il plotone.
Pochi mesi, subito campione olandese dell’inseguimento (con una bici prestata..) e l’esordio, imberbe, ai Mondiali.
Tra i dilettanti c’erano gli europei dell’est, professionisti statali, vecchie volpi al pari di alcuni occidentali che non erano passati: il frisone era un bambino in mezzo agli adulti.
Lo scenario, il contesto della disciplina, Tiemen lo avrebbe modificato per sempre.
Al Parco dei Principi, Parigi, eliminò al primo turno il vicecampione iridato, il sovietico Stanislav Moskin (venticinquenne).
Poi fece fuori Claes e Jiri Daler.
In finalissima, cinque minuti dopo essersi mangiato un sacchetto di patatine, sconfisse Hermann Van Loo.

Tiemen – nello stupore generale – si mise l’oro al collo: aveva diciotto anni e due mesi.
Accade, non solo nello sport, che l’arrivo di un genio, di un prodigio, stabilisca nuovi standard.
Il fuoriclasse della Frisia bissò l’arcobaleno a San Sebastian (1965) e realizzò la tripletta – incamerando pure il primato mondiale (4’50″21) – a Francoforte.
A soli ventun’anni, l’esordio tra i professionisti fu un trionfo.
A casa – Amsterdam 1967 – regolò due campioni come Hugh Porter (che di anni ne aveva ventisette) e l’indimenticabile Leandro Faggin.

Eppure quell’affermazione allo stadio Olimpico non fu un passaggio di consegne, bensì la chiusura di un ciclo.
Il suo, fulmineo e imprevedibile negli sviluppi.
Decise di non salire più su una bicicletta da corsa, nel caos del gruppo della Parigi-Tours 1968.
Vide un contadino, a fianco della strada, in un prato: lo invidiò.
Non voleva più andare in fuga, ma scappare (via).
Il 31 gennaio 1969, dopo una stagione sfortunata, Groen diede l’addio all’agonismo.
Deluso dal tradimento contrattuale della sua equipe, la Caballero, che lo ingannò sul prolungamento dello stesso.
Il ciclismo era una passione, anzi un mestiere, ma nella sua vita arrivava dopo la pittura e gli oggetti d’arte.
Aprì un negozio di antiquariato e cominciò a viaggiare.
Dal 1986, per un decennio, girò il mondo (l’Europa, l’America, l’Africa) con un camion e un camper, commerciando antichità.
Nel 1995, innamoratosi del Sudafrica, si trasferì definitivamente a Città del Capo.
Un personaggio singolare, unico, che è stato un fenomeno del ciclismo.
Alcuni, noi compresi, coltiveranno il rimpianto di comprendere dove il suo talento – straordinario – lo avrebbe portato: di certo non Groen.

Il 29 ottobre 2021, un venerdì, i giornali fiamminghi ricevettero una e-mail (laconica) dal Sudafrica, con la notizia che Tiemen Greon era morto.
Si era spento il 26, dopo una breve malattia, a Malmesbury.
Tempo prima, alcuni corridori (in ritiro), qualche giornalista, erano riusciti a incontrarlo.
Quell’uomo, eccentrico, incuteva ancora timore e rispetto: raccontava la sua vita, i viaggi, la libertà, l’amore per l’Africa, il razzismo.
Nel 2002, a Groen, alla sua vicenda, Hylke Speerstra dedicò un capitolo intero de “Il Paradiso Crudele”, un libro sull’anabasi degli emigranti olandesi in giro per il globo.

1968.
Nei Paesi Bassi andavano forte i criterium cittadini, con un circuito (condito da ricchi premi) che le regolava.
L’ultima della serie era a Katrendrecht, nel quartiere a luci rosse (ora demolito).
Gli atleti, nemmeno fossero ballerine di localacci, si cambiarono in un caffè.
Pioveva e migliaia di spettatori erano lì per vedere i mammasantissima dell’epoca: Rik Van Looy, Peter Post, Harry Steevens, Eef Dolman.
Gente tosta.
Tiemen rifece quella volta, memorabile, di Zandvoort oppure Bolsward (1962).
Lo scherzo della natura davanti e i ras a menare, con la fronte sul manubrio, dietro.
Non lo ripresero più.
Van Looy, l’Imperatore, uno con un’alta opinione di se stesso, nel dopogara andò incontro a Groen e gli chiese, scherzando ma non troppo: “Diavolo, ma tu sei umano?”