CONTRO DISNEY E CONTRO SE STESSO

A Ostenda, nelle Fiandre, lo sguardo delle persone tende verso l’infinito: dal porto si guarda il Mare del Nord, con la consapevolezza che quell’enorme distesa azzurra deciderà il destino e le fortune della città.
Il paesaggio interiore di chi cresce sulla sponda orientale (oost-einde) viene stabilito da quel mostro blu, onnipresente.

Incrociammo Raoul Servais per caso, tanti anni fa: erano gli Ottanta e Maurizio Nichetti (a orari da luci rosse) presentò una serie di cartoni animati “per adulti”.
La prima volta lo scambiammo per un autore dell’Europa orientale, tali erano la durezza e la poetica delle immagini.

Avremmo incrociato il Mago di Ostenda, la sua poliedricità, in diverse occasioni, confondendolo ignobilmente con autori americani, francesi, italiani, ecc.
La verità è che il nostro gusto visivo, in tema animazione, è stato colonizzato da due grandi scuole egemoni, statunitense e giapponese, espressioni sì di vivacità culturale ma anche di un immaginario che è soprattutto figlio di un’industria.
Abituati a marchi di fabbrica – nel disegno – facilmente riconoscibili, per essere consumati meglio, il work in progress senza soluzione del Maestro fiammingo spiazzava e sorprendeva sempre.
Zenit di una tradizione autoctona (Ray Goossens, Abel Van Kerckhoven) e promotore di un’accademia dell’animazione a Gent, la prima del vecchio continente: da quel laboratorio, sarebbero scaturite le sue creazioni più incredibili e allievi che divennero professionisti di alto livello.

Il segno principale di Servais è il disconoscimento di un solo genere, l’evoluzione costante (avanguardistica) nella tecnica, mai disgiunta però al significato dell’opera stessa.
Nel suo caso il tempo, a dispetto della confusione odierna, è stato rivelatorio: i suoi lavori conservano un’originalità e una modernità intrinseca.
Anche la tecnologia contemporanea è venuta incontro a questo tipo di creatività.
Una piattaforma multimediale come You Tube sembra il contesto ideale per i cortometraggi: malgrado i clic sui suoi film siano infinitamente inferiori rispetto alle morbosità trash proposte dalla rete, l’opportunità di ammirarlo con un pc o un telefono resta un privilegio dell’era informatica.

Chromophobia” è essenziale per introdurci al suo metodo in perenne mutazione; graficamente è un’anticipazione (1965..) dei videogiochi, liricamente è un inno alla libertà e alla fantasia.
Descrivere “Sirene” è impresa impossibile: condensa in nove minuti e mezzo una metafora dolorosa e soave, che coniuga magia e crudeltà, anarchia e oppressione.
Con “Goldframe” l’artista virò verso un divertissement pop, beffardo e ironico; all’insegna di una forma libera da qualsiasi canovaccio (free jazz..), introdusse i dialoghi e un ritmo molto americano.

Ogni passo è un’ideazione progressiva, con la capacità di portare più in là il limite della ricerca.
Operation X-70“, claustrofobico, surreale (“Please Sir, I can’t shoot angels!”), baconiano, pare uscito da un romanzo distopico di uno degli apocalittici del Novecento.
Il mondo dei vinti è invece raffigurato con il tratto espressionista di un Constant Permeke nella parabola di “Pegasus”, che narra l’alienazione di un vecchio di fronte alla morte della cultura contadina.

“La Notte Dei Cartoni”, quella volta su Italia Uno, ci introdusse allo Stregone con “Harpya“: come un René Magritte in acido, un disturbante teatro degli orrori, premiato con la Palma d’Oro a Cannes.
L’atmosfera da incubo, minacciosa, fu ottenuta con un procedimento originalissimo (mai più ripetuto così) che mescolava le immagini degli attori alle animazioni.


I cambiamenti continui sembrano cancellare metodicamente le certezze acquisite nel passato.
Come affermò un critico cinematografico: “Potremmo dire che ogni film di Servais non è solamente anti-Disney, ma anche contro se stesso nel suo rifiuto di ripetersi.”
Proprio in questa ottica dopo il lungometraggio “Taxandria”, un esperimento che ebbe tempi lunghissimi di lavorazione (quattordici anni!) e responsi contrastanti, il Mago di Ostenda approfondì lo studio della Servaisgraphy con l’incantevole “Papillons de nuit“.
Ricreò i dipinti di un altro grandissimo delle Fiandre, Paul Delvaux, in un insieme orgiastico di colori sospesi.

Il bianco e nero poi, a confermarne l’essenza camaleontica, fu la nuova avventura.
Il suo esordio con il computer riverbera anche nel nuovo secolo un mantra imprescindibile dell’arte di Servais: si appropria dell’era digitale, come qualsiasi altra rivoluzione stilistica, scavalcandone i limiti e personalizzandola fino alle conseguenze più estreme.
L’immaginazione, innanzitutto.


Atraksion” (2001), realizzato missando il live action alle scenografie disegnate, è criptico, visionario, inafferrabile ed è l’ennesima eredità regalata da un genio.
A cui fu chiesto un frammento per “Fuyo no hi”, lavoro collettivo nipponico (assemblato da Kihachiro Kawamoto) comprendente altri trentaquattro autori.
Il gesto fu un omaggio, l’ennesimo, al più grande artigiano dell’animazione europea.
Buona visione.

Pubblicato il 3 settembre 2010 da Indiscreto