THE GREATEST ROCK’N’ROLL BAND EVER

“A wop bop a loo bop a lop bam boom”.
Little Richard “Tutti frutti” (1955)

A grande richiesta, per mettere i puntini sulle i, celebriamo la grandezza intonsa di un piccolo film che ha generato un culto intelligente: mica i Legionari di Cristo, il Grande Oriente o il Real Madrid.
Ai tempi ne intercettammo una recensione, notevole, sull’incasinatissimo Tuttifrutti: quello anche dello Scrondo e di Fabrizio Ialongo, il detective col dittongo.
Quando arrivò al cinema, nel 1984, in America, ebbe poco successo.
Forse perchè si tratta, ancor di più dello “Zelig” di Woody Allen, del primo mockumentary nella storia del cinema.
“This is Spinal Tap” racconta vita, morte e miracoli di un combo di veterani britannici del rock’n’roll.
Mestieranti passati attraverso innumerevoli ere geologiche del genere che sprofondano, piano piano, verso il declino irreversibile della loro carriera.
La storia, in quanto totalmente falsa, ha vette di veridicità assoluta: i tre attori principali, bravissimi (anche a improvvisare sul set..), sono americani ma sfoderano un ineccepibile accento inglese.
Il regista (Rob Reiner) è geniale nel mescolare e confondere linguaggio ed estetica del lungometraggio.

Chirurgico nel ritrarre la cialtronaggine non solo del rock ma di qualsiasi ambiente artistico che, istituzionalizzandosi, diventa (va) sistema, ha quasi una funzione terapeutica nel ridicolizzare la liturgia.
E’ una sfilata preziosa dei luoghi comuni di un rito, nato per scuotere e spaventare le (in) coscienze, ma trasformatosi progressivamente in una parodia.
Si parteggia romanticamente per la band, tragicomica nel rappresentare il vaso di coccio in mezzo ai tanti di ferro.
Il manager despota e ladro, le angherie della casa discografica e la falsità conclamata, evidente, nel rapporto tra musicisti mediato, dopo la purezza degli esordi, unicamente dal fattore economico.

Alcune sequenze, indimenticabili, sono micidiali.
Per non rovinarvi la fruizione ne accenniamo un paio: l’irripetibile saga di “Stonehenge” (“..We’ll go back in time to that mystic land, where the dew drops cry and the cats meow..”) e il frammento Buster Keaton con il gruppo che si perde nel retropalco.
“Hello Cleveland!”
Una risata disseppellisce tutti i luoghi comuni: il maledettismo, i batteristi che muoiono come mosche (soffocati dal vomito di un altro..), le frasi fatte e gli strafatti.
I tre protagonisti della vicenda, poetici, sono gli unici che, malgrado tutto, continuano a crederci.
Ma al termine del viaggio, invece che Caronte o uno scioglimento inglorioso, li attende una reunion trionfale in Giappone.

I Tap ammazzano sul serio gli idoli e lo fanno utilizzando l’immaginario e le paccottaglie della musica pop “bianca” più pura, il blues dei figli del ceto medio e dei poveracci, ovvero l’heavy metal.
Che si presta magnificamente perchè sempre in bilico tra il sublime e il ridicolo; sottoprodotto autentico della cultura giovanile, rifferama che privilegia la fisicità e l’istinto al pensiero e al cosiddetto impegno sociale.
Trattasi infatti, al pari dell’altra realtà brutta, sporca e cattiva (la black music), dell’universo meno ipocrita: trovate più ridicoli un gruppaccio norvegese di metallo estremo che inneggia a Satana o gli U2?

L’umorismo sofisticato di Christopher Guest e soci, maniacale nel seminare riferimenti agli eroi degli anni Settanta, riporta il rock alla sua dimensione più vera, quella cazzara e infantile.
Perchè, come affermò Brian May in un’intervista, il rock’n’roll è il tentativo più riuscito di prolungare all’infinito l’adolescenza delle persone.
A metà tra i Monty Python e il situazionismo in quattro quarti, gli Spinal Tap hanno mostrato la via: le citazioni in questi anni si sono sprecate, e moltiplicate, al pari delle leggende metropolitane che ricostruiscono gli ispiratori degli sketch più gustosi.

In Gran Bretagna, la retroazione (magica) furono i Bad News: la versione brit e slapstick, uno dei progetti della cricca di The Young Ones, dei fuoriclasse Rik Mayall e Adrian Edmonson.
Arrivarono ad esibirsi a Donington, nel 1986, sul palco del festival più famoso e brutale di tutti, tra il lancio di una testa di maiale e una pioggia di sputi.
Una segnalazione doverosa è a “Fear of a black hat”, corrispettivo hip hop del documentario di Marty DiBergi (sigh).
Ma loro, The Big Three, rimangono inarrivabili: si sono pure riformati temporaneamente (?) scrivendo anthem deliziosi (come “The majesty of rock”), hanno dato vita a un tour mastodontico di una sola data e sono apparsi, non a Madonna, ma al gruppone di rockstar che a Wembley celebrò il Freddie Mercury Tribute e a Bart Simpson.
Aiutati dall’amplificazione generosa, che si spinge fino a 11, e da un talento adamantino.
Solo l’invidia (dei pacchi in evidenza?) nega la presenza di “Smell the glove”, la cui copertina fu plagiata dall’ensemble più cinico e intelligente (e importante) del metal anni Ottanta, nelle liste – di Rolling Stone, Pitchfork e Donna Moderna – dei 50 album fondamentali del rock.
Per celebrare i quarant’anni di “This is Spinal Tap”, Rob Reiner ha minacciato (promesso) un sequel che dovrebbe essere una caricatura di “The last waltz”..

“People often ask if I’ve seen the film.. I always reply, ‘Seen it? I’ve lived it’..”
“La gente spesso mi chiede se ho visto il film.. Gli rispondo sempre, ‘Visto? L’ho vissuto..”
(Geezer Butler)

Remix di un pezzo per Indiscreto del 4 agosto 2011