RIASSUNTO DI UNA STAGIONE VISSUTA PERICOLOSAMENTE

Pallini giordaniani, a macchie, per chiudere una stagione di palla con estro vissuta pericolosamente.

America ed Europa.

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Finisce tutto in una gara5 giocata col pallone medico, e i 1600 metri d’altitudine non c’azzeccano, che pareva ambientata nel 2003.

Arbitrata maluccio, allenata benissimo (soprattutto dalla panca dei perdenti), disputata a un’intensità oltraggiosa (..) rispetto all’AAU basketball d’inizio stagione.

NBA 2023 che frega quasi tutti gli stereotipi (meritati) sull’NBA stessa.

La regular season non conta, ma Denver va al suo primo anello dopo aver comandato l’Ovest da novembre.

Nell’era delle spaziature di tiro esagerate, del Wilson egemonizzato dalle guardie, dei team costruiti su due-tre All NBA e la loro plebe, si impone la motionball dei Nuggets, guidata da un centro play in un combo edificato – piano piano – coi pick e le firme dei veterani.

Nulla di ciò che è avvenuto, tra il Colorado e la Florida, ci è parso casuale.

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Denver è la prima franchigia occidentale a vincere un anello, dal 1979 (i Seattle SuperSonics di Dennis Johnson, Gus Williams e Jack Sikma), fuori dalla California e dal Texas.

E’ la seconda realtà ABA a issare il bandierone, dopo gli Spurs, che nel confronto spuntano sempre.

Mancano all’appello ancora i Pacers e i Nets.

Non ridete quando leggete Nets, una sit-com irresistibile che ci si chiami Americans, che si giochi in una ex palude del New Jersey o nella sciccosa arena di Brooklyn.

Scrivono di 46 anni prima di vincere il titolo, ma sarebbero 55 considerando i Denver Rockets delle origini, quelli di Larry Jones.

Scorer, tiratore puro, che un anno fece una striscia di 23 partite consecutive di 30 o più punti.

Che poi, per essere spietati, da quando arrivarono a Denver (nell’estate 1974), per almeno un anello sarebbe bastato un David Thompson non dedito alla cocaina..

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Nel 2020 scrivemmo, per il Dizionario NBA 2021, una scheda (molto) esplicativa delle doti di Nikola Jokic.

Bastava osservarlo (bene): Nikolone era già tanto (troppo per gli altri).

“Nipotino postmoderno del leggendario Cresimir Cosic, Jokic è della Voivodina. Pigro, grassoccio, indolente (almeno un paio di stereotipi sugli slavi li dobbiamo scrivere per contratto..) e dominante fin dagli esordi – poppante – col KK Mega Basket. A vent’anni, già MVP della Lega Adriatica (2015) e prospetto “international” NBA, scelto dai Nuggets nel draft 2014 col pick 41. Col senno di oggi, una magata.

Dall’esordio (2015/16), il serbo è cresciuto esponenzialmente diventando – nel 2020 – uno dei big man di riferimento ai massimi livelli. Forse solo Anthony Davis, da quelle parti (e ancora più continuo). 2 e 14, sui 130 chili (dimagrito), il Joker contende a LeBron James, mica pizza e fichi, la palma di playmaker sovradimensionato più forte dell’universo..Qualche pausa di concentrazione qua e là, difensivamente – sui pick and roll alti – un cerbiatto in autostrada, meglio negli ultimi metri sotto il ferro. Tende pure a commettere ancora falli inutili.

Esauriti i difetti, persa anche un po’ della ciccia, illustriamo i pregi di questo All-NBA naturale. Ballhandler, per essere un sette piedi, clamoroso. Con l’ingombro volumetrico può sgaiattolare a canestro, dove può concludere (ambidestro) di gancio. Le mani da Horowitz ne fanno pure un tiratore affidabile, con un rilascio soffice, col j (senza saltare..): a volte forza, piacione, da tre ma negli ultimi playoffs era al 42.9 per cento e dunque non era fermabile.

Poiché, offensivamente, con la faccia da schiaffi di quelli che performano meglio nel clutch, ha nella gerla una specie di frontale (sul piede sbagliato, scendendo..) che bacia la retina. Vede (e provvede) a 360 gradi la palla con estro: trova, col timing giusto, chi taglia, i tiratori dal lato debole, crea e inventa assist no look o consegnati. Quando giocherella in post alto, tenendo la palla altissima a una mano (come un domatore al circo), che regali due punti facili a un compagno o che arretri segnando una tripla, pare l’ologramma di Arvydas Sabonis.

I suoi giochi a due con quel talentaccio di Jamal Murray (forte forte..) promettono una frequentazione decennale di Denver nella Western delle portaerei. A 25 anni, se stringe la cinghia (sigh) e lima qualche vuoto d’ispirazione, Jokic ha il cielo come limite. D’altronde, i Nuggets stanno più in quota rispetto a tutti le altre franchigie..”

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Chi verga che Jokic è qualcosa di mai visto, non conosce la pallacanestro.Il giocatore di massima qualità (offensiva) dell’NBA odierna è un’evoluzione della point-center.

Una figura inventata, alla fine degli anni Cinquanta, dal povero Maurice Stokes.

Il serbo, che controlla i Nuggets e Silverland dal post alto, rubando il tempo alle difese e regalandolo ai taglianti, è un Bill Walton con le ossa a posto.

Quei Trail Blazers, tra il 1977 e il ’78, senza le fratture da stress del Rosso da UCLA, avrebbero aperto una (specie di) dinastia.

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Che l’NBA si farà piacere, ed è già così, l’indifferenza di Jokic per lo showbiz è nelle carte. 

Una (gioiosa) macchina da marketing permette (e assorbe) le differenze: è quel sistema, basato sull’ordoliberalismo e la creazione di guadagni (veri), che consente ai Nuggets – lassù tra le montagne – di competere – ad armi pari – con i mercati delle grandi città metropolitane.

La lega col logo di Jerry West funziona proprio perché applica principi opposti a quelli di una Champions League. 

Dove, per comperarsi una coppa con le orecchie, una famiglia emiratina ha speso, spanto, ripulito, buttato dalla finestra, più di due miliardi di euro.

Il parallelo storico, ovvio, è con i San Antonio Spurs di Tim Duncan, un altro che rifiutava le luci della ribalta, un Pete Sampras che tirava alla tabella e difendeva come Naismith comanda.

Il nucleo base è giovane e sta arrivando all’apogeo. 

Jokic ha 28 anni, Jamal Murray 26, Aaron Gordon 27, Michael Porter Jr. 24, e sono tutti sotto contratto.  

Il ciclo è appena cominciato.

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La chiave del passo decisivo, quello più importante, è – come d’abitudine in questo gioco – il cosiddetto secondo violino.

Murray, prima di sbranarsi il ginocchio sinistro (nell’aprile ’21), a Orlando, nella bolla, era l’uomo delle sfuriate offensive, dei quarantelli nella post season.

Il ritorno alla piena efficienza ce lo ha consegnato più combo guard: il palleggio, arresto e tiro, l’uno contro uno è (quasi) lo stesso, il playmaking, la lettura nei giochi a due, è diventato di lignaggio assoluto.

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Ingiusto che nel clutch della decisiva gara5, a 24 secondi dalla sirena e coi Nuggets in acido lattico, a perdere palla (banalmente) sia stato Jimmy Butler.

Giusto che le giocate chiave, sugli intangibles, i canestri (trovati nella spazzatura), siano state di Bruce Brown e Kentavious Caldwell-Pope.

Tecnicamente, tra Nuggets e Heat non c’era mai stata corsa: gara4 il manifesto programmatico.

Denver (più alta, grossa e profonda) fa sempre meglio la sua specialità: i tagli, veloci, dal lato debole.

In difesa, clamoroso al Cibali, si applicano persino Jokic e Murray.

Gordon, il terzo uomo, non ha bisogno di farlo: può marcare due o tre razze di avversari, con atletismo e mestiere. 

Di là pare disegnato nei sogni di Mike Malone, per giocare nelle pieghe dei pick and roll Jokic-Murray.

Nell’ultimo quarto, i Nuggets la vincono con Nikola (5 falli) in panca.

Murray (12 assist) con Caldwell-Pope e Gordon (più Brown): 5 minuti che (s) finiscono Miami e la serie.

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Gara2 al TD Garden, finali orientali, con la Gang Green sotto 0 a 1.

I Boston Celtics, quando vanno in ritmo, sono il miglior combo della lega: lo erano (di più) anche la stagione precedente.

Coi cinque fuori e la palla che prende energia dai cambi di lato, Jayson Tatum è quasi inarrestabile. Mancano drammaticamente di un playmaker. 

Non di una point-guard, che palleggia, ma di un facilitatore che legga e sfrutti l’inerzia del match. 

Miami ingigantisce il difetto tattico dei C’s.

I verdi deragliano davanti a una zona 2-1-2, con Butler e Bam Adebayo che si mangiano i Celtics.       

Erik Spoelstra è il numero uno, insegna strategia pure al collega Joe Mazzulla.

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Nessuno nell’NBA contemporanea ha la capacità di stare nella partita dei Miami Heat. 

Butler, da Disneyworld in piena pandemia virale, è il 2-way per eccellenza dell’NBA.

E un go to guy, nel momentum, senza eguali poiché abita la mezza distanza, in isolamento, creando mismatch e spazi per i compagni.

Lui e Adebayo, difensore di lusso, regista dalla punta, indicano la via.

Che è rileyiana, per chiunque firmi un contratto con gli Heat, dal 1995.

Da quando i Knicks, non dando i poteri assoluti a Pat Riley, si condannarono ad libitum ai filmati di Clyde Frazier e Willis Reed.

La cultura degli Heat è quella che scova, dal marciapiede, gli undrafted Max Strus, Caleb Martin, Gabe Vincent e Duncan Robinson.

Sceglie Adebayo con la 14, corteggia e convince Jimmy Buckets mentre Philadelphia punta su Ben Simmons (sigh).

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11 maggio, Los Angeles.

Dovevano finire così, per forza, una dinastia e un’era.

Con un abbraccio, in mezzo a cento telecamere, tra LeBron James e Stephen Curry.

Le icone di questa NBA, post Kobe Bryant, quasi al termine.

Il giocatore più forte (della sua generazione e non solo) e quello che ha cambiato il gioco per sempre.

La prima serie occidentale persa da coach Steve Kerr, l’ennesima statistica che sottolinea la grandezza dell’epoca degli Splash Brothers, arriva coi Lakers della piovra Anthony Davis (i suoi otto voti raccolti nell’All Defensive Team raccontano molto delle talpe che decidono i premi..) e del vecchio Re.

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Il Curry di questo triennio ha toccato il suo zenit.  

MVP romantico della regular 2023, i 50 punti nella gara7 del primo turno (al calor bianco) contro i Kings, un’interpretazione da primattore dello spacing, del clutch, della creatività dal palleggio e dell’intelligenza lontano dalla palla. 

Un genio – analisi e istinto – della palla con estro.

Peccato per il 30 che, al declino naturale del gruppo storico (Klay Thompson, Draymond Green, Andre Iguodala), sia corrisposta un’involuzione (agonistica e tecnica) dei pick più pregiati – i ricambi – scelti da Bob Myers.

La (parziale) delusione di un Jonathan Kuminga viene messa in ombra dalle performance calanti di Jordan Poole.

Un ’23 partito con un pugno dell’orso ballerino, un quadriennale (ingombrante) da 150 milioni di dollari e la sparizione dai radar, progressiva, nei playoffs.

I saluti di Myers, l’arrivo di Mike Dunleavy Jr. come general manager, lo scambio insalata russa (..) a Washington per la calata del maestro venerabile Chris Paul.

Ogni cosa, a San Francisco, fatta per coprire un rumore fastidioso: quello della sabbia nella clessidra rovesciata a testa in giù, col tempo che scorre inesorabile.

Game over?

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A El Ei, quella nobiliare con le maglie di West e Kareem Abdul-Jabbar, Wilt Chamberlain e Magic Johnson che penzolano dal soffitto, una stagione folle, degna di un blockbuster.

A gennaio, era “Titanic” del buon James Cameron. Poi Bob Pelinka ha fatto una mandrakata, sfoltendo il roster.

I Lakers, partiti 2-8 e fuori dalla griglia dei play-in (!) fino all’All Star Game (tredicesimi a Ovest alla trade deadline), si sono trasformati in un combo difensivo.

Se Davis è in salute, pochi spostano quanto lui, James collante si è rivelato un plus niente male.

A 38 anni e mezzo, a quelle altezze (con quel chilometraggio) Abdul-Jabbar, Duncan e basta.                Per quelli che LeBron “è solo un corpo bionico”, una fesseria cosmica al pari di Curry “grande tiratore e basta”, consigliamo l’ultima rimessa Dubs di gara3.

Quando il 6 gialloviola ha letto, con 3-4 secondi d’anticipo, lo schema hammer di Golden State per una tripla di Thompson.

Un QI cestistico degno di quell’esoscheletro da freak.

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Il Prescelto ha condannato i suoi concorrenti generazionali a imitarlo (male).

L’autogestione perenne, della squadra (chiavi in tasca dello spogliatoio, della palestra e degli uffici), ha rappresentato la fregatura altrui: i Chris Paul, James Harden, Carmelo Anthony, ecc. 

Per quelli cresciuti con il “Be like Mike” a mo’ di potere teocratico, James è una maledizione perché (è stato) l’unico a poterselo permettere.

Quarant’anni fa, a Phoenix, un All Star all’apice della carriera, uno dei migliori team player sulla scena, Dennis Johnson, venne definito “un cancro” dal suo allenatore, il santone John MacLeod.

DJ, via da Phoenix, grazie a Red Auerbach, avrebbe rinnovato la sua carriera da vincente, Kevin Durant – con l’ossessione di James – in Arizona potrebbe distruggere la terza squadra, dopo i Thunder e i Nets.

Un’eredità nero pece, per l’attaccante più devastante dell’evo LeBron.

Adesso giunge, dalla capitale, Bradley Beal: la spada di Damocle di vincere, subito, è già nei titoli del film Suns 2024.

L’orologio corre veloce (troppo) anche per KD.

Il successo di due organizzazioni basate sullo scouting e il lavoro collettivo, indica il futuro prossimo, con un CBA nuovo di zecca alle porte.

Il problema mediatico, gigantesco per un macchinario (favoloso) d’immagine come l’NBA, è evidente. 

Nessuna delle star giovani, gli international Jokic e Luka Doncic, il bravo ragazzo Jayson Tatum, il bad boy Ja Morant, l’evanescente Zion Williamson, sembrano possedere il fascino e la personalità di Steph (35 anni) e LeBron.

I due nati nello stesso ospedale di Akron.

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19 maggio, Kaunas. 

Final Four di Eurolega nel luogo, la Lituania, più devoto alla pallacanestro. 

L’Olimpiacos di Sasha Vezenkov, Moustapha Fall, Kostas Sloukas è da un paio d’anni la migliore squadra d’euroclub.

Contro Monaco, andamento lento nel primo tempo, poi un terzo quarto di applicazione feroce, difesa e attacco.

Spazzano via 27-2 i “bavaresi”, 1 su 14 dal campo e 5 infrazioni dei 24 secondi, sbagliando appena due tiri in 10 minuti.

La sera, il clasico propone invece l’ennesima dimostrazione (pratica) del madridismo.

Brutti, sporchi, cattivi e vincenti. 

Dopo il ratto della serie col Partizan, bastano i vegliardi (il solito Sergio Rodriguez), un Mario Hezonia meno discontinuo e il totem Walter Tavares a condannare il Barca.

Dal 1958 farebbero 27 finali continentali (includendo pure quelle delle coppe estinte). 

Che noia, che barba.

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La finalissima non poteva che concludersi così.

Una remontada sul clacson dei 40 minuti, a 3 secondi dalla fine, con un canestro di Sergio Llull fin lì 0 su 1.

Proprio chi – con un fallaccio – generò la maxirissa di gara2 al WiZink Center, bastonati in casa (sotto di 15) dal Partizan di Zelimir Obradovic.

Era nell’aria, vedendo il match, come l’odore di carne bruciata e puzzolente di un barbecue sul balcone.

Malgrado i 29 di un Vezenkov dominante, le triple sbarazzine di Isiah Canaan e un controllo (relativo) della contesa dei rossi del Pireo. 

Vamos.

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Dall’introduzione del nuovo formato dell’Eurolega, autunno 2016, nessuna capintesta del girone all’italiana ha poi vinto il titolo.

Zero su sei.

La stagione regolare dell’eurobasket è (molto) più sopravvalutata di quella NBA.


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L’estate ’23 di Sasha Vezenkov definirà il resto della sua carriera. 

Le voci di Radio Atene lo danno a un passo dal biglietto, d’andata, verso la California e Sacramento. L’MVP dell’EuroLeague 2023 è un combinato disposto del basket (post) moderno. 

Un’alona con il dinamismo di una guardia, un realizzatore che non ha bisogno del palleggio per entrare in ritmo, un terminale offensivo che sta dentro il flusso generato (dai passaggi e dai movimenti).

Ai Kings, magari da sesto uomo di lusso, troverebbe lo stile tattico ideale, di Mike Brown, e compagni adatti (De’Aaron Fox, Domantas Sabonis, Keegan Murray) ai suoi pattern.  Saremmo curiosi di vederlo, il bulgaro (un piccolo Klay Thompson), in una squadra in ascesa come Sacto.

Se non accadesse, la maledetta (..) Eurolega da vincere, in maglia Olimpiacos, diventerebbe il suo obiettivo.

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Nella scelta numero 41 dei Denver Nuggets, al draft 2014, ci sono la giustizia e l’irrazionalità del metodo NBA.

Nikola Jokic fu chiamato durante la pubblicità, della Taco Bell, e non c’era: stava a casa e dormiva. L’episodio, immaginiamo le discussioni manageriali sull’Oliver Miller (..) da Sombor, è anche l’ennesimo episodio che testimonia l’illeggibilità di questo basket.

Così radicale, scientifico, ma alle prese con una NCAA dalle mille variabili (dai One And Done in giù), la G League, l’Europa, l’Africa.

Solo un fattore non sembra modificarsi, ovvero il culo degli Spurs.

Victor Wembanyama – le freak c’est chic – è la terza primissima scelta assoluta dei neroargento.

Gli altri due si chiamavano David Robinson, nel 1987 (esordirà due stagioni dopo), e Tim Duncan, dieci anni più tardi. Bingo.

Ora per il francese, Gregg Popovich e tutta l’organizzazione, arriva il Colle delle Finestre dal versante di Susa.

Al peso di questa attesa, corrisponde una pressione decuplicata.

Di quello che abbiamo visto, come qualsiasi bipede dotato di rete (..), Wemba è un atleta, cestista, con caratteristiche rarissime.

Un mix di taglia, agilità, velocità, coordinazione, istinto, potenziale tecnico come solo due prima di lui. 

Lew Alcindor (Kareem Abdul-Jabbar) e Ralph Sampson. Appunto, il più grande di sempre e una delusione – considerando le premesse (promesse) – galattica.

Auguri.

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Negli episodi che hanno portato l’anello a Denver, via Backa Occidentale, ci sarebbe anche il Barcellona che scartò, all’ultimo minuto, nel 2015, Jokic. Che era 19 chili fa..

I blaugrana non fecero lo stesso errore con Marc Gasol, trattenuto da un consiglio di Dejan Bodiroga che, in allenamento, vide il talento sotto la pinguedine.

Il Barca di sviste, in passato, su futuri All Star NBA, ne collezionò una ciclopica: Manu Ginobili.

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Una stagione vissuta pericolosamente, tra NBA e EuroLeague, avrà la propaggine del Mondiale in Oriente (in tre nazioni differenti) tra fine agosto e inizio settembre.

Con l’asterisco della passione (folle) delle Filippine per il basket, non comprendiamo perché esista ancora la FIBA.

Al di là delle poltrone, delle cariche da smazzare, dei soldi da far girare.

Cento volte meglio Rocky, la mascotte strapagata di Denver, che fa la pace con Charles Barkley.