6 maggio, Ortona
“Il Tempo, in Abruzzo, è l’unica dimensione incommensurabile.” (Ennio Flaiano)
Si (ri) parte dall’Abruzzo, sulle colline di Venere affacciate sulla Costa dei Trabocchi.
Un Giro, una poltrona, in teoria per due.
Tra l’esperto (ma non espertissimo, essendo arrivato tardi alla bici) Primoz Roglic – l’ex saltatore – e il bimbo prodigio Remco Evenepoel, che da quando ha abbandonato il pallone (da calcio) è atteso come un messia.
Entrambi vincitori della Vuelta, devono chiarirci qualcosa sulla (loro) terza settimana. Che in Spagna è relativa, mentre in Italia, con quella tre giorni in Triveneto, è fondamentale.
Perché i percorsi della Vuelta sono soprattutto televisivi, garagisti, mentre quelli del Giro propongono una varietà tecnica, altissima montagna, trappole qua e là, che l’esperimento iberico dell’ASO non può vantare.
Lo sloveno e il fiammingo devono anche definire il distacco col resto dell’aristocrazia di classifica (il duo Ineos Geraint Thomas e Teo Gheoghegan Hart, Joao Almeida, Aleksandr Vlasov, ecc.).
Il 2023, fino a maggio, è stato spietato: Tadej Pogacar, Mathieu van der Poel si sono sbranati i piatti più prelibati.
Dalla pedana di Fossacesia, Evenepoel sembra un alieno.
Il giorno della sua (seconda) Liegi-Bastogne-Liegi, un assolo di 30 chilometri accelerando due volte (e basta..), la mattina – alla Maratona di Londra – Kelvin Kiptum vinceva in 2 ore 1’25”.
La seconda parte, per arrivare a The Mall, il keniano la volava (dal km 35 con le ali ai piedi) in 59′ 45″.
Lo sport è dei freak. Kelvin Kiptum ha 23 anni, come Remco Evenepoel.
Che sul lungomare, su una specialissima di 8 chili, l’anteriore da 100 millimetri, pedala con un 60 a cento frequenze al minuto.
Al secondo intermedio, Roglic ha già 42 secondi di ritardo.
Il biondino chiude a 55,2 km/h, 430 watt di media. E’ un chilo sopra la Vuelta 2022, alla Soudal dicono che ne ha guadagnati due di massa magra.
Dal palco, con la maglia rosa addosso, Remco regala il mazzo di fiori alla moglie Oumi, di rosa vestita pure lei, coi jeans da ragazzina e il cappello (rosa..) da pescatore.
Le freak c’est chic.
7 maggio, San Salvo
Allo spettacolo più cruento, e adrenalinico, del ciclismo ci si fionda tra un trenino e una spallata, un buco e una frenata.
Se poi si evitassero i restringimenti stradali a 6 km dal traguardo, con una serie di cadute da film splatter, sarebbe meglio.
Allo sprint, dopo la conta di quelli rimasti in piedi e non ingarbugliati dietro, Jonathan Milan rimonta David Dekker e vince di (pre) potenza.
Il friulano è un fusto, 1 e 94, che attendiamo (con santa pazienza) da un po’. Non che non sia (già) un campione della pista, con quella bacheca di allori (è pure campione olimpico).
Ma in uno scenario tricolore, per le corse su strada, così desolante, la maglia ciclamino di Milan ci fa capire che lui e Filippo Ganna (un altro pistard doc, nella nazione che irrideva e scoraggiava l’approccio multidisciplinare..) sono (e saranno) i capintesta del movimento.
Diventerà uno dei migliori velocisti (resistenti) del suo evo, con quelle frequenze massime (120 pedalate al minuto!) da keirin.
Deve ancora imparare tempi e posizionamento nello sprint, sovente parte troppo indietro, ma il potenziale è atomico. Milan e Ganna per le vittorie di peso, tra classiche e tappe, non scorgendo – nei prossimi cinque (dieci?) anni – un tappista da Tour de France.
Quest’anno, in primavera, al Nord, è andato a scuola sui muri e il pavé. Alla Omloop Het Nieuwsblad, nel momentum, ha visto da vicino un classicomane vero, Dylan van Baarle: che lo ha seminato, senza pietà, sul Muur.
Tanto perché comprenda il lignaggio di chi vince una Parigi-Roubaix. A 22 anni, una lezione importante: Milan lo aspettiamo a Sanremo, non all’Ariston, ma in Via Roma.
14 maggio, Cesena
Fin dal Tour de Romandie, captando le frequenze di Radiocorsa (che raccontava di bronchiti e covid nel plotone), eravamo scettici sull’insufficiente cordone sanitario, di protezione, intorno ai corridori.
Il covid, che aveva selezionato la composizione delle squadre, completa l’opera a Giro in corso.
Vedere Remco Evenepoel circondato da dozzine di persone, anche giornalisti, suiveur e semplici passanti, non ci pareva una mossa astuta.
Il suo ritiro in maglia rosa, necessario (essendo le complicazioni respiratorie una realtà pericolosa: chiedete, per esempio, a Jakob Fuglsang e Sonny Colbrelli), viene gestito così così – mediaticamente – dalla squadra stessa.
Che cura un patrimonio prezioso, un’icona sportiva belga, ma dovrebbe comprendere (meglio) i meccanismi della comunicazione.
Orecchie da mercante, se il puparo della Soudal è un santone (padre padrone, grillo parlante) come Patrick Lefevere.
Evenepoel, oltre il motorone e l’entusiasmo che produce, non poteva vincere questo Giro: i denti da latte, nelle pieghe della sfida, erano evidenti.
Dovrà forse affrontare l’esame Tour, l’anno prossimo, senza aver compreso appieno la sua adattabilità all’altitudine (e alla terza settimana).
Nel 2022, a Sierra Nevada (2510 metri sopra il livello del mare), le prese dai migliori; Campo Imperatore, quest’anno, non vale.
Due asterischi.
Si bisbiglia di un milione di euro, nulla di scandaloso (è la regola da eoni..), al campione del mondo per correre il pacchetto della gare RCS Sport.
Noi, la prossima volta, li investiremmo sui due Van: Mathieu e Wout.
Il covid è invece scomparso nel calcio, nel tennis, nel basket.
Le fiction di successo hanno altre regole.
16 maggio, Scandiano
Il Giro parte sotto un coperchio grigio e nero, a due passi da Reggio Emilia, verso l’Appennino.
Salendo e scendendo il Passo della Radici, per arrivare a Viareggio, la pioggia cade a secchiate.
Dopo l’alluvione del 2 maggio, guardando le previsioni meteo e le facce dei ciclisti, comprendiamo l’aria (orribile) che tira sull’Emilia-Romagna.
I morti, gli sfollati, le frane, gli allagamenti, il caos, il fango dei giorni successivi.
E’ un film già visto, il cielo che ci sta cadendo in testa, e che dagli anni Novanta si replica sempre più spesso.
Uno sport come il ciclismo esibisce in diretta il cambiamento climatico e le sue retroazioni, a volte immediate e violentissime.
Ne abbiamo le tasche piene, dopo decenni di prove scientifiche inconfutabili, di dossier, di chi (con una strategia speculare ai Qanon, sputnik, infowars che hanno avvelenato i pozzi) continua a mandare in malora un dibattito, mediatico (pubblico), intelligente.
A chi nega l’evidenza, ai terrapiattisti dell’Antropocene, dovrebbe essere negata la ribalta. Inutile sottolineare che, sui media generalisti e non, è accaduto l’esatto opposto.
Vieni avanti Malan.
19 maggio, Le Chable
Quer pasticciaccio brutto del Gran San Bernardo accende le polemiche (che erano là, nella valigia piena).
Un Giro che, nelle prime due settimane, sembra la copia carbone di quello (infernale) del 1995: pioggia e temperature invernali, ogni maledetto giorno.
La borsa del freddo, tra febbroni e cadute, diventa importante quanto la performance atletica.
A noi la sindacalizzazione dei ciclisti pare cosa buona e giusta. Rimpiangere il Bondone (1956) o il Gavia (1988) è da ignoranti: della storia e dell’evoluzione di uno sport massacrante e pericoloso.
Il mestiere, oggi, è un po’ meno ricattabile.
Ci si è arrivati, a procedure meno sadiche, sulla pelle dei corridori, nello scorrere dei decenni.
Nel 1954, proprio in Svizzera, per soldi, ci fu lo sciopero del Bernina. Nel 1978, al Tour, contro i trasferimenti fiume e il regime da caserma, a Valence d’Agen il gruppo sfilò a piedi.
Nel 1988, dopo la tregenda del Passo Gavia, mezzo plotone si fermò sul Rombo, mentre i crumiri (la Panasonic di Peter Post) attaccarono.
Gli opinionisti da bar sport, a vomitare insulti sui girini, sono un contorno cretino del bestiario.
Ci indignano invece gli ex, che propongono un amarcord alterando la realtà di quel ciclismo.
Risposta indiretta migliore, quella di Geraint Thomas: in inglese, suona meglio.
“A lot of other things happened in the 80’s and 90’s that we don’t do. Now as well which we’re proud of.”
Gli agonisti da divano si radunano tutti gli anni al Giro. Si lamentano del Giro, annunciano la morte del ciclismo (purtroppo non la loro) e si producono in una serie sgrammaticata di leggende metropolitane sul ciclismo del passato (prossimo e remoto).
Il semianalfabetismo di ritorno, di questi guitti, che si raccontano storie inventate o verosimili, è un segno ridicolo dei tempi. Gli agonisti da divano si ripresenteranno, come nulla fosse accaduto, al Giro 2024.
23 maggio, Monte Bondone
La storia del ciclismo racconta di gambe legnose, il giorno dopo l’ultimo riposo.
La 16^ tappa Sabbio Chiese-Monte Bondone pare disegnata per un agguato (finale) e qualche sorpresa.
203 chilometri, 5200 metri di dislivello attraverso il Bresciano e il Trentino. Il traguardo sul Bondone, l’Alpe d’Huez d’Italia.
Senza scomodare Charly Gaul, che il Giro lassù lo vinse (nella tormenta di neve, 1956) e lo perse (per una sosta pipì, 1957). Stavolta si sale dall’altra strada, quella che ai tempi di Eddy Merckx e Felice Gimondi (nel 1973, primo e secondo nella Verona-Andalo) era ancora sterrata, con un segmento tosto (8300 metri, da Garniga a Viote, all’8,2 per cento di pendenza con una punta al 15).
La fuga fuori classifica, malgrado la prima ora ai 50, non prende troppo vantaggio. La Jumbo-Visma, nel canalone dopo Andalo, mena per Primoz Roglic.
Dopo sei chilometri macinati da Rohan Dennis, un bel treno, accadono cose impreviste: Koen Bouwman, il penultimo staffettista dei calabroni, fora le gambe (sigh) e l’UAE Emirates attacca il tratto decisivo a tutta.
Prima Joao Almeida, poi Geraint Thomas, lasciano lì un Roglic pallido, salvato dal metronomo americano Sepp Kuss.
Sotto una pioggerella, e la calura estiva, il Giro rivela la sua sceneggiatura. Primo Almeida, secondo Mister G (di nuovo in maglia rosa), terzo (staccato il giusto, a 25 secondi) un Roglic con la spia rossa accesa.
Abbiamo i tre che si giocheranno l’onore della premiazione, a Roma, del Presidente Sergio Mattarella.
Gli altri sembrano non dispersi, ma di una o due categorie inferiori: il Bondone, al pari di altri monti (storici), stabilisce le gerarchie.
In un tappone da più di 6000 calorie, di quelli con Strava pubblico, Thymen Arensman (granatiere Ineos) ha prodotto 394 watt in quasi 53 minuti di rilevazione.
Tradotto: erano a manetta.
26 maggio, Cortina
Il prologo a Milano-Cortina 2026, per adesso, è un disastro organizzativo.
La vicenda dell’Ice Rink di Baselga di Piné è solo l’esempio migliore (..) dell’approssimazione che circonda i Giochi Olimpici invernali.
Come testimoniato da Max Ambesi, a Lampugnano e a Rogoredo, laddove dovrebbero sorgere strutture, non esistono cantieri.
L’impressione è che l’eco con questo governo improbabile, propagandistico, sarà devastante.
Milano-Cortina 2026 potrebbe diventare una formidabile cartolina di un paese, nel bel mezzo del suo declino economico e culturale.
26 maggio, Tre Cime di Lavaredo
Quassù, nel 1968, cominciò il Merckxismo con l’impresa più incredibile di Eddy. E nel 1974, in una delle tappe più belle mai disputate, si completò: a dispetto di Gibì Baronchelli e José Manuel Fuente.
Tre gpm su cinque, col Passo di Valparola (il Falzarego bis) e il Giau, sopra i 2000 metri.
Fanno 120 grammi l’ora di carboidrati: una borraccia piena, 90 grammi di maltodestrine sciolte, una torta di riso (o un gel o una banana). I cibi solidi, nella frenesia della gara, sono difficili da assorbire al momento giusto.
Il Giau percorso, dal gruppetto dei leader, in 36 minuti, indica la stanchezza e la paura. A Cortina, Roglic cambia bici.
Salta su una monocorona, davanti (un 40), sulla ruota posteriore rapporti esagerati (il pacchetto pignone, un 10-44 da gravel) più pedivelle da 165 millimetri.
Amarcord, Giovanni Battaglin andò in rosa (1981, fece doppietta con la Vuelta primaverile) sulle Tre Cime, vincitore parziale quel monello di Beat Breu, montando sulla Pinarello una tripla allora inedita.
Sul Tre Croci, come la nuvola di Fantozzi, un quarto d’ora di acquazzone (estivo).
Nella fuga di giornata, Santiago Buitrago (una mezza delusione il suo Giro, per la classifica..) sorpassa a 1500 metri dalla fettuccia bianca il sorprendente Derek Gee, un pistard che ha scoperto di andar forte in salita e che sogna la Roubaix, al quarto secondo posto di questo Giro.
I migliori, nel bordello della folla, si testano nei quattro chilometri conclusivi d’agonia. Per capire quanto vadano forte: il Vincenzo Nibali 2013, nella bufera, beccherebbe 1’08” da Rogla (e 1’05” da Thomas) negli ultimi 7 km.
Roglic dunque prende 3 secondi a Mister G, che mantiene 26 secondi sullo sloveno nella generale, mentre Almeida rimbalza a un minutino (59″) dal gallese.
Come previsto, la sentenza definitiva sul Monte Lussari.
27 maggio, Monte Lussari
Il mostriciattolo è in un angolo sperduto del Friuli, a un passo dalla Slovenia (il diavolo sta nei dettagli), e si chiama Monte Lussari.
Arriva, da Tarvisio, sulla ciclovia, dopo 11 chilometri di falsopiano: sono 4950 metri, prima dell’epilogo, di stradina col fondo (ecologico) in cemento, simil muro.
Un sentiero per capre, in mezzo al bosco, al 15 per cento di media e drittoni al 22, che non consente nemmeno il passaggio delle ammiraglie.
Che si decida il Giro in questa maniera, con un’idea di ciclismo così estrema, ci fa abbastanza specie ma incassiamo: la chiamiamo vueltizzazione.
Là dalla chiesetta dei tre popoli, che fu anche colpita da un fulmine e poi bombardata, i girini appaiono alla Madonna col Bambino.
Un esercizio così particolare richiede il pit stop del mezzo, ai meno 9 dal traguardo. Alla Ineos, prima parte con la bici da crono (usando il 60 x 11-30), seconda con una speciale quasi rampichino (34 x 34 lo sviluppo minore).
Con la lingua sul manubrio, e gli indiani a incitare (cinquantamila sloveni, si dice), la selezione è naturale (?).
Joao Almeida e Thymen Arensman si prenotano per la maglia rosa ’24, Damiano Caruso (classe 1987), primo azzurro, dromedario da terza settimana, si prende il quarto posto in classifica. Thibaut Pinot, maglia blu, ci e si diverte.
Roglic, nel suo elemento preferito (la rampa), inizia bene e – dalla mulattiera in cemento – incrementa.
Lo sloveno, lucido ma non troppo, cambia rapporto passando su una canalina e fotte la catena davanti: si ferma. Panico.
Quando riparte, furioso, viene spinto da un tizio in maglietta rossa. Si chiama Mitja Meznar ed era compagno di Primoz nella nazionale di salto con gli sci. Panta rei, tutto torna.
Roglic (bava al mento) viene su come in funivia, fa 44’23” (più di 25 orari di media), va a 14,68 km/h nei 7,3 km chiave, e chiude il cerchio con quel pomeriggio – infausto – a La Planche des Belles Filles, al Tour 2020.
Thomas, 37 anni, un campione, un signore, perde per 14 secondi.
Il sale copioso sui pantaloncini avvisava della (sua) fatica. Ai 2500 metri dallo striscione, dopo il problema meccanico, Rogla aveva 9 secondi su G. A 800 metri dal traguardo, lo sloveno ne ha 29. In 1700 metri, Thomas (svuotato) perde il Giro.
Il ciclismo è crudele: Mister G, il centro di gravità permanente della Rosa numero 106, nel 2017 fu travolto da una moto della Polizia all’approccio del Block Haus, nel 2020 cadde per una borraccia e si ruppe il bacino.
La Ineos smarrisce il primato l’ultimissimo pomeriggio utile, l’anno scorso c’era Richard Carapaz al posto del gallese, per la seconda edizione consecutiva.
L’idea, avendo osservato Arensman e Laurens De Plus (una locomotiva, il belga), é che l’infortunio a Teo Geoghegan Hart – scendendo la Colla di Boasi (nella Camaiore-Tortona) – abbia indirizzato l’inerzia della disputa.
Ci pareva il favorito dagli eventi, Hart, ora reduce dall’operazione (di quattro ore) per ridurre le fratture ad anca e femore.
Roglic, 33 anni e mezzo, suggella una grande carriera, imprevista o quasi, con un sabato da leone: lo scoprimmo proprio al Giro, nel 2016, nella cronometro del Chianti.
Un piccolo (..) Greg LeMond, un calcolatore, con la botta – il cambio di ritmo – sulle strade all’insù.
La funzione del Giro moderno, nell’era del dominio ASO, oltre che illustrare le bellezze (e le atrocità) del Bel Paese, un romanzo in movimento, è quella di rivelarci nomi nuovi.
Il 2023 è stato ricchissimo. Di Milan, Arensman, Almeida (Gee) abbiamo scritto. Ben Healy, un folletto, ha confermato la (notevole) campagna del Nord. Deve solo decidere cosa farà da grande: classicomane per le gare vallonate o tappista?
Un altro irlandese, Eddie Dunbar, proveniente dalla scuola Axeon Hagens Berman di Axel Merckx, 26 anni ma solo alla seconda gara da tre settimane, ci è parso – in futuro – uno da podio.
I cinque giorni in maglia rosa di Andreas Leknessund, e l’ottavo posto finale, non sono un caso. Il ventiquattrenne di Tromso, Norvegia, ex campione europeo a cronometro, under 23 e juniores, mostra margini di miglioramento (aumentasse la frequenza di pedalata in salita..) a dir poco promettenti.
Per il ciclismo tricolore, l’understatement è d’obbligo: la cazzimma di Filippo Zana e Marco Frigo, entrambi sempre nel vivo della rumba, indica talenti coltivabili.
Senza voli pindarici e titoloni.
Non fossimo italiani, si potrebbe (pianificare).
Mandi Giro, alla prossima (la 107).
“Every time I see an adult on a bicycle, I no longer despair for the future of the human race.”
“Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta, penso che per la razza umana ci sia ancora speranza.” (Herbert George Wells)