REMCO PIU’ ALEX CHE EDDY. IL TENNIS FEMMINILE NEL DESERTO. L’OLIMPIA ALLE FINAL 4, 30 ANNI DOPO. AL CALCIO TOCCA IL FONDO (E SCAVA)

Taccuino di ordinaria follia.
Quasi quanto i playoffs NBA introdotti da un prologo esaltante come il play-in tra Lakers e Warriors, LeBron James contro Steph Curry, gli uomini immagine (gemelli diversissimi, uniti dall’eccezionalità del loro
chassis) di un’epoca quasi al termine.
O le Olimpiadi più incerte (e malvolute: a Tokyo) dell’era moderna.
Evitando i refusi più duri, tipo la grafica RAI nella frazione (tostissima) del Giro sopra Rocca di Cambio, là dove osano le aquile (e gli orsi).
Nella sovraimpressione, Campo Felice diventava Campa Felice..

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Nelle campagne del Brunello, sullo sterrato che fuma polvere, la teoria del caos che comanda i Giri senza faro rivela il padrone della contesa.
Il più forte, il più atteso: Egan Bernal.
Essendo nel suo interesse, e in quello della corazzata Ineos Granadiers, setacciare una classifica ancora (troppo) corta.
Il colombiano legna la concorrenza, dopo il lavorio dei compagni (Gianni Moscon su tutti), sul Passo del Lume Spento: nomen omen.
A quattro chilometri dall’arrivo di Montalcino finiscono le speranze di tanti.
Giulio Ciccone, Marc Soler, Vincenzo Nibali..
In precedenza, avevano forato (..) le gambe Romain Bardet, Remco Evenepoel, Dan Martin, Davide Formolo, etc.
Resistono ed esistono, distanti il giusto da un Bernal extralusso, Emanuel Buchmann, Simon Yates (un po’ deludente), Damiano Caruso (33 anni, l’unico italiano da Primi Cinque..), Aleksandr Vlasov, Hugh Carthy e Tobias Foss.
Il resto è mancia e le prospettive stanno tutte nella schiena della maglia gialla 2019: se non duole a Egan, la rosa è già indossata dall’atleta giusto per Milano.

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La causa del fenomenale Remco Evenepoel la peroriamo da tempi non sospetti, ma ci sembra poco promettente – per il Capitan Futuro belga – la sua guida della bici in discesa e sulle strade bianche.
Lo osservavamo – impauriti – nelle picchiate insidiose, e bagnate dal maltempo, della (quarta tappa) Piacenza-Sestola.
Rigidissimo sul telaio, in difficoltà nella lettura delle traiettorie, a disagio nella “limatura”.
Più che Eddy Merckx, per adesso è Alex Zuelle.
Troppi continuano a ignorare l’importanza della cifra tecnica nel ciclismo.
I watt non contano quanto la conduzione di una curva (magari cieca), i tempi di frenata, il pertugio dove la scia è comoda, l’abitudine (e l’occhio) all’alta velocità.
E’ uno sport mostruosamente complesso, un mestiere mosaico, quello interpretato dal ciclista professionista.
Le categorie minori dovrebbero servire a creare la base, tecnica e tattica, non a creare ras a tavolino.
Il ciclismo, anche se ci diverte, non è un gioco, non è il calcio o il basket, è una roba maledettamente seria.
Per dirne una: Jannick Sinner, se sbaglia una volée – e le sbaglia perché difetta in alcune parti del gesto (e del posizionamento a rete) – perde un punto, forse un game o un set.
Evenepoel, o chi volete a mo’ di corrispettivo, se cicca (..) una sequenza di semicurve, poniamo l’esempio di una discesa di alta montagna, rischia di farsi molto male.
Sarebbe interessante bussare ad Aigle, alla sede dell’UCI, e chiedere lumi su questi aspetti (vitali) della professione: ma paiono più preoccupati dalle borracce gettate e dalle posizioni (estreme) sul mezzo.
Come diceva (dice) Gianni Bugno: “Vedremo.”

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La decima di Rafa Nadal al Foro Italico riporta l’ATP all’imbalsamazione degli ultimi (due o tre) lustri?
Lui e Novak Djokovic favoriti al Roland Garros, o forse gli unici con delle certezze nella gerla.
Il panorama, ingannato dalla grandezza di quei due (più uno), sta mutando: il sorteggio potrebbe regalarci un possibile inning tra l’iberico (numero 3 del main draw) e il serbo (capintesta) prima della finale.
Un tabellone spaiato complicherebbe tutto, aprendo scenari inediti: in fondo, il dinamico duo – da Monte Carlo a Roma – in alcuni frangenti ha mostrato la corda..
Djokovic, più che da Nadal, smarriva il 1000 capitolino tra venerdì e sabato, quando incrociava (le racchette) contro Stefanos Tsitsipas.
Salvato dalla pioggia nel secondo parziale, sul cordolo del balcone nel terzo: Nole vinceva su un paio di punti – al pari di Nadal contro Denis Shapovalov (che per un’ora e mezza è stato Chapeauvalov) negli ottavi – nella partita di più alto lignaggio ammirata (fin qui) nella stagione dell’argilla.
Il greco, appunto, è pronto: trattasi della pagliuzza corta, se beccata sul cammino anche dei due mammasantissima.
Quantità e qualità, fondo e tennis (più) verticalizzato, personalità e varietà di colpi.
Un altro da evitare, nel dì giusto, è il chilometrico Sasha Zverev, il più indigesto di tutti per pesantezza di palla insieme a Dominic Thiem, quest’anno (versione Batman) ahi lui nel ruolo de L’Enigmista.
Perché la forza di Rafa e Nole è superiore, ma il chilometraggio pure: e il servizio di Nadal e il diritto di Djokovic sono (due) spie del serbatoio da ultratrentenni.
Fa ridere, o spavento, pensare che questi – che oggi (tecnicamente e tatticamente) giocano meglio rispetto al passato – se opposti a sé stessi, dieci anni fa, verrebbero demoliti senza pietà.
Quattordici anni fa, la semifinale di Rafa (quasi 21 anni) con Nikolai Davidenko allo stadio del tennis (7/6 6/7 6/4).
Il maiorchino con una difesa (attivissima) e una violenza esecutiva senza pari, e la cabeza, l’ucraino nella migliore imitazione di sempre di Andreino Agassi.
Tre ore e quaranta minuti a un ritmo ancora oggi irriproducibile.
Eppure, si dovesse selezionare un incontro su terra rossa della contemporaneità, non ci sarebbe l’imperatore del mattonato (..): un’altra semi, quella parigina del 2011, tra Djokovic e Roger Federer non potrebbe essere ignorata.
Quando il re elvetico interruppe i sei mesi d’imbattibilità – 43 match vinti di fila – del despota belgradese (7/6 6/3 3/6 7/6).
Giocarono, per un po’, sulla Luna.
A rivederli: velocità di esecuzione fotonica, soprattutto quella di Roger (cento e più variazioni: un sax in assolo..), tennis orizzontale di pressione – da dietro, aprendo tutti gli angoli – ossessiva, aliena, di Djokovic.
Federer, in quel pomeriggio giocato da semidei, impedì a Nole un (quasi) sicuro Grande Slam.
Quattro anni prima, nel 2007, fu invece Nadal (in versione incassatore de luxe) a negare l’impresa al basilese (irresistibile e sprecone: non convertì 10 palle break nel set d’apertura) allo zenit assoluto, altezze John McEnroe 1984.
Più di quindici anni e sempre loro, al centro dell’universo.

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Iga Swiatek demolisce (6/0 6/0) Karolina Pliskova in un imbarazzante deja vu romano targato WTA.
La (non) finale è nella tradizione (sic) recente dell’evento.
2020  Halep-Pliskova  6/0 2/1 rit.
2019  Pliskova-Konta  6/3 6/4
2018  Svitolina-Halep  6/0 6/4
Le rivendicazioni sulla parità, sindacale e retributiva, nello sport professionistico più avanti nei diritti, cozzano con la logica dello spettacolo offerto.
Roma è un combined dal 2010, da quando – dopo una striscia di annate infelici (coi primi turni giocati nel deserto) – si decise l’accorpamento coi maschietti.
La fine del momento magico, il secondo, dall’epilogo degli anni Zero, era stato truccato – per un po’ – dal marketing procteriano (riuscitissimo) della WTA.
Concluse le Maria Sharapova, mai cominciate le Genie Bouchard, il tennis femminile sta evidenziando tutti i suoi limiti.
Malgrado tre campionesse in ascesa, Naomi Osaka (l’unica spendibile per un immaginario pop), Ashleigh Barty e la già citata Swiatek, il tracollo d’interesse del dopo Serena Williams (che è in nuce dal declino – fisiologico – della campionissima) pare senza soluzione di continuità.
Con l’aiuto (maledetto) del covid-19, i tornei perdono sponsor, date e muoiono senza essere sostituiti: non sappiamo ancora nemmeno il luogo dove sarà disputata la Billie Jean King Cup, l’ex Fed Cup.
Ci vorrebbe uno scarto, di fantasia e di coraggio: vedere delle donne giocare come ometti (scarsi), robottine, allontana l’appassionato.
Sperimentare altro, racchette meno performanti che incoraggino approcci stilistici più vari (una vecchia proposta di Martina Navratilova), forse aiuterebbe.

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Milano riannoda i fili della sua storia col 2014, quando – in gara1 dei quarti al Forum contro il Maccabi (dei miracoli) di David Blatt – l’allora banda Banchi dissipò 12 punti di vantaggio a due minuti e mezzo dalla sirena.
Quando Keith Langford, a 7 decimi dalla fine dei regolamentari, sbagliò il tiro libero della vittoria.
Nel supplementare, in pieno black out emotivo e tecnico, l’EA7 deflagrò (99-101) definitivamente.
Alle Final Four di Colonia, l’Olimpia di Ettore Messina oltre che col (favorito) Barcellona si dovrà pure confrontare coi fantasmi.
Della sua storia, gloriosa, e di quella che fu la Spaghetti League.
L’ultimissima volta meneghina – 1992 – avvenne con uno squadrone che, sulla carta, l’Eurolega poteva mangiarsela.
Nella semi, un Partizan giovane e incosciente (coi due Sasha, Djordevic e Danilovic, e Zeljko Obradovic matricola terribile della panca) evidenziò l’idiosincrasia di Mike D’Antoni per i centri (dominanti e ingombranti) come Darryl Dawkins.
Che l’altroieri quella Siena (2011), dinastia e impero del male nello stesso dispositivo, fosse al posto di Milano pare un manifesto (entropico) di ciò che è accaduto.
Il declino della Serie A, il primo e il secondo (l’A2..) campionato del vecchio continente per un quarto di secolo, non si arresta con la presenza milanese.
Eccezione, economica e progettuale, di un movimento in crisi d’identità.

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La corsa contro il tempo per trovare il prestito che assicuri all’Inter, fresca di festa, i termini per l’iscrizione alla Serie A e alla Champions League 2021/22, pare conclusa.
Steven Zhang aveva trattato con Goldman Sachs, per una cifra superiore ai 200 milioni di euro e pagare gli arretrati – o una parte.. – al personale, poi sono spuntati i canadesi di Brookfield Asset, tramite gli americani di Oaktree Capital Management, per rilevare la quota detenuta da Lion Rock.
Il profondo rosso dei campioni d’Italia è parallelo a quello degli ex, a fine ciclo, con la Juventus che – da qualche settimana – vede il confronto interno tra John Elkann e Andrea Agnelli.
La Exor, cassaforte di famiglia, vorrebbe cedere alcune quote (di minoranza) a un fondo di private equity per rifinanziare le casse (prosciugate dall’effetto covid) del club.
La decisione produrrebbe un effetto domino, a cascata, sulla Juve (e la Ferrari?): dai quadri dirigenziali alla squadra.
Mentre in Catalogna il Barcellona sta negoziando il passivo monstre, con la promozione della Salernitana, la Serie A vanta due squadre con lo stesso proprietario, Claudio Lotito.
Che martedì, nel tragicomico post partita del testacoda Lazio-Torino, è stato insultato (e non solo lui) dal nemicissimo Urbano Cairo, l’improbabile tycoon che regge le sorti di RCS (e di altro) con Blackstone come spada di Damocle sulla testa.
Erano anche i dì del sequestro di 6 milioni e mezzo di euro – da parte della Guardia di Finanza di Bologna – riconducibili a Maurizio Setti, presidente dell’Hellas Verona: un trucco contabile, col calcio a far da
paravento, per innalzare – strumentalmente, con la sponda straniera – il valore di due società dell’Hellas sulla strada dell’autoriciclaggio.
Intanto, Roberto De Zerbi è dato prossimo alla panchina dello Shakhtar Donetsk.

Il tecnico del Sassuolo, un ottimo allenatore, durante la manfrina Superlega si era speso per il “gioco del popolo”, valutando il rifiuto di incontrare il Milan “traditore”.
In Ucraina troverà il presidentissimo Rinat Akhmetov, l’oligarca più ricco di quel paese, la cui storia (nebulosa) intreccia imprenditoria d’assalto, criminalità organizzata e potere.
Principe di Vary Y Zakone, con una biografia misteriosa (..) prima del 1995, inventata, fedele al detto locale che “su tre uomini nella regione di Donetsk uno è in prigione, è stato in prigione o andrà in prigione”
(cit. Massimiliano Di Pasquale).
Quando dicono che “l’NBA è un circo”, comprendi che la pandemia più infettiva di tutte è la stupidità pallonara.