Una Milano più col cuore in mano che da bere (abbiamo rivisto la folla, gli ultimi giorni..), passando da Cinisello e da Sesto, chiude il Giro 2021.
Il secondo e ultimo (..) dell’era covid-19, quasi divertente quanto il ’20, e di lignaggio superiore rispetto alle ultime due edizioni.
Tanto le stagioni tipo 2017-18, straordinarie per livello e partecipazione (dei big), diventeranno un’eccezione.
Per una corsa rosa che deve osare ancora di più, agonisticamente, fregandosene del moloch Tour de France – e di ASO – per rappresentare un’alternativa (seria) alla febbre gialla.
Lasciando stare il carrozzone e il cocchiere, che a paragonarli ai francesi viene il magone: siamo tornati a Torriani, prendi i soldi e scappa.
Nove pallini nove per incorniciare tre settimane, ventuno tappe e una penisola di spunti.
1
Il secondo colombiano a vincere il Giro – la vernice fu di Nairo Quintana (2014) – è anche il primo, della sua generazione (di freak), a vantare oggi – nel palmarès – entrambe le corse a tappe che fanno la storia di questo sport.
Se quel Tour 2019 fu una rivelazione, attesa da molti, la maglia rosa di due anni dopo è una conferma.
Egan Bernal è l’anti Tadej Pogacar che aspettavamo?
Probabilmente si, soprattutto se la schiena non darà più problemi al ragazzo (cresciuto in fretta) di Zipaquira’.
Un Giro impazzito, controllate le medie orarie please, condotto da padrone per due settimane e mezzo.
I valori espressi dal moro, in quella sequenza, sono stati assoluti: oltre la scalata (eccezionale) del Passo di Giau – il pomeriggio del sigillo sulla corsa – sono stati lo sterrato di Montalcino e l’arrivo a Campo Felice a confermarne il talento.
Quei 437 watt negli ultimi 1500 metri, in Abruzzo, rivelano una peculiarità del nostro: un tappista con una capacità anaerobica da classicomane.
L’avevamo intuito alle Strade Bianche, questa primavera, quando condusse le danze con i due Van (Mathieu e Wout) e il solito Pogacar.
Il resto è stato farina della Ineos Grenadiers (Team Sky), l’armata a pedali che da un decennio caratterizza i Giri.
Quando a tre chilometri e mezzo dal traguardo di Sega di Ala, Bernal mostrava la sua prima crepa, veniva salvato da Dani Martinez (potenzialmente un reuccio: segnatevi il nome..) e dalla tattica alla Cyrille Guimard nell’approccio alla salita.
Coi corazzieri davanti (Salvatore Puccio, Filippo Ganna, Gianni Moscon..), le litorine un po’ dietro (Jhonatan Narvaez, Jonathan Castroviejo..), a simulare una strapotenza che celava le gambe mezze vuote del capitano.
2
Il podio regale di Damiano Caruso (33 anni e mezzo) è un premio alla carriera, un Cipputi d’oro a un dieselone che chiarisce ciò che sfugge a troppi.
Fra alcuni luogotenenti di lusso, e Caruso è (stato) uno dei migliori (faticatore lucido, regista in gara), e certi campioni le differenze sono minime.
I casi fortuiti, illustrati dalla caduta di Mikel Landa nella tappaccia di Cattolica, sono decisivi.
Miro Panizza, il principe dei gregari che nell’80 visse il suo sogno rosa contro Bernard Hinault, sosteneva che i campioni molte volte sono tali perché di un egoismo raro.
Il dì (meritato) da fuoriclasse di Caruso ad Alpe Motta, uno che nel 2020 fece decimo alla Grande Boucle, lo ripaga della sottovalutazione passata ma non ne cambierà la parabola.
Seguiamo il ciclismo anche per quelli come Damiano, gli Alessandro De Marchi del plotone, che del campionismo non hanno nulla.
Per fortuna.
3
Tutti a dare i numeri (..) per giustificare spazi e onori mediatici, eppure – a metà Giro, con Caruso ancora nascosto (sic) – tiggì e giornaloni dedicavano più titoli agli Europei di nuoto che alla corsa rosa.
Scusate il linguaggio procteriano: mentre uno faceva il 4 per cento di share televisivo (il nuoto), l’altro sarebbe arrivato al 25 (il Giro..).
Lo strabismo mediatico si deve sempre alla vittoria tricolore da celebrare, in virtù di un nazionalismo che – sottopelle – galleggia in un brodo culturale prossimo a quello del tabloid.
4
Massimo rispetto e comprensione per le persone in attesa, vana, tra Marmolada e Passo Pordoi, ma le polemiche per la scelta di un tracciato alternativo, nel lunedì da cani della Sacile-Cortina d’Ampezzo, ci sono parse stupide.
I divanisti vivono di sadismo e di un passato, più immaginato e ricreato che visto e vissuto, di favole.
I corridori finalmente non sono (più) carne da macello.
In uno sport così estremo, il più simile a un mestieraccio, avere nostalgia per atleti trattati come i minatori a Marcinelle è da ignoranti.
Perché mitologia fa quasi sempre rima con bugia.
5
Che nel 2021, in una frazione così complicata meteorologicamente, in RAI non si pensi a una postazione fissa al Passo di Giau, per testimoniare i passaggi, ha dell’incredibile.
Lo è meno se pensiamo all’astio, alle polemiche da asilo, di una De Stefano: che pare odiare i corridori di oggi, in virtù di un amarcord dannoso (per il ciclismo italiano stesso) essendo quella finestra – il Processo – una delle poche concesse al pubblico generalista.
Il risultato della mediocrità della tivù di Stato è stata l’esplosione di follower sul canale Instagram di un certo Igor Tarella.
Un albergatore della Badia che, quasi in cima al Giau, con lo smartphone ha trasmesso mezz’ora di diretta con il transito dei girini.
6
I tre gpm in fila della Verbania-Valle Spluga, con l’attacco del trenino DSM di Romain Bardet e del duo Bahrain Victorious Pello Bilbao-Caruso, un anello tra Italia e Svizzera fino a Madesimo e Alpe Motta, sono stati (involontariamente?) il manifesto programmatico di ciò che dovrebbero proporre i Grandi Giri.
Questo Giro, al quale sono mancati solo un trentina di chilometri (in più) di cronometro individuale, ha brillato per la versatilità del tracciato.
L’ascesa al Monte Zoncolan da Sutrio, in un sabato televisivo, confermava invece che non esiste nulla di più sovrastimato del garagismo.
La vueltizzazione delle tappe crea l’effetto boomerang nelle attese – spropositate – del (leggendario) pubblico generalista.
Le frazioni con una distanza da juniores, concluse su erte estreme, impostate giocoforza sul ritmo e i rapporti da MTB (30 x 28..), paralizzano la contesa per la classifica generale.
Coi ras che devono aspettare, per non forare le gambe (..) con un fuori soglia esagerato, e le velocità ridotte (quasi da surplace) su alcuni rettilinei.
Il Mortirolo, e forse lo stesso Zoncolan dal versante di Ovaro, il limite terminale tra i monti e le vette di un ciclismo pensato e pedalato con il cicloalpinismo per anoressici.
Che produce distacchi – tra i migliori – risibili per la fatica (bestiale) richiesta agli atleti: sono le salite da 18-20-22 chilometri orari che fanno selezione, non le rampe da garage lunghe migliaia di metri, con il minus pure dello spettatore invasato (ed esibizionista: a portata di camera) che corre a una spanna dal ciclista.
L’anno scorso, il Sestriere replicato fece sfracelli: bastò Rohan Dennis, davanti al drappello della maglia rosa, per far saltare il banco.
Per tacere dei settori non pavimentati, nella (bellissima) Perugia-Montalcino, molto più appassionanti e lottati dell’approccio – interminabile – agli ultimi tre chilometri del Kaiser.
7
Patrick Lefevere, il boss della Deceuninck-Quick Step, raccontando il Giro (fallimentare) di Remco Evenepoel ha parlato di “ego ferito” del bimbo prodigio belga, alle prese con la prima (scontata..) sconfitta della carriera.
Lefevere, che in quanto a culto della personalità – del diesse santone – stacca persino Sir Dave Brailsford, nelle tre settimane rosa ci ha ricordato un po’ certe annate di Giancarlo Ferretti.
Un genio della tattica a dispetto della realtà.
Ogni ambiente si ritrova il suo Pepe Guardiola.
Quella sorta di mobbing imposto a Joao Almeida, quarto nel 2020 (con quindici giorni in maglia rosa), reo di aver scelto un’altra squadra per il (suo) futuro, è stata la fesseria del Giro.
Il portoghese, dopo la crisi (di freddo) verso Sestola, è stato obbligato a fare il copilota al principe di Aalst che – per usare un eufemismo – non è sembrato tecnicamente a suo agio nelle pieghe del gruppone.
Eclissatosi il campioncino, tappa dopo tappa, Almeida (22 anni) è tornato dove lo porta la cilindrata: con Bernal, Yates, Caruso.
Ad Alpe di Mera, ai piedi del Monte Rosa, il lusitano mostrava doti alla Tom Dumoulin.
Almeida avrebbe quello che conta nei Giri: potenza, agilità e la terza settimana.
Mollato il Wolfpack, se sceglierà il gruppo giusto, diventerà uno dei protagonisti dei Grandi Giri e un possibile vincitore.
8
In un evo complicato per il movimento, l’Italia – non più Grand’Italia – ritrova i suoi due migliori corridori di questa generazione.
Chiedendo scusa a Ganna, un fuoriclasse in divenire, Gianni Moscon e Alberto Bettiol paiono i più pronti a raccogliere – subito – le sfide più intriganti del 2021.
Entrambi due motoroni (..) da monumento, sempre più polivalenti come doti complessive (le salite corte sono nella gerla), devono riguadagnare il tempo perduto (buttato via).
Il Trattore è il rouleur che fece quinto alla Parigi-Roubaix e terzo al Lombardia (era il 2017), primattore di tre corse iridate.
Il toscano della Education First Nippo, dominante nei su e giù dell’Oltrepò Pavese della diciottesima tappa, ha nel dna altre performance stile Ronde 2019.
La strana coppia pare cucita dal sarto per una parte importante, da outsider pericolosi, al Mondiale di Lovanio del prossimo 26 settembre.
Tra belgi e olandesi, i due Van e un Julien Alaphilippe, Moscon e Bettiol – su un percorso adatto a loro – si giocheranno la loro partita.
Con la rivincita immediata, la domenica successiva, al Velodromo di Roubaix.
9
Dieci anni fa, il ciclismo svoltava (ed era già questo).
Il migliore ciclista del mondo, Marianne Vos, era la rappresentazione massima dell’idea multidisciplinare.
Cadel Evans, con una storia nobilissima alle spalle, si imponeva al Tour, lui che nacque biker.
Alla Vuelta, Bradley Wiggins – sultano della pista – faceva le prove generali per la Grande Boucle scortato da Chris Froome.
Quell’anno – il 2011 – un ex crossista e biker talentuosissimo, Peter Sagan, appena ventunenne, vinse da febbraio a settembre.
Il sistema italiano era già insufficiente e vecchio: mancavano progetti futuribili, velodromi indoor, una concezione meno arcaica del settore giovanile, arroccato sul piccolo mondo antico (esasperatissimo) degli
squadroni juniores e under 23.
Dieci anni dopo, il ciclismo italiano è retroguardia.
Ai conti della (di) gestione disastrosa, passiva e passatista, di Renato Di Rocco – sponsorizzato dai soliti noti – si sommano le retroazioni della pandemia virale.
Un ragazzo su due, nel periodo delle serrate a causa del virus, ha abbandonato la pratica sportiva.
Le affiliazioni delle società alla FCI sono passate da 3385 a 2979.
L’effetto covid-19 ha solo accentuato la decadenza.
Nel 2019, rispetto al ’17 erano già stati persi 298 club.
Col 2020 la differenza è surreale: 406.
Impietosi i numeri delle regioni storiche, guida: Lombardia (che passa da 723 a 639), Veneto (da 453 a 407), Toscana (da 290 a 249).
Se tra gli esordienti, dal ’17 (3117) al ’19 (3259), i tesserati erano saliti (più 142) prima del virus (oggi sono 3062), i numeri degli juniores (da 1684 a 1567 fino a 1516) e dei Giovanissimi (15448, poi 14950, infine 13832) sono preoccupanti.
Almeno quanto le 147 gare su strada sparite a livello regionale e le 11 (..) rimaste su pista.
Un discorso serio, sullo sport (di base e professionistico), dovrebbe ripartire da qui: non dai federali, dalle marchette, dagli uffici stampa e dai filmati del 1994.
Altrimenti lasceremo il campo libero al denaro come unico passepartout: quello delle scuole calcio, delle accademie tennistiche da 10000 euro all’anno, delle gran fondo col pass dei vip.