LA PANDEMIA DI MOREL. IL MURA ISOLATO. RIVERA, BETTEGA E I PALLONI GONFIATI

A fare una schermata, sui cosiddetti social o un quotidiano web (e le differenze tra i due mondi sono ormai impercettibili…), la pandemia di stupidità precede e amplifica quella vera (e tragica).

In poche ore, dal coronavirus che rimane sull’asfalto, si è arrivati a un farmaco giap – via TuTubo! – che è l’anagramma di vagina, dopo un exploit virale (verde cupo) di un sedicente Alfio Muschio.

Non ci risparmiano l’isteria, gli sciacalli, nemmeno con una data (proforma) dettata dall’OMS.

Una psicosi di massa, che coinvolge i delatori da balcone e i titolisti: il linguaggio è sempre quello e corre – in rete, in tivù – con la violenza che ebbe modo di evidenziarsi (meglio) dal (decisivo, soprattutto per l’Italia) 2001.

In una situazione particolare, il sistema mediatico dovrebbe prestare i propri megafoni (e specchi) all’informazione scientifica.

E raccontare magari del collasso del leggendario (un’allucinazione collettiva degna di Adolfo Bioy Caceres) sistema sanitario lombardo (qui citiamo Andrea Crisanti…), introducendo l’idea di virus nosocomiale.

Il resto dovrebbero essere solo statistica medica, (ri) lettura del contesto sociale (biologico) e silenzio.

Citando, per l’ennesima volta, Andrea Pazienza: “Tutte queste mosche sul cadavere, dai mosconi più grandi e chiassosi ai mosconi piccini… Cioé io. Ecco che aspetto il mio turno per vendermi quello che so.”

Il Mura, Gianni, lo conoscemmo – tanti anni fa… – nella maniera più originale: ci telefonò a casa.

Da qualche parte, in un cassetto, possediamo anche il carteggio coi suoi appunti. “In fuga dagli sceriffi” era già in alcune conversazioni (epistolari): eravamo mondi lontanissimi, che convergevano sull’analisi dell’imbarbarimento dei media.

I coccodrilli retorici su Gianni Mura di alcuni suoi colleghi, ci paiono un esercizio ipocrita; selfie scritti per mettersi ancora un po’ in vetrina.

Il Mura, negli ultimi anni, era un isolato, una sorta di panda in un contesto militarizzatosi ferocemente: occupato da opinionisti un tanto al chilo, morti di fama tallonati da morti di fame, sprovvisti di cultura specifica sugli argomenti affrontati (di volta in volta).

L’infotainment pop che tanto piace a un pubblico, bipolare, alla ricerca di melassa rassicurante e indignazione paragolpista.

Che, inseguendo clic e comparsate, diseduca il lettore (cittadino, essere pensante) a un approccio meno superficiale e più curioso. Quelli come lui, l’editorialista di “Sette giorni di cattivi pensieri”, che vissero le redazioni dove si incoraggiavano la scrittura, le inchieste, le ricerche (tecniche e storiche), ebbero il privilegio e il talento di abitare il periodo giusto per lasciare – su carta – qualcosa di qualità, che rimarrà (nel tempo).

Individuiamo il miglior Mura dell’era recente nelle cronache del Tour de France: il 2003, vertice agonistico e spettacolare di Epolandia (quasi alla fine della sua parabola cyberpunk) premortem.

Una Grande Boucle mostruosa, col duello tra Darth Vader e il Romeo Venturelli degli Ossis, lo schianto di Joseba Beloki e (tante) altre storie, corsa nella canicola che sconvolse l’estate europea.

Un diario di bordo appassionante, ricco di spunti, che ci rimembrava Mario Fossati.

La sospensione della stagione sportiva, che assomiglia sempre più a una cancellazione tout court fino a luglio, consiglia ai canali televisivi la riproposizione televisiva a nastro (..) dello sport che fu.

Nella scoperta, per chi non c’era ancora (in diretta), di questo universo analogico, colorato così così, commentato da telecronisti annunciatori ferroviari (sic), spartano.

La visione della Serie A rimontante (anni Settanta) e del boom (dal 1982) chiarirebbe molti dubbi sulla prosopopea del calcio italiano contemporaneo.

Decadente da almeno un decennio. La spiegazione, involontaria, la danno quelle immagini. Il confronto è tra due scuole tecniche quasi antitetiche: una che crebbe tra strada e oratori, l’altra pompata dalle scuole calcio. Laddove c’erano i calciatori, oggi ci sono gli atleti.

Oltre le differenze regolamentari, decisive nell’accumulo quantitativo di certe statistiche odierne, è imbarazzante – per gli strillatori digitali di oggi – constatare il livello (assoluto) di quelli là.

Non è nemmeno – per noi – un amarcord: quel foot, bellissimo e biodiverso, era anche più corrotto e violento rispetto agli standard della fiction dell’evo Champions League.

Ma solo gli stupidi non possono notare i parsec di distanza. Due palombelle di Gianni Rivera, che parevano palloni telecomandati verso l’attaccante, durante un Milan-Juventus da O.K. Corral, esemplificano il concetto tecnico.

Al di là dei gol e degli assist di tacco di Roberto Bettega, ne abbiamo contati tre (più uno), i filmati ci ricordano che Bobby Gol è stato l’azzurro più vicino a Marco Van Basten (!) come chassis.

Con i difensori moderni, che a uomo – per esigenze tattiche – marcano poco, trequartisti col passo (e il ruolo camuffato) d’ala come Franco Causio, Claudio Sala, Bruno Conti non sarebbero contenibili da chicchessia.

E l’intelligenza di Paolo Rossi, l’istinto nell’intuire le retroazioni del gioco sul campo, mezzo secondo prima degli avversari, esplica i fondamentali di quel calcio azzurro.

Che non era più così, osservando la nazionale di Cesare Prandelli nel 2014 ai Mondiali brasiliani: la Costa Rica, quel pomeriggio a Recife, diede una lezione di sfruttamento degli spazi, all’italiana.