SCOTTIE PIPPEN, COLUI CHE ABITAVA IL FUTURO ANTERIORE DEL GIOCO

A volte ritornano, malgrado tutto, anche se l’America è un luogo che tollera a malapena i supereroi, adorando invece le superstar.

Stavolta il soggetto, trovato rifugio nella Hall of Fame di Springfield, potrebbe essersi messo in salvo (per l’eternità).

Ready or not, Here I come… Apologia agnostica di Scottie Pippen, il Larry Graham della pallacanestro, un tentativo di approfondire un periodo storico soffocato dalle frasi fatte e dagli highlights di Sportscenter.

Scott nacque ad Hamburg, Arkansas, come ultimo di una nidiata di dodici pargoli; figlio di una miseria nerissima, anzi afroamericana, che si accentuò con l’invalidità del padre, costretto da un infarto alla sedia a rotelle.

Lo stesso destino che colpì dopo un incidente anche il fratello Ronnie.  Scordatevi i camp organizzati dall’Adidas o dalla Nike, le posse dei parenti e degli amici che sostengono la futura prima scelta di Silverland, al liceo locale il nostro fece il magazziniere della squadra di football. Uno e settantotto scheletrico, con la prospettiva di essere inserito (sempre come guardarobiere) a Central Arkansas, college lilliput semidimenticato dagli dei: durante il primo anno universitario accadde l’imponderabile.

Don Dyer, l’allenatore in quel di Conway, assistette sbigottito alla crescita ipertrofica (quindici centimetri in pochi mesi…) e tecnica del cosiddetto playmaker di riserva.

Il livello di competizione mediocre, la NAIA, oscurò comunque le doti in divenire del giovincello.

Ma le voci delle gesta di quel diamante grezzo arrivarono fino a Marty Blake, storico capo scouting dell’NBA, che (dopo averlo visionato dal vivo) sparse la notizia.

La favola di un Magic Johnson spuntato nel bel mezzo del nulla fu creduta solamente da Jerry Krause, giemme dei Chicago Bulls, che spedì in avanscoperta l’assistente Billy McKinney.

L’aiuto di Crumbs confermò tutte le leggende metropolitane: la palestra di Central Arkansas era poco più che un capannone, la competizione una cicloturistica e il bimbo una promessa.

L’anonimato di Pip finì definitivamente al Portsmouth Invitation Tournament e all’Honolulu Classic: il 2 e 02 era pronto, per una delle prime dieci scelte del 1987.

Per Krause ci fu un fattore che contò almeno quanto l’atletismo (irreale), i cinque ruoli cinque giocati e l’affidabilità caratteriale: quelle braccia incredibili, lunghissime, il vero passepartout di colui che sarebbe diventato l’esterno (?) difensivo più importante nella storia moderna del gioco.

Per assicurarselo, il buon Jerry convinse Seattle a uno scambio di scelte: il primo pick di Chicago, l’ottavo, ovvero il riminese (..) Olden Polynice, fu passato ai Supersonics per il quinto assoluto, cioè l’all around dell’Arkansas. A posteriori un furto clamoroso che, accoppiato all’arrivo di Horace Grant, rappresentò uno dei migliori draft di sempre per una franchigia.

E così, accompagnato dal gemello diverso Orazio, stesse radici rurali del profondo sud, Pippen entrò dalla porta principale col compito meno semplice di tutti: crescere all’ombra del baobab Michael Jordan, il Fregoli che portava in giro per gli States, lo spettacolo solista più elettrizzante del globo.

Lo Scottie della prima fase sembrò un tweener in equilibrio instabile tra santità e perdizione; i bagliori di grandezza futura oscurati da un’inconsistenza agonistica inquietante.

Ci parve bello e inutile come un Larry Kenon qualsiasi, preso a bastonate dalla pressione di dover convivere con le aspettative del ventitre e di un’organizzazione.

Le botte, quelle vere, le presero i Tori dai Detroit Pistons, durante tre edizioni consecutive dei playoffs. Gara7 del 1990 fu anche una Caporetto personale dello swingman rossonero: 42 minuti, uno su dieci dal campo e un’emicrania insopportabile.

La stampa lo massacrò, ritenendo l’indisposizione una scusa puerile. Pip invece si spaventò, ricordando i sintomi pre disgrazia di papà Preston, che morì proprio durante quelle settimane.

Eppure, in quel periodo durissimo, cominciarono a germinare i semi dei Bulls dinastici: gli ultimi mesi di regular season del 1991 consegnarono ai posteri meno distratti una fotografia della dittatura prossima.

MJ fu convinto da Phil Jackson e dall’evidenza della trasformazione pippeniana.

La farfalla che spuntò dalla crisalide permise ad Air, vivaddio, la condivisione del pallone con un bipede che spartisse doti tecniche e atletiche simili alle sue.

Le due sole sconfitte nei playoffs certificarono la marcia trionfale: simbologie del nuovo potere furono il cappotto a domicilio dei Bad Boys e il passaggio di consegne con la squadra degli Ottanta, i Lakers di Magic, nelle Finals.

Come sentenziò Mister Pressing, al secolo Aldo Giordani: “Posso sbagliare, ma – per me – è più merito di Scottie Pippen che di Jordan.

Il cannonissimo Air era già immenso anche in passato. Quello che in questa stagione è veramente migliorato, è Scottie Pippen…”  A Chicago si resero conto di avere pescato, oltre al Migliore, anche il secondo più bravo nel giochino.

Il dominio dell’annata 1992 confermò l’impressione, a dispetto delle voci sullo spogliatoio in fiamme.

Convivere con la tirannide jordaniana divenne una missione impossibile: Coach Zen fece il pompiere in una situazione da soap opera, che meriterebbe un capitolo a parte per sviscerarne le dinamiche perverse. La mania ossessiva di Michael per le scommesse, lo spirito competitivo, i suoi rapporti difficili con Grant dopo una rissa post partita e il trentatre come Winston Churchill a Yalta.

Per rendere ancora più irrespirabile l’atmosfera, Scottie firmò in fretta un’estensione contrattuale che lo pose al riparo da qualsiasi spettro del passato.

Ma si legò quasi a vita, sottopagato, in un’era che lo porterà a essere (nel 1998) ben oltre la centesima posizione nella lista dei salariati della lega. Per incrementare la fama paranoica, uno che faceva lo streching pre partita lontano dal cubo maxi schermo, No Tippin’ Pippen divenne una leggenda scozzese nelle mance ai camerieri e agli uscieri.

Essere umano complicato e curioso, come quando chiese ai compagni un minuto di silenzio per la morte del suo gatto…

“E’ sopravvalutato.” (Mike Lupica di Espn)

“E’ un bidone, l’unica cosa che è capace di fare è passare la palla a Mike.”  (Larry Johnson)

“Il giocatore più fortunato della storia del gioco.” (Al Bianchi)

L’Uomo Ragno di Sternville ha sempre diviso la platea, persino nei momenti dei trionfi e nell’epica cavalcata 1994 dei Bulls del buen retiro jordanesco: considerata anche dal proprietario Jerry Reinsdorf e da Phil Jax, la stagione più esaltante di quella squadra.

Il nuovo capobanda perse il primo mese per infortunio e poi indicò, con il piccolo aiuto dei suoi amici, la strada verso la terra promessa: quei Tori senza MJ (con Pete Myers al suo posto…) compilarono un record di 55 vittorie (due in meno dell’anno precedente) e arrivarono a un sospiro, o meglio un fischio, dallo showdown.

Pip in quei mesi giocò a un livello eguagliato dal solo Hakeem Olajuwon, completando un processo di maturazione tecnico-tattica cominciato sull’asfalto di Pine Street, Hamburg.

Ci furono sere nelle quali contemplò l’onniscienza sul parquet, interpretando TUTTO lo scibile del basket contemporaneo.

Facendo le grandi e le piccole cose che portano all’unica unità di misura della partita: la vittoria.

Lo fece con lo stile inconfondibile dei grandi performer afroamericani della specialità. Nella Spaghetti League dei tempi d’oro, ci sovviene l’incedere felino di Abdul Jeelani (aka Gary Cole), principe di Livorno sponda Libertas; dall’altra parte della pozza il riferimento non poteva essere che Julius Erving, simulacro di Scottie e di tutti i bambini che, con l’arancia Wilson in mano, sognarono il paradiso in terra del gioco.

Come nel leggendario “Mumbo jumbo” di Ishmael Reed quelle evoluzioni aeree, la gestualità sinuosa, elegante, furono il jes grew che ci obbligò a rispettare la musicalità intrinseca, magica, del basket.

Afroman col 33 sul petto, con quel ciondolio inconfondibile, ne fu uno dei massimi propagandisti.

La mano sinistra, in palleggio e in affondata, il marchio di fabbrica che lo separò dai contemporanei (anche Jordan stesso) L’arte dello slashing, inseparabile da un buon palleggio, arresto e tiro, ne fece una minaccia costante per le difese.

Ma lo sciopero di 1,8 secondi nella serie contro i New York Knicks lo dipinse come l’ennesimo All Star egoista: quella controversia oscurò la ferocia dello Scottie Team nella semifinale orientale.

Persa alla bella, al Madison Square Garden, e modificata in Gara5 quando Hue Hollins assegnò un fallo (inesistente) proprio al capitano dei jacksoniani: quei due tiri dalla lunetta di Hubert Davis confermarono la caducità degli arbitraggi o, molto probabilmente, l’esistenza dei finitimi pure in America.

Senza quell’intervento, i Mikeless avrebbero disputato la quarta Finale consecutiva?

La stagione seguente, prima del ritorno del Big Brotha numero 45, i Bulls smontarono la portaerei regalando il fratellino Grant alla concorrenza (Orlando).

Offrirono a cani e porci, anche l’arte be bop del trentatre ma con risposte poco convincenti. Malgrado la sedia tirata in diretta nazionale e i mal di pancia continui, Pippen era inscambiabile: come misurare, in giocatori e scelte, i servigi del miglior giocatore dell’NBA? Nell’anno del Grande Slam statistico, Pip mise in griglia playoffs un combo con Larry Krystkowiak, Bill Wennington, Luc Longley e Dickey Simpkins come lunghi.

Ci furono notti da toro scatenato che regalarono spettacoli assurdi: a Natale, la nemesi newyorchese smantellò i Knicks. Giocò tutti i 53 minuti dell’incontro, segnando ogni punto dei suoi nel supplementare vincente. Trentasei e 16 (rimbalzi) non raccontarono lo strapotere, comprendente anche due stoppate consecutive sulle triple del possibile pareggio.

Un pomeriggio, opposto alla contender occidentale Phoenix, si applicò su Charles Barkley (fin lì, on fire) e lo spense, cancellandolo dal campo: nel frattempo, mandò a referto 35 punti, 9 rimbalzi, 6 assist, 5 recuperi e 2 stoppate.

Il purgatorio di Batman sarebbe terminato con il rientro di Superman e riassunse le sembianze della dinastia: all’incipit della rumba 1996, il migliore coaching staff allenò il closer migliore (di sempre), il giocatore di squadra più forte e completo della sua generazione e lo specialista per antonomasia.

Per la riffa, scrivete i numeri 23, 33 e 91. Aggiungete la classe dell’europeo più versatile degli anni Novanta (Toni Kukoc) e la collaborazione attiva dei vari Ron Harper, Steve Kerr, Luc Longley.

Dell’anno d’oro ricorderemo per sempre una corrida di regular season contro Indiana Pacers stramotivati, che avrebbero vinto opposti a chiunque; ma il dinamico duo e il verme imposero la loro legge.

Ribattendo colpo su colpo, confermarono l’aura di imbattibilità di uno squadrone cinico e bellissimo: MJ ne segnò 44, Pip 40 (28 nel secondo tempo) più 5 recuperi e 10 rimbalzi, mentre Dennis Rodman ne catturò altri 23.

Una monarchia illuminata dalle doti difensive (mostruose) dell’ensamble. Nella metà campo che ti permette di issare le bandiere, Scottie fu la Dea Calì versione funk: uno contro uno dalle point-guard (Magic, Mark Jackson) alle power forward (Chris Webber, Vin Baker) fino alla single-coverage sul Patrick Ewing di turno.

Fu lui a popolarizzare la chasedown, ma l’albatro andò oltre. Difese corpo a corpo, senza arretrare, e di anticipo; a uomo e intuendo i movimenti degli altri sul terreno e le linee di passaggio: in un universo che premia gli aggiustamenti tattici nelle serie di playoffs, il Doberman sfoderò il wolfing definitivo, ovvero il movimento di lettura aggressiva e golpe dell’attacco avversario.

Trattasi della fase che annichilisce la fluidità di qualsiasi schema offensivo e non pensiamo che sia un caso se il 33 e Robert Horry siano stati i due interpreti supremi: fanno tredici anelli in due, ma non ve lo racconteranno durante NBA Action.

Pippen abitava già nel futuro anteriore, vent’anni avanti: i Golden State Warriors dinastici, al di là dell’onnipotenza balistica degli Splash Brothers, si baseranno – difensivamente – sull’applicazione feroce del modello originale, Pip. Andre Iguodala, Kevin Durant, Klay Thompson, Draymond Green.

Quattro two-way che cambiano su (quasi) tutte le razze di attaccanti.  Un passo indietro al Dream Team 1992 con le parole di Chuck Daly, l’allenatore di quel convitto di semidei: “Lo so che Michael era il meglio, ma Pippen in quella squadra era il giocatore migliore.” Quando si scrive di Barcellona e del torneo olimpico, si indugia sul significato globale del blockbuster, dimenticando l’esempio evolutivo: gli infortuni a John Stockton e Magic privarono gli americani dei playmaker.

Team Usa ne approfittò per abolirne il ruolo classico, utilizzando Jordan, Clyde Drexler e soprattutto Pippen (l’epitome della point forward) come portatori di palla e creatori di gioco.

The Natural, al netto degli scottiehaters, ha sempre avuto tanti ammiratori. Un anno, la rivista Slam chiese ai big della NBA chi avrebbero voluto essere, scegliendo riferimenti contemporanei.

Una moltitudine lo scelsero, tra gli altri Penny Hardaway, Gary Payton, Mitch Richmond, David Robinson e Barkley. Dichiarò Reggie Miller: “E’ l’unico in questa lega che può segnare cinque punti e dominare lo stesso una partita.”

Il regno terminò a Salt Lake City nel 1998, in una Gara6 dalle emozioni fortissime: fino all’epilogo fu una saga che spiegò la poliedricità del trentatre, che nella terza recita paralizzò gli Utah Jazz forzando quattro sfondamenti (due di Karl Malone…).

All’ultimo ballo a Pip saltò la schiena, i Tori rischiarono il collasso e Jordan sancì il suo ruolo di nuovo Babe Ruth: il destino di Patroclo rimase intrecciato con quello di Achille, per sempre.

Fu incredibile nell’ultimo quarto vedere la reazione di una squadra che rifiutò la sconfitta, idealizzata dal lavoro individuale di Rodman sul Postino. Lo scioglimento dell’impero portò Scottie, dopo la serrata, nel luogo sbagliato al momento sbagliato.

L’esperienza a Houston fu un fallimento, viste le premesse e la compagnia di Olajuwon e Barkley.

Poi a Portland, in una congrega di talenti a metà tra genio e follia, esibì la saggezza di Geronimo.

I Blazers 2000 incrociarono lo spirito dell’77, poi (all’improvviso) aderirono alla Legge di Murphy.

Un’accolita comprendente il Cabaret Voltaire dell’intelligenza cestistica in almeno tre ruoli (Arvidas Sabonis, Steve Smith e voi sapete chi), nonchè una serie di buzzurri baciati da Dio nel corpo ma incapaci di disciplina tattica. Afroman, l’uomo che vedeva il gioco ovunque, alle prese con la (de) generazione cresciuta a isolamenti e pick and roll: fu quasi un successo, anche nelle parole di coach Mike Dunleavy. “Da allenatore lo adoravo. Il collante, il professionista modello. Era quello che faceva il passaggio che portava all’assist, che deviava il pallone per un recupero e prendeva il rimbalzo per aprire il contropiede.”  Il rendez vous coi losangelini di Coach Zen, nella finale occidentale, fu la madre di tutte le battaglie: i Lakers partirono col turbo e sembrarono padroni del loro destino poi, sul 3-1 lacustre, lo scenario si modificò.

Gli oregoniani demolirono il triangolo di Tex Winter, lo Shaq più devastante di sempre fu limitato dai raddoppi scientifici, eseguiti con un timing perfetto, del re degli intangibles.

Per quasi tre partite, i Lakers sventolarono bandiera bianca e il blackout della truppa di Paul Allen, sopra di quindici nella bella e a dodici minuti dall’anello, fu inedito: fino all’intervallo di quella Gara7, l’Mvp della lega O’Neal aveva realizzato due canestri dal campo, terrorizzato dagli agguati del trentatre.

La rimonta di LA, nel quarto periodo, ebbe la benzina involontaria di sette tiri sbagliati dall’ineffabile Rasheed Wallace, guru spirituale dei Jailblazers prossimi venturi.

Nel 2001, l’arrivo del fantasma di Shawn Kemp (imbottito di cocaina come Sly Stone nei Seventies) si sovrappose alla partenza di Jermaine O’Neal pronto a esplodere: l’organizzazione, vogliosa di issare un banner al Rose Garden, implose.

Sul viale del tramonto della carriera, iper infortunato, Pippen ci diede l’ultima dimostrazione della sua grandezza.

Gara5 del primo turno 2003 a Dallas, Do or Die per i Blazers con un Damon Stoudamire sugli scudi per quasi tre quarti.

Efficace, nel suo eterno uno contro cinque ignorante.

Poi, per provare a vincerla sul serio, Maurice Cheeks mise il trentatre prepensionato da mille acciacchi: senza più le gambe della pantera in maglia Bulls, da fermo, impartì una lezione di pallacanestro ai nove con lui. Dal post alto, utilizzando il suo QI, spiegò per un quarto d’ora il verbo ai suoi e li portò (come il pifferaio magico) alla doppia v.

Fu l’ultima immagine, struggente, di uno dei più grandi vincenti del gioco, il nostro Bill Russell.

Una volta Bob Cousy disse che ci sono due tipologie di giocatori, definibili dal loro sguardo appena oltrepassata la metà campo: alcuni osservano i compagni, altri solo il canestro. Scottie è sempre stato nella prima categoria. Nella storia della pallacanestro americana, uno dei tre sottovalutati – per ignoranza – che mai ricascano nei discorsi sui migliori di sempre: Pip con John Havlicek e Roger Brown.

Rilettura di un pezzo pubblicato da Indiscreto il 25 agosto 2010, rubato e scopiazzato da un libro edito da Diarkos uscito quest’anno.