LA MISSIONE (IMPOSSIBILE) DI STEFANOS E CIO’ CHE RESTA DI RE ROGER

Al netto della nuova Coppa Davis, il cui giudizio lo affidiamo ai posteri (o ai posti vuoti – nascosti dal nero cinematografico – della Caja Magica), il caro vecchio Masters chiude un’annata vissuta pericolosamente.

L’ennesima di una transizione – infinita – tra il Federerismo (nella definizione includiamo anche i due rivali dell’elvetico..) e ciò che ci riserverà l’ATP degli anni Venti.

Finals di alto livello, in controtendenza rispetto all’ultimo biennio (moscio), con almeno cinque partite da circoletto rosso e un trionfatore che sarà Maestro; al contrario dei supplenti (di un Griga Dimitrov) che si sono imposti nel passato recente.

Stefanos Tsitsipas, in una contesa sul filo, di un’intensità brutale, batte Dominic Thiem (6/7 6/2 7/6) vittima – sul più bello – del suo tennis ad alzo zero: meglio il greco, impressionante per varietà di gioco e vis agonistica. 

Stefanos Tsitsipas e Dominic Thiem hanno appena concluso una delle più belle finali del Masters negli anni Dieci.

Un classe 1998 che abbiamo visto maturare in nemmeno undici mesi, dall’estate australe all’autunno londinese, e a mò di parentesi due match con Roger Federer a testimoniarlo.

Le dodici palle break avute dal basilese in entrambe le sfide, una sola convertita (alla O2 Arena), decidono incontri dalle dinamiche quasi opposte: se down under, lo svizzero smarrì il diritto nel passaggio chiave e la buttò via (a Melbourne, l’ottavo finì 6/7 7/6 7/5 7/6), la semi londinese – un testa a testa – esibiva i progressi tecnici (e tattici) dell’ellenico (6/3 6/4).

Aggressivo, provvisto di una seconda di servizio più varia e illeggibile (agli Aussie Open era tremebonda..), e con un adattamento del rovescio (classico!) colpito con maggiore anticipo.

Uno stile tutto suo, plasmato su doti atletiche di primissima fascia, che per completezza e variazioni può ambire alla successione col Re e le sue legioni di appassionati.

Tsitsi – e Denis Shapovalov, a debita distanza – pare l’unico che avrebbe le carte in regola per la missione (impossibile).

Nel corredo, il carisma che emana e la bellezza faranno curriculum presso il (leggendario) pubblico generalista.

L’abuso di luoghi comuni, leggere di dio greco imbarazza alquanto, fa dimenticare che Stefanos, coi capelli lunghi e la barbetta ispida, ricorda Bjorn Borg; ovvero l’icona che rivoluzionò l’impatto mediatico del tennis pro.

Al reparto procteriano dell’ATP, controllando la cassaforte, si stanno sfregando le manine.. 

Sembrano già (?) tre gli under 30 con lo chassis giusto per interrompere, negli Slam, la sequenza sbalorditiva di dodici major complessivi inanellati dai tre mostri.

Daniil Medvedev, uscito pazzo dalla contesa di round robin con un Rafa Nadal mediocre quanto resiliente (6/7 6/3 7/6), riuscisse a limitare gli isterismi, tre set su cinque – con quel tennis personalissimo di pressione da dietro – rappresenta un rebus per tutti.

Insieme a Tsitsipas, che a gennaio chiarirà la sua progressione verso la cima della montagna, anche Thiem è pronto.

L’austriaco, detentore della palla più pesante del circuito, contro Nole Djokovic (6/7 6/3 7/6, il due su tre del 2019 o giù di lì..) ci è parso una riproposizione (felice) dello Stan Wawrinka dell’evo d’oro.


Rafa Nadal contro Daniil Medvedev a New York: dopo quasi cinque ore di match (7/5 6/3 5/7 4/6 6/4), arriva il quarto US Open del minotauro.

Date a Dominic, quest’anno al Roland Garros, il tabellone e la programmazione di Rafa Nadal e poi vedremo..

Ribadiamo che, dallo US Open 2017, sono stati i sorteggi a stabilire gli equilibri tra Roger, Rafa e Nole.

Il Federer ’19, a dispetto della forma mentis wikipedistica che non va oltre gli albi d’oro, è stato (miracolosamente) più competitivo di quello del 2018.

Quei due match point all’All England Club falsano la percezione della stagione, in generale, e soprattutto della sua e di Djokovic.

Il serbo, tranne qualche volta nella dimensione indoor, non ha più mostrato il bordone percentuale moderno, scintillante, certosino, degli Australian Open. 

Curioso che, nella parte conclusiva della carriera, Nadal – numero uno finale meritato – negli scontri diretti con gli altri due, con l’eccezione dell’argilla rossa, sia ormai sotto tecnicamente.

Quel metro in più di distanza, che consente al minotauro di cominciare il suo tennis orizzontale di ferocia e di lettura, contro la Next Gen – che il nostro demolisce di magli dal fondo, di slice e di blitz verticali – funziona, opposto al Re e al despota – per ragioni diverse – diventa veleno per sé.

Quali esempi migliori della stesa subita a Melbourne da Djokovic, in finale (6/3 6/2 6/3), e dello splendido Fedal di semifinale ai Championships (7/6 1/6 6/3 6/4)?

Eppure Roger e Novak, per dominare, hanno bisogno dei loro due colpi de luxe, il servizio per lo svizzero, la risposta per lo slavo, in piena efficienza.

Il tempo, la clessidra, che mangia millesimi di reazione e brillantezza nervosa col passare dell’età, incide sulla continuità di queste armi (letali).

La performance di Nadal ha invece margine, essendo un combinato di elementi psicofisici, tattici e tecnici: necessita di un atletismo di base, ricavato da uno specimen unico, un corpo, seppure zeppo di cicatrici, da cybertennis.

In sintesi, Nadal – se non si rompe.. – è un macchinario perfetto dell’esigentissima ATP di oggidì: non si batte mai da solo.

Federer e Djokovic, che all’apice esprimono qualità (il Mago Merlino) e quantità (RoboNole) superiori, ahi loro si.

Ciò che resta del giorno di Re Roger, al passo d’addio nel 2020, e del minotauro e del despota, sarà stabilito dunque dalla maturità della concorrenza, soggiogata da lustri.

La politica, che ha a che fare col marketing e i dindi, è pure nelle condizioni veloci dell’hard court londinese: il 40 di Court Pace Index, rispetto ai 34,6 dell’anno precedente, racconta una tendenza.

Lo spettacolo più gradevole è stata una conseguenza di queste scelte; ripensando allo strazio tragicomico di Shenzhen, delle WTA Finals con un montepremi da 14 milioni di dollari (fanno cinque in più dei maschietti), sul cemento colla che favoriva (..) gli infortuni, si dovrebbero comprendere meglio le esigenze del futuro prossimo.

Che riparte dal Flinders Park, pensionato il Plexicushion, col GreenSet di Javier Sanchez Vicario: vedremo quali condizioni implementeranno gli australiani.

Jannik Sinner col trofeo delle Next Gen ATP Finals, il suo primo titolo da adulto (..).

Qui Italia, citando (nume) Rino Tommasi, per una volta sembra che Boris Becker sia nato a Bolzano piuttosto che a Karlsruhe. 

Attendendo Jannik Sinner, potenzialmente il migliore giocatore italiano dall’evo di Adriano Panatta, nello zerodiciannove del 1000 di Fabio Fognini a Monte Carlo e delle ATP Finals di Matteo Berrettini, fingeremo persino di non provare imbarazzo per questo entusiasmo artificiale, interessato, dei media caciaroni.

Un riflesso italiano che, in altre parrocchie (l’era di Alberto Tomba nello sci fu emblematica), produsse perle ai porci in serie: le paginate sul challenger di Ortisei, di sicuro appartengono a questa categoria dell’anima.