NEW YORK COME STATO MENTALE, ROD STRICKLAND

Povero Rafer Alston, scambiato proprio dopo l’annata che l’aveva sdoganato politicamente.

Skip To My Lou, con notevole abnegazione, era quasi riuscito a farsi accettare da Stan Van Gundy: pochi accenni alle giocate da mammasantissima del Rucker (che lo portarono sulla copertina di Slam), una conduzione degli Orlando Magic quasi sobria e addirittura, nelle giornate più felici, il ruolo di salvatore della patria come nella memorabile gara4 delle finali orientali di quest’anno.

L’affronto di essere stati piazzati ai Nets, per un newyorchese doc, è quasi pari alla beffa di vedere a Orlando, al proprio posto, l’enfant du pays Jason Williams, geniale antistockton dell’ultimo decennio.

Ci deve essere una maledizione sui play della Grande Mela, i Kenny Anderson di questo mondo.

Bisognerebbe chiederlo a uno degli assistenti (il più improbabile) di John Calipari a Kentucky: l’impareggiabile Rod Strickland.

Croce e delizia di ogni allenatore: dagli albori liceali delle fughe da Oak Hill Academy fino all’ultima esperienza russa.

Nel ruolo di play, per un paio di lustri, l’unica vera alternativa lisergica a John Stockton.

Primo passo felino, strepitoso nelle scorribande sotto canestro; rappresentò l’incubo dei centri avversari e il sogno bagnato dei lunghi compagni di squadra.

Saltava senzi problemi la point guard rivale e sfidava il pivot in area pitturata: a scelta, annusando la situazione tattica, scherzava il big man con un canestro in controtempo o un assist al bacio. 

Passatore sublime, rimbalzista clamoroso per la taglia (188 cm) e clutch player: negli anni d’oro, il rendimento nella postseason fu sempre fenomenale.

Ma tutto ciò fu anche accompagnato dalla fama di cavaliere del male, un’incapacità atavica nel realizzare compiutamente il potenziale.

Dopo l’esordio ai Knicks, e la feroce rivalità interna con Mark Jackson, gli anni a San Antonio illustrarono alla perfezione il suo genio ignorante.

Rod Strickland, matricola ai New York Knicks.

In una squadra giovane, e con prospettive da titolo, costituì con l’Ammiraglio David Robinson un tandem di rara efficacia offensiva.

Ma quell’assist dietro la schiena, che finì in terza fila, nel supplementare di gara7 Spurs-Blazers 1990, rimase il momento clou di quella esperienza.

E lo marchiò indelebilmente per tutta la carriera, se è vero che non fu mai convocato per un All Star Game: un misfatto tecnico e un segnale del boicottaggio degli allenatori.

Nel 1996 a Portland, a conferma del suo talento ingestibile, instaurò un clima da guerra fredda con P.J.Carlesimo.

La società, per tranquillizzare l’ambiente, promise all’uomo del Bronx la cessione estiva in una franchigia gradita.

I Blazers, come per miracolo, ritornarono in griglia playoffs: Rod, recitando la parte di quello che ascoltava i consigli dell’allenatore, ebbe via libera nelle sue improvvisazioni creative.

Al primo turno pescarono gli Utah Jazz, nettamente superiori come organico, ma li costrinse (ro) alla bella.

Prima della resa in gara5, una visione straniante: il nostro interagì alla perfezione con una matricola lituana di trent’anni, un certo Arvidas Sabonis.

L’incontro casuale tra due superdotati del gioco, così distanti per cultura e mentalità, produsse una reazione chimica sorprendente.

Contro Randy Brown (sic), al jumper, con la nuova denominazione della franchigia di Washington: gli Wizards.

Di fronte a John Stockton e Karl Malone, i gemelli diversi (..) sciorinarono i giochi a due più raffinati dell’epoca.

Ad accumunare Strick e Sabas, in quei pochi mesi insieme nell’Oregon, fu il linguaggio del loro basket: una concezione superiore, istintiva e gioiosa.

La stessa che, a giorni alterni, fece mirabilie in quel di Washington con Chris Webber e Juwan Howard.

La sintassi tecnica dell’alumni di De Paul apparteneva all’élite della lega: sempre in maglia Bullets lo ammirammo duellare con i Bulls, contro Michael Jordan e Scottie Pippen al loro zenit.

E una sera portò a scuola i primi Lakers dell’era Ko-Shaq: fece ammattire Shaquille O’Neal, gravandolo di falli, con un repertorio devastante di finte e arcobaleni.

Un duello tra point guard di New York: Rod, dal Bronx, e Stephon Marbury, da Coney Island

Il palleggio compatto e il pallone sempre incollato alla mano come fosse un gigantesco yo-yo; quello stile inconfondibile, che presagiva New York come uno stato mentale.

Amarcord di un califfo dalla carriera così così: d’altronde, gli altri saranno nella Hall of Fame, ma nessuno di loro ha vomitato un hamburger rientrando in difesa..

Pubblicato nell’ottobre 2009 su American Superbasket n.20