IL RE HA LASCIATO LA PISTA

Il 4 settembre scorso, in diretta tivù dal centro congressi Gusswerk di Salisburgo, Marcel Hirscher ha annunciato l’addio allo sci agonistico. La decisione era – da mesi – nell’aria. Un segno dei tempi, gli spazi e il clamore (distaccato) suscitati dalla notizia: oltre l’Austria, laddove Hirscher è stato l’atleta più importante dello sport nazionale, reazioni ingessate, colme di luoghi comuni sul campionismo, in attesa di passare ad altro, a qualcosa di meno complesso (?) e più frivolo.

Sempre più imperatore, ma in patria il Kaiser rimane Franz Klammer, nella stagione precedente Marcel Hirscher si era aggiudicato l’ottava Coppa del Mondo consecutiva. Un’impresa, di una difficoltà mostruosa, che diventava normale se affiancata al nome del campionissimo nato ad Annaberg. Con Marcello Ottavo possiamo rileggere, di giustezza, le dinamiche moderne di questo sport. Il record sottolinea le differenze con il passato: caratterizzato dai polivalenti come Marc Girardelli, Pirmin Zurbriggen e Bode Miller: nello sci contemporaneo, esasperato dal punto di vista dei carichi di lavoro e dei materiali, la specializzazione consente solo atleti versatili, non più universali.

Dicembre 2018. In Alta Badia, sulla (difficilissima) Gran Risa, Marcel Hirscher si impone per la sesta volta consecutiva. Thomas Fanara, il secondo, a 2″53.

Nulla pareva casuale nella vicenda di Hirscher. Figlio di due maestri di sci, Ferdinand e Sylvia (che nacque a L’Aia: il figlio ha ancora il doppio passaporto..), si diceva che Marcel abbia imparato prima a sciare che a camminare.  Babbo Ferdinand comprese in fretta il destino del pargolo. Che è cresciuto con l’idea di diventare un ras della neve. Marcellino è stato un miracolo di predestinazione e programmazione. Piccolo, un metro e settantatre, uno specimen fisico (costruito piano piano) che coniugava agilità e potenza: gli ottanta chili di peso lo certificano. L’importanza culturale di Hirscher ha a che fare col ritorno della curva rotonda, dopo un decennio di sciatori evoluti che privilegiavano la velocità bruta. Il resto – che è tantissimo – è stata la continuità nella performance; una cura nei dettagli della sciata e nella preparazione atletica che lo hanno elevato a livelli inusitati. Negli otto trofei di cristallo in fila vinti, dato sbalorditivo in una disciplina a elevato rischio di incidenti, si sommavano le qualità del Re: il cambio di marcia, e di ritmo, la lettura del pendio e la tattica per affrontarlo. L’adattabilità a tutti i tipi di neve e di tracciatura. Un agonista feroce e freddo. Una macchina di vittorie, assemblata pezzo per pezzo, combinazione di talento, passione e business.


Sulla Planai, ai Mondiali 2013, con l’oro in slalom, Hirscher diventa un’icona austriaca.

Paiono eoni (2007) da quando, ai Mondiali juniores di Flachau, il nostro conquistò un oro e un argento. Nello stesso anno, a dicembre, il primo successo in Coppa Europa in gigante, a San Vigilio di Marebbe. Classe 1989, la stessa della fatina Anna Fenninger, Hirscher si è imposto con la politica dei piccoli passi. Nel 2008, vinta la Coppa Europa, la vernice nei Primi Dieci della massima kermesse: nono sulla Chuenisbargli di Adelboden. L’otto marzo 2009 l’esordio sul podio, terzo a Kranjska Gora in uno slalom. Da lì l’ascesa è stata irresistibile: il quarto posto tra i pali larghi ai Mondiali in Val d’Isère, beffato per soli sette centesimi da Ted Ligety, venne riscattato dal primissimo trionfo in Coppa, il 13 dicembre, sulla stessa pista. Nel 2011 il primo dei due – veri – infortuni: la frattura allo scafoide del piede sinistro in quel di Hinterstoder. Quando, nell’annata successiva, l’austriaco si impose subito sulla Birds of Prey di Beaver Creek, in gigante, la saga ebbe iniziò.

Nelle otto campagne vittoriose, Hirscher è stato contrastato sino all’ultimo solamente da Beat Feuz, proprio nel 2011/2012, e ha duellato soprattutto con Aksel Lund Svindal (l’ultimo dei mohicani). La concorrenza, col passare del tempo, non più polivalente, si è mostrata troppo altalenante di fronte al ruolino di marcia – impeccabile – del salisburghese. Il 2017 fu un capolavoro: sottolineò la fragilità nervosa di Henrik Kristoffersen, uno che l’aveva preceduto e battuto dieci volte – nello speciale – ma che naufragò a St Moritz, e l’inconsistenza agonistica di Alexis Pinturault. Alla rassegna iridata svizzera, criticato dai soloni per non aver partecipato al (ridicolo) Team Event, realizzò la doppietta dei Grandissimi, con l’accoppiata gigante e speciale. E se le condizioni del manto, quel pomeriggio, fossero state regolari si sarebbe aggiudicato anche la combinata.. Eppure nel ’18, cominciato sotto i ferri – nell’agosto 2017 – a causa della frattura del malleolo della gamba sinistra, andò oltre. L’incidente estivo in allenamento, il rientro a Levi (impreparato) e poi – dal Colorado – qualcosa che gli americani definirebbero “for the ages”. L’unico gigante smarrito fu in Val d’Isère quando, capintesta nella seconda manche, si portò dietro un telone e chiuse comunque terzo. Ottantuno punti di media, su cento disponibili, a gara disputata: negli slalom, tra pali stretti e porte larghe, vinse tredici gare su sedici. Ad Are, alle finali, la tredicesima affermazione stagionale che eguagliava Ingemar Stenmark (1978/79) e Hermann Maier (2000/01). Sfatò il sortilegio dello slalom a Wengen, consegnandoci una polaroid della sua grandezza. Una Jungfrau/Maennlichen d’antan, che nella seconda prova divenne una trappola: una tracciatura infida, col finale segnato e spaccato, e una marea di inforcate e di uscite. Tutti subirono le gobbe e i cambi – repentini – di pendenza e di neve, tranne uno, il (solito) Re. Che, leader della corsa, sbalordì sul terrazzino e, dal muretto in giù, nella combinazione finale (volata) sul sapone (..). Quell’Hirscher, tecnicamente meglio di quello del trionfo più emozionante, il dì dei Mondiali (di casa, 2013) sulla Planai di fronte a sessantamila spettatori: un Maracanà innevato. O dei 3 secondi e 28 centesimi che rifilò a Felix Neureuther in un gigante, sulla Kandahar di Garmisch-Partenkirchen, nel 2015, in una giornata da toro scatenato.  

I paragoni possibili nell’alveo tecnico sono stati pochi: Ingemar Stenmark, su tutti, e Alberto Tomba. Per adattabilità al velocismo, Hirscher tendeva a Gustav Thoeni e a Benny Raich. Quando irruppe sulla scena, già dominante, si sprecarono le discussioni sulla validità del suo stile tra i pali snodabili: Hirscher li approcciava standoci sopra, favorito da qualità neuromuscolari prodigiose, feline, flirtando talvolta con l’inforcata. Epocale il suo duello nel gigante con Ted Ligety, rivale acerrimo e nemico amatissimo ma non troppo: il rapporto di forze ribaltato col signore del curving e degli sci raggio 35, anche con il cambio di materiali, illustrò al meglio la sua mentalità. E’ sempre il contesto a far germinare il fuoriclasse: le sei paia di sci alla partenza, una nazione che adora lo sci alpino, una conduzione famigliare lucida, etc. Ma il salisburghese, a dispetto delle fatiche omeriche per mantenere quello standard (spossante), nell’ultimo biennio agonistico si è separato dalla concorrenza, diventando – nel bel mezzo della carriera – un riferimento storico. E non avrebbe potuto essere altrimenti: uno che si è imposto otto volte sulla Gran Risa, sette sulla Face de Bellevard, sei sulla Podkoren, cinque sulla Crveni Spust e quattro sulla Birds of Prey..

In un’immagine, il non plus ultra del talento nello sci alpino del ventunesimo secolo: Mikaela Shiffrin e Marcel Hirscher.

Ricchissimo, appassionato di motocross, ha sempre dichiarato – e pareva sincero – di non essere interessato ai primati. Che l’apogeo vero, sugli sci, è una gara eseguendo la curva perfetta. Dallo scavezzacollo degli esordi, un pò arrogante, a giovane uomo saggio e intelligente: l’anomalia, nel rapporto di Hirscher con l’opinione pubblica generalista (..), si concretizza nel suo rifiuto di dare in pasto ai media la sua vita privata. Del figlio avuto da Laura, la moglie, nell’ottobre 2018, non conosciamo ancora il nome. Marcello Ottavo è stato l’antimateria del campione hamburger, del divo sportivo prezzemolo che vuole piacere a ogni costo. Poche parole, ferme, e nessuna sindrome di Peter Pan: in tempi di sovraesposizione mediatica, di pagliacciate alla ricerca (disperata) di clic, una primula rossa.