75 SFUMATURE DI NBA

21/22 di Silverland, la straordinaria macchina di basket, ordoliberalismo e denaro, in piena evoluzione agonistica.
A Natale, con le (classiche) dirette tivù tra ABC, TNT, ESPN, si tira la prima riga sulla lavagna: da una parte i promossi, dall’altra i rimandati.
Il primo settore della stagione regolare è alle spalle, il secondo – Omicron permettendo – punta alla Rocket Mortgage FieldHouse di Cleveland (l’All Star Game), il terzo esaurirà – ad aprile – la corsa playoffs e pure quella (innominabile) al tanking.
Una gigantesca corsa a tappe, l’NBA: dalla notte dei tempi (1946) quello fu, è e sarà.
Siccome abbiamo l’età per ricordarci il secondo anniversario della lega, era il 1980 e sui pantaloncini di tutti (cortissimi, anche se non c’era ancora John Stockton) compariva il 35, ci sprecheremo – ma non troppo – anche sulla celebrazione del settantacinquesimo anniversario.
Ma si parte, e si continua, con l’attualità.

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In questi due mesi, viste partite più gradevoli rispetto al passato recentissimo (il 2020/2021 tra date, schedule e covid-19 fu semitragico: mai osservate tante contese finire dopo un quarto..).
Merito pure delle nuove regole, più fedeli alla palla con estro, che puniscono le furbate offensive: meno pause, premiati il flusso di gioco e la transizione.
Vittime principali del nuovo corso, poiché prima carnefici, Damian Lillard e James Harden.
Poi Luka Doncic e Trae Young.

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Riassunto degli episodi fin qui visti.
L’Est è (molto) più difficile dell’Ovest.
Nella Western due squadre (Suns e Warriors) più una (i Jazz), il resto è mancia (e discontinuità che talvolta odora di mediocrità e pessime scelte manageriali).
L’Eastern, malgrado Brooklyn, è una specie di rissa.
Il livello orientale ci pare più alto, di sicuro più stressante e impegnativo.
Non era così qualche stagione fa.

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La control ball di Phoenix rinnova le Finals 2021.
Meraviglioso dispositivo da canestri a ritmo sincopato, col floor general Chris Paul a dettare i tempi e la cosa più vicina a Kobe Bryant – per impatto complessivo da off guard e classe – degli anni Venti (Devin Booker).
Se CP3 incoraggia le (care, vecchie) zingarate dal mid-range, a Salt Lake City si estremizza il nuovo basket.
Quattro fuori, il cinque boa di nuovo conio (Rudy Gobert) e il miglior driver di questa NBA (Donovan Mitchell).
Due portaerei.

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Nella Baia, dove persiste una cultura (vincente, comunque vada), giocano un basket essenziale, di letture vivaddio, non di schemi.
Creano lo spacing con i movimenti, i dai e vai e i tagli; Pace e Good To Great, muovendo la palla.
Golden State in difesa vive di velocità orizzontale negli aiuti, attività di piedi e di braccia, con Draymond Green regista (vocale).
Damion Lee, Jordan Poole, Gary Payton II, ecc., si nutrono dell’energia (altrui) della palla.

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Se Jonathan Kuminga appare un prospetto (dominante) da All Defensive Team, Andrew Wiggins come terzo uomo è un lusso senza eguali.
Nel caso rientrino bene James Wiseman e soprattutto Klay Thompson, gli Warriors risolleveranno – tra non molto – un (altro) banner.

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Avanza qualcosa da aggiungere su Steph Curry che, migliorando i tagli verso il ferro e l’intelligenza difensiva, è al suo massimo livello?
In un combo che blocca divinamente lontano dalla palla, curioso che Curry – il giocatore tecnicamente più evolutivo della sua generazione e il migliore tiratore puro dell’NBA moderna – quasi non contempli il Catch And Shoot..

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Nella classifica dei tocchi a partita, meno di un mese fa, monopolizzata da Russell Westbrook e Harden (non avevamo dubbi..), Curry era venticinquesimo, Kevin Durant addirittura trentunesimo.
Le cifre, a volte, suggeriscono la verità.

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Lo scorso 1 novembre, Washington ad Atlanta.
Il combinato dei tiri liberi, quella sera, fece 45 su 45: un primato assoluto.
16/16 gli Wizards, 29/29 gli Hawks con Young 11/11.
Alcuni pomeriggi, il raggio di tiro e la velocità d’esecuzione sembrano ologrammi di un videogioco.

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Luka Doncic è il più grande talento europeo mai ammirato in una franchigia NBA dai tempi di Arvydas Sabonis.
Zion Williamson, con quelle caratteristiche, un unicum, una sorta di freak in un universo di super uomini.
Eppure se ogni estate metteranno su chili, su altri chili, non realizzeranno il loro potenziale (atomico).
E’ finita l’era della superstar indolente o maudit, i Charles Barkley di ieri (a proposito di Zion..) non potrebbero più campare oggi di sola prepotenza (fisica e tecnica).

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L’Est di quest’anno, banalizzando, parrebbe una freddura di (quel geniaccio di) Don Marquis.
I destini orientali infatti dipendono da un terrapiattista e da una manoquadra.

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Non sappiamo cosa accadrà con Kyrie Irving e Ben Simmons, ma i loro due casi pesano sulle sorti tecniche e legali del giochino.
Con l’Irving dell’anno scorso, quello prima dell’infortunio, i Nets prenoterebbero (subito) le terze Finals della loro odissea NBA.
Un’iradiddio in isolamento, nei giochi a due (letali quelli con Durantola), con lui la missione di Brooklyn diventerebbe possibile.

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Se a Cleveland e a Boston, Celtics colpiti e affondati dalle sue scelte (di vita..), Irving è stato un buco nero, le mattane di Simmons a Philadelphia paiono ancora più decisive.
L’aussie di LSU è passato, in un lustro, da prossimo Magic Johnson alle mattonate dalla linea dei liberi e alla sparizione nei clutch della serie – imbarazzante – contro Atlanta.
Come Lamar Odom sarebbe perfetto, forse, da play universale – con quei difetti macroscopici (tecnici e mentali) – pensiamo abbia terminato il suo mandato.
Almeno in una contender: ricordiamo poi che la sua firma costò, ai Sixers, Jimmy Butler.

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Le vicende dei due scioperanti (..), oltre che esporci alla possibilità di snocciolare luoghi comuni sugli atleti pro strapagati, inciderà considerevolmente sul prossimo contratto (di lavoro) NBA.
Irving chiama 35053700 di dollari, questa stagione, Simmons 33003936.
L’accordo – nel 2024, ma con un’intesa tra le parti (NBA e Sindacato Giocatori) già nel ’23 – ridifinerà i confini (economici e politici) della lega.
Compreso il potere (enorme..) di ricatto di alcuni contrattoni: la festa è finita.

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Miami, aspettando che Jimmy Butler risolva i suoi problemi (al coccige), naviga a vista.
A novembre, con tutti sani (..), compreso Bam Adebayo che – operatosi a un pollice (della mano destra) – tornerà fra un mese, gli Heat erano il miglior combo a Est.
Difensivamente, cambiano sistematicamente su tutti, provocando transizioni in quantità: Jimmy Bucket, P.J. Tucker, Kyle Lowry, Adebayo (uno che aiuta senza perdere il proprio roller) ci mettono il corpo.
In attacco, vanno in ritmo coi passaggi, non coi palleggi.
L’intesa (istintiva) fra Lowry (uno che blocca bene e che ama le giocate sotto pressione..) e Butler ci appariva promettente per la banda Riley.
Se rientrano a regime, Heat pericolo pubblico numero uno per Nets e Bucks.

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A Brooklyn, il record – considerando gli imprevisti (Irving, covid, infortuni) – è semi miracoloso.
Attenti all’evoluzione nei rapporti tra i due alpha.
Kevin Durant, il migliore giocatore del pianeta oggidì, altresì un seganervi, non sembra felicissimo di questa versione del Barba, a disagio con floater e layup.
E’ già avvenuto nella (mirabolante) odissea di KD, più volte (Oklahoma City e Golden State).

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I Cleveland Cavs di J.B. Bickerstaff spiegano perché l’Est è – nella media – più competitivo dell’Ovest.
I tre sette piedi del frontcourt (Jarrett Allen, Evan Mobley, Lauri Markkanen) sono una passeggiata nel basket del futuro (una volta si diceva così), ucronico e nelsoniano.
Aggiungiamo all’impasto (..) Darius Garland, una point sempre più conscia dei propri mezzi, e un gruppo di veterani (Ricky Rubio, Kevin Love, ecc.) presi bene.
E Mobley, una specie di Mr Fantastic cestistico con il cielo come limite, per adesso è (la nostra) Matricola dell’Anno.

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Charlotte, un’altra sorpresa della Eastern, avrebbe la migliore transizione offensiva dopo il canestro subito: merito anche dei garretti, e delle visioni, di LaMelo Ball.
Uno speciale, che a vent’anni non ci ha fatto ancora capire se vorrà colmare le lacune (soprattutto difensive). O rimanere un (piccolo) Ray Williams a vita.

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A Ovest l’acquario è meno agitato, con l’asterisco dei Memphis Grizzlies che – in uno standard tipico di questa lega – stanno giocando meglio senza la stella Jo Morant.
Laddove allena il coach più sottovalutato dell’NBA, Taylor Jenkins.
Una settimana fa, ritirata la maglia 50 di Zach Randolph, con una (bella!) cerimonia al FedExForum.
Lacrimuccia (virtuale) per quelli del Grit-and-Grind, che già nei primi anni Dieci apparivano come l’ultimo dei giapponesi.
Due post due (Zaccaria e Marc Gasol), una point-guard che zingarava senza tirare da otto metri (Mike Conley), off guard indifferenti al fascino del trentello ma che difendevano come ossessi (Tony Allen).
Bruttarelli, sporchi e cattivi: li amammo in diretta, sapendo cosa rappresentassero.

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Il più grande spettacolo (..) del Pacifico rimangono i Lakers: ma non nelle previsioni (speranze) dei Buss..
Definirli un casino ambulante non è esagerato.
Nelle dinamiche (eterne) di LeBron James, le formazioni “work in progress” sono la norma, ma stavolta gli ingredienti sembrano inconciliabili.
La difesa gialloviola sui pick and roll alti va oltre l’imbarazzo: gli errori di timing sugli aiuti, quando ci sono, portano anche il più scarso dei taglianti o degli slasher a canestro.
Oppure, dopo un hockey assist, a una tripla dall’angolo con metri di vantaggio.

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Il problema più urgente dei Lacustri è Anthony Davis, ovvero colui che – nella stagione della bolla di Orlando – coprì i (pochi) vuoti di sceneggiatura di Re James e soci.
L’ennesimo guaio fisico ha solo sottolineato, un po’ di più, questo AD: statico, che soffre i contatti o non li assorbe come prima, dalle gambe così così.
In post, Davis – un fuoriclasse – non pare il solito, ma è in difesa – lui che due anni fa sigillava (..) il suo canestro – che sconcerta.

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Il declino (provvisorio?) dell’ex reuccio di Kentucky si innesta in una formazione assortita male, che accende e spegne, a dispetto di potenzialità (offensive) notevoli.
I Lakers tirano male i liberi, Westbrook su tutti, e perdono palla: anche qui, Westbrook incide.
Non che il Prescelto sia esemplare: nella sua metà campo, si gestisce (e non potrebbe essere altrimenti, visto il chilometraggio), fa la free safety..

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Westbrook, un (mezzo) fenomeno, era la quarta scelta del mercato estivo losangelino: la prima era il suo (ex) compagno a Washington, Bradley Beal.
Lo stanno offrendo a cani e porci, Russell, con quel salario – 44211146 nel 2021/2022 – gargantuesco.
Come tutti gli All Star, invecchiando mostra più i suoi difetti che i pregi.
La cilindrata fisica esagerata, la reattività (in attacco), la velocità, le letture nella tasca (ebbene sì) non bastano a coprire il lato oscuro: angoli difensivi senza senso, le spadellate da tre, le amnesie tattiche.

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L’esperimento procede, con la clessidra rovesciata, fino a primavera.
James da cinque potrebbe essere una soluzione, parziale, intelligente.
Qualcuno, della scuderia o no, arriverà nei saldi tra Natale e febbraio.
Abbiamo una sola certezza: la panchina di Frank Vogel è la più scomoda di Silverland.

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Cambiano le regole d’ingaggio, gli stipendi e i relativi tetti, ma il curioso destino di Paul George richiama quello di Mitch Richmond negli anni Novanta.
Un campione, la migliore guardia tiratrice della sua generazione dopo Michael Jordan, ingabbiato da una firma e uno scambio.
Una volta c’era il gulag (..), a Sacramento per Richmond, oggi nel caso di PG 13 le migrazioni continue – compreso un anno da MVP ombra ai Thunder (2019) – rincorrendo una squadra da anello.
Un’altra stagione da guadare, aspettando che, la prossima estate, il ginocchio di Kawhi Leonard torni quello di prima.

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La lista dei 75 ha scatenato un tornado di commenti: l’intento, dell’astronave marketing all’Olympic Tower, è anche quello.
L’ottanta per cento dei nomi è (era) scontato, il venti è (era) opinabile, almeno una scelta ci lascia (sempre) basiti.

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L’inclusione di Robert Parish è una tangente pagata alla storia dell’NBA, nel bel mezzo del suo centro di gravità permanente: gli anni Ottanta.
Nel 1985, ai tempi della gloriosa Spaghetti League, assistemmo alle evoluzioni di una (sorta di) star al suo zenit.
Joe Barry Carroll era un principe del gioco, un lungo tecnicamente superdotato.
In Europa trovò uno squadrone (l’Olimpia di allora), nell’NBA spese il suo meglio in una Golden State decadente.
Da primissima scelta, attese messianiche, e con una fama (crescente) di giocatore pigro: l’ambiente fa sempre l’uomo.
Eppure Carroll andò sopra i 20 punti di media per quattro stagioni, nell’era dei pivot.

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Anche The Chief passò nella Baia e incrociò Carroll nel momento decisivo della (sua) carriera.
Quando Red Auerbach scambiò i diritti della prima scelta per la terza assoluta e, appunto, i servigi di Parish.
Boston, in un colpo solo, portò a casa lui e Kevin McHale.
Diciamolo, ai nostalgici di quegli anni ruggenti (e bellissimi): le carte erano truccate.
Dieci franchigie di quella NBA, prima dell’avvento del salary cap, erano lì per fare gli Washington Generals.

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Pensate che Parish, in una linea di lunghi con Larry Bird e McHale, facesse la differenza?
Se al posto del doppio zero ci fosse stato Carroll, sarebbe cambiato qualcosa (nei destini di quei Celtics dinastici)?
O Mychal Thompson (il babbo di Klay: che era forte..).
Parish nell’83, nella serie contro i Bucks, fece pari e patta con Bob Lanier (34 anni) al dessert.
Finì con uno sweep di Milwaukee al Boston Garden.
Opposto a Kareem (Abdul Jabbar) ultratrentenne, le ha sempre prese.

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Nei famosi (fumosi) 75 non si scorge traccia di Dennis Johnson: l’uomo chiave della vittoria C’s contro i Lakers nel 1984.
Che arrivò lì in cambio di un piatto di lenticchie, e Rick Robey, da Phoenix, dove aveva instaurato un rapporto disastroso con (il santone) John MacLeod.
DJ era un vincente, la point che fungeva da vice Larry come play e go to guy, e difendeva su più razze di guardie e ali.
Negli Eighties, dei centri, non contando i sommi, Jack Sikma fu meglio di Parish in ogni aspetto del gioco.

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Il contesto, l’esposizione mediatica (il mercato..), fanno sempre la differenza.
Come accennato sopra, Richmond valeva più di Reggie Miller (che nella lista c’è): ma non lo sapeva il pubblico generalista, niente trash talking con Spike Lee al Madison, nessuna sorella superstar.
Dominique Wilkins, un talentaccio, non spostava quanto il primo Penny Hardaway: una delle comete di Halley di questi 75 anni.
E l’assenza di Gus Johnson, la power forward moderna per eccellenza, grida vendetta. Come quella di (almeno) un “international” (Pau Gasol, Manu Ginobili, Tony Parker).

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Quindi, per chiudere il cerchio, riproponiamo i quintetti decennio per decennio, quelli vissuti (o rianalizzati): chi diavolo ha mai visto giocare Jim Pollard o Larry Foust?
Sul nostro personalissimo cartellino, l’ABA (ignorata) sposta (va) quanto l’NBA e ci piace suggerire qualche nome alternativo, in una postilla, di quelli che se avessero mantenuto le promesse..
Sono inseriti per ruolo – dal (caro vecchio) 5 fino all’1 – e il migliore dell’evo è scritto in stampatello.
“I love this game”..

1960
Bill Russell (WILT CHAMBERLAIN)  Bob Pettit   Elgin Baylor   Jerry West   Oscar Robertson
1970
LEW ALCINDOR / KAREEM ABDUL JABBAR   Elvin Hayes   Rick Barry Hondo Havlicek   Walt Frazier
1980
Kareem Abdul Jabbar (Moses Malone)   Kevin McHale   LARRY BIRD (Julius Erving)   Michael Jordan   Magic Johnson
1990
Hakeem Olajuwon   Karl Malone   Scottie Pippen   MICHAEL JORDAN John Stockton
2000
Shaquille O’Neal   TIM DUNCAN  LeBron James (Tracy McGrady)   Kobe Bryant   Jason Kidd
2010
Anthony Davis   LEBRON JAMES   Kevin Durant   Stephen Curry   Chris Paul

Early ABA
Mel Daniels   Connie Hawkins  ROGER BROWN (Rick Barry)   Charlie Scott   Louie Dampier
Late ABA
Artis Gilmore   George McGinnis   JULIUS ERVING   David Thompson Warren Jabali

WHAT IF..
1950
Bill Spivey
1960
Maurice Stokes
1970
Marvin Barnes
1980
Michael Ray Richardson
1990
Len Bias
2000
Penny Hardaway (Grant Hill)
2010
Brandon Roy