Dicembre di qualche anno fa, il vento siberiano ci rallegrò: il cielo blu, per un attimo, sembrò dipinto da René Magritte.
La sera del 9 il nostro umore mutò, leggendo per sbaglio due righe sul televideo Rai, alla voce ‘In Breve’ dell’Altro Sport: Mirza Delibasic era andato avanti, un mese prima di spegnere le 48 candeline.
Ci fece male la notizia e, ancor più, il poco spazio concesso al personaggio nei giorni seguenti.
Come se l’uomo di Tuzla fosse stato solamente un semplice sportivo di successo degli anni Settanta.
Il ricordo andò subito alle serate di basket jugoslavo che Tv Koper offriva in quel periodo.
Uno era abituato alla nostra pallacanestro, stratattica e difensivamente evoluta, invece la televisione istriana mostrava un gioco ruspante, poco sofisticato ma anarcoide e zeppo di talenti.
I palazzetti erano invasi da una nebbiolina, creata dal fumo delle cicche dei convenuti; sugli spalti parevano tutti posseduti dal demonio e il telecronista, Sergio Tavcar, era impagabile per conoscenza della materia e senso dell’umorismo.
All’improvviso si spalancarono le porte verso un mondo affascinante, popolato di campioni che avrebbero caratterizzato la scena continentale.
C’erano gli squadroni come la Jugoplastika di Petar Skansi e Damir Solman, il Partizan dei Dragan (Dalipagic e Kicianovic) e il Cibona dei miracoli costruito da Mirko Novosel.
Ma nulla fu più romantico dell’epopea del Bosna Sarajevo.
Che passò dalla serie cadetta al trono d’Europa guidato da un giovanissimo tecnico, tale Bodgan Tanjevic. L’ex play dell’OKK si appassionò subito al progetto, nel cuore di una città multietnica e sede di un’università di grande prestigio: la squadra nacque proprio come emanazione dell’ateneo e lì inizialmente pescò i suoi elementi, per poi spingersi verso sud, nel Montenegro.
Boscia, alla ricerca di giocatori nuovi, vide in seconda divisione lo Sloboda di Tuzla e s’innamorò del talento di un fuoriclasse in erba.
Il diciottenne Mirza Delibasic ne scriveva 40 a referto, a ogni partita, con uno stile inconfondibile.
Uno e novantasette, magrissimo, giocava una partita di basket tutta sua: coordinazione e stacco da terra degne di un afroamericano, mani dolci per tirare e passare, visione di gioco e istinti cestistici di un’altra dimensione…Un alieno.
Scelse Sarajevo, rifiutando le proposte più allettanti del potentissimo Partizan, consentendo a Tanjevic la costruzione di una rivale acerrima dei colossi serbi e croati.
Mirza divenne all’istante il nostro Pete Maravich, perchè abbinò alla sostanza una capacità (irriproducibile) di provocare divertimento e stupore con quelle invenzioni.
La fama di scapestrato aveva preso corpo fin dai suoi esordi come tennista (!), quando fu considerato il miglior under 16 della nazione.
Il ragazzino soprannominato Kindze sviluppò un amore particolare verso la rakija, gustosa grappa bosniaca, e le sigarette, preferibilmente marca Marlboro.
Eppure, insieme al tiratore Zarko Varajic e al pivot Ratko Radvanovic, portò il Bosna al primo trionfo jugoslavo in Coppa Campioni.
Nel 1978 arrivò il titolo nazionale e Kindze completò l’annata, regalandosi il terzo alloro internazionale con la Jugo d’allora.
A Manila vinse il Mondiale, dopo due Europei di fila e un argento olimpico a Montreal: con lui c’erano Cresimir Cosic, Dalipagic, Kicianovic, Solman, Zeljko Jerkov, Zoran Slavnic… Proprio giocando il torneo iridato, nella partita contro l’Italia, aggravò le già precarie condizioni della schiena, afflitta da una spondilosi congenita alla colonna vertebrale: passò due mesi senza giocare, costretto a dormire per terra o su un tavolaccio di legno per lenire il dolore.
Mirza fu profondamente slavo nel suo atteggiamento verso il mondo: fatalista e intellettuale.
Un uomo di cultura che si pose per tutta la vita quella domanda senza risposta, ”The unanswered question”, sintetizzata in pochi minuti di bellezza estatica da Charles Ives.
Il ritorno sul parquet nel Novembre ’78 inaugurò il momento più glorioso della sua carriera. Inanellò una serie stupefacente di partite in campionato (epici i suoi duelli con il Cobra Kicia) e soprattutto in Coppa Campioni.
Fu grazie a una sua prova mostruosa che il Bosna superò ai supplementari, in una partita incredibile (114-109 il tabellino finale), il Real Madrid nell’incontro chiave per l’accesso alla finale.
A Grenoble, di fronte a dodicimila persone, la banda Tanjevic scrisse la parola fine alla storia della più grande dinastia del basket europeo di club.
Malgrado una Varese irriducibile, con il Menego eroico ancora semi convalescente da una frattura. Delibasic agì da Toscanini e armò il braccio di Varajic che, nella serata della vita, segnò 45 punti.
Kindze, che ne fece 30, alzò nel tripudio una coppetta da torneo rionale di bocce: quella vera, il Real si era dimenticato di spedirla. Sarajevo impazzì di gioia e diecimila assatanati accolsero la squadra all’aereoporto.
Sui muri della città si inaugurò uno slogan, che divenne un felice tormentone degli ultras di Skenderija: “Sta ce nama Kicia – sta ce nama Praja – tu je nama Kindetu je i Varaja”.
“Non ci importa di Kicianovic – non ci importa di Dalipagic – quando giocano Delibasic e Varajic”.
La magia di Mirza si propagò alla tournee autunnale negli States, contro le squadre NCAA, e proseguì al ritorno in Europa.
95 punti in tre giorni: 51 in Coppa Campioni, nello scontro fratricida contro il Partizan, e 44 allo Zadar. Poi, intoccabile, continuò lo spettacolo risolvendo tre partite consecutivamente: con il Sibenka, segnando allo scadere da posizione impossibile, l’Iskra (11, dei 48 totali, in tre minuti per portare il Bosna in OT) e il Beko, assist vincente in una serata da 44.
La missione terminò sbancando Spalato, 75 a 73, e per la compagine bosniaca fu il secondo titolo jugoslavo. La ciliegina sulla torta dell’annata irripetibile fu l’oro olimpico nell’edizione monca di Mosca, l’inevitabile suggello di una generazione: il servizio militare, dopo la vittoria in Supercoppa ai danni del Cibona, chiuse il momento aureo del numero dodici del Bosna.
Al rientro il Deli espatriò e il Real, memore delle bastonate che aveva preso dall’asso di Tuzla, non si fece scappare l’opportunità.
Le stagioni madridiste furono contraddittorie, perchè videro un Kindze lunatico sul parquet ma sempre decisivo (il titolo della Liga’82 fu opera sua…) e un Mirza che nell’ultimo anno spagnolo, 1983, andò in crisi a causa del suo fallimento matrimoniale.
Lontano dall’urlo dello Skenderija, senza una persona da amare e in un diabolico flirt con gli alcolici, fu salvato dal “fratello” Boscia che propose il suo ingaggio nella Juve Caserta di patron Maggiò. Rispettando il diktat di Tanjevic (niente sigarette e vino), s’allenò in maniera seria e fece sognare tutti, nel sodalizio con un altro eletto come Oscar Schmidt.
Ma alla vigilia dell’esordio, un ictus pose fine alla sua carriera agonistica.
E il ritorno a Sarajevo fu traumatico: affogò nell’alcol e si ritrovò senza soldi.
Lo scoppio del conflitto fu l’ultimo colpo, il più duro.
La Bosnia divenne un campo di battaglia, a Tuzla si susseguirono le carneficine e Sarajevo divenne il simbolo dei Balcani insanguinati.
Il personaggio più popolare nella storia dello sport jugoslavo, visse oltre un anno nel suo appartamento semidistrutto dalle forze serbe, fu poi costretto ad alloggiare in una pensione per scampare ai bombardamenti.
Spedì la famiglia a Spalato, da alcuni parenti di Boscia, e rifiutò l’invito del grande Juan Antonio Corbalan di trasferirsi in terra iberica.
Le parole del gentiluomo che le tifoserie avversarie mai fischiarono furono belle e dignitose: “La mia città sta morendo. Rimango qui, morirò insieme a essa”.
Alla fine della guerra Kindze, malgrado un fisico indebolito, divenne l’allenatore del suo Bosna e poi della nazionale: dopo il dramma, riuscì comunque a rivedere Sarajevo ricostruire se stessa.
La sua ultima rimpatriata a Madrid fu memorabile: in una società come il Real, dove sono passati tanti campioni in tanti sport, la gente gli dedicò un’accoglienza commovente.
Degna di quel fuoriclasse elegante, di un uomo intelligente e inquieto, che un tumore ai polmoni si portò via nella notte fra sabato 8 e domenica 9 dicembre dell’anno 2001.
“Sapeva benissimo che cosa sarebbe arrivato dopo tutta la fatica e l’inutilità, dopo la guerra e la pace e lo spaventoso dolore; in fondo, in fondo a tutto, c’era, che lo aspettava, il vialone coi pioppi, liscio come un olio.” (Carlo Emilio Gadda)
Pubblicato il 18 settembre 2009 da Indiscreto