SINNERMANIA. ISTRUZIONI PER L’USO

Cediamo alle lusinghe del rampantissimo tennis tricolore che, per la gioia della banda Binaghi, promette di essere la Spagna degli anni Venti.
E allora che Jannik Sinner sia, sperando di non affastellare altri luoghi comuni sul soggetto.
Poiché, facendo i calcoli sull’avvenire del pupo (clic, dindi e brioche), si stanno gettando tutti: soprattutto quelli che pensano che (René) Lacoste fosse (solo) un imprenditore magliaro e Stan Smith un paio di scarpe dell’Adidas.
Dunque, i giornaloni si producono in titoloni per condire meglio l’interesse patriottico: lo chiamiamo effetto Tomba, quello che – alla lunga – conduce alla tomba, della disciplina stessa, quando il divo tramonta.
Che poi avvenga in un gioco che, sull’onda cosmica del Federerismo, si sta calcistizzando, amplificherà ulteriormente le distorsioni e il Barnum.

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L’iperbole, positiva o negativa, è il ketchup per confondere il mensale (cliente).
Vendere al pubblico generalista, a digiuno di tennis da decadi, la finale di un 250 – quello di Sofia – come fosse un evento Slam è stato un atto cialtrone.
Un titolista, qualche settimana prima, aveva scritto di un esordio “straordinario” di Jannik Sinner contro David Goffin al (primo turno del) Roland Garros.
Eppure l’undici del seeding era zoppo e, una settimana più tardi, ha annunciato pure la positività al covid-19.
Ci si prepara a saltare sul carro, del vincitore, e intanto (nel Carnevale mediatico) ci si avventura nel magma delle cifre, dei primati.
Vincere un titolo a 19 anni conta molto, in prospettiva, poco allo stato attuale dell’ATP.
Fenomeni di precocità sono stati – per esempio – Bjorn Borg e Aaron Krickstein, ma le due carriere all’antitesi – nei successi e nella fama – spiegano tanto del percorso, e delle buche, che lastricano il tennis pro.

Non sfuggiremo al destino (parac**o) di giudicare l’altoatesino: ovvero, l’italiano che – lo sappiamo da un po’ – prenderà il testimone da Adriano Panatta come vincitore di un major.
Pensiamo, leggendo le viscere (quei tre là non sono eterni…), più d’uno.
A nemmeno vent’anni, di solo gioco quantitativo il bimbo di Sesto è già (quasi) pronto.
Colpisce la palla – a rimbalzo – magnificamente: ci ricorda tanto Tomasino Berdych per la pulizia, la violenza e la naturalezza del gesto.
Con qualcosa – nella compattezza e la velocità del braccio – di quel genialoide di Marat Safin.
Uno che, pensando a ciò che combinò tra circuito e locali alla moda, appare l’antimateria dell’Arbeiter che sembra Sinner: il russo era sì un peccatore…

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Al rovescio, spaventoso quando alterna diagonale e lungolinea, velocissimo quanto carico, un’arma totale, Jannik alterna un diritto (meno fluido, in costruzione) che è sempre più performante.
Una pesantezza di palla esaltata anche sul rosso argilla dell’ultima Parigi: le Wilson colpite da Sinner – nel freddo (umido) di ottobre – parevano sassi dipinti di giallo.
Il suo tennis orizzontale, con quelle leve da cestista o pallavolista, è quello che fa prevedere – un po’ a tutti – una lunga permanenza nelle suite regali dell’ATP.
Il servizio, dal suo metro e novanta di altezza, è già di lignaggio, competente, in attesa di aggiungere più effetti speciali (il kick, più curva esterna da destra…).
Nel robotennis, il carota della Val Pusteria dovrebbe essere descritto a mo’ di colpitore puro.
In avanzamento, con un timing e un impatto che sono il suo quid genetico, da qualsiasi parte del campo (da dietro) scocca traccianti.
E l’oroscopo sta pure nella risposta (sempre più decisiva nell’evo delle luxilon): nel 2020, asteriscato, il nostro è il settimo assoluto – nei punti vinti sulla prima altrui (il 33.6 %) – in una classifica capeggiata dai soliti noti (Rafa Nadal e Novak Djokovic).

Il resto non è mancia: i colpi al volo migliorabili, e nel tennis percentuale di oggi si possono vincere cinque Wimbledon senza avere uno smash decente, miglioreranno.
La testa di Sinner, la capacità di stare nella partita, è un altro fattore decisivo.
Abita il match già da campione, e lo ha mostrato anche nella finale contro Vasek Pospisil (6/4 3/6 7/6), vinta più di testa – rimanendo nella contesa pur giocando così così, dal secondo set in poi – che di braccio.
Il ragazzo di Sesto, che abitava vicino alla funivia, appare molto più maturo del suo aspetto, da adolescente.
Oltre i quarti di finale al Roland Garros, ci aveva impressionato all’incipit (sfortunato) di Flushing Meadows.
Opposto a un fautore del robotennis ignorante – Karen Khachanov – per due parziali si era imposto di giustezza, comandando l’inerzia.
Persino con i problemi alla schiena, e un crampo alla coscia, quasi immobile, Sinner era più lucido del russo: la perdeva, sfinito, al tie-break del quinto (6/3 7/6 2/6 0/6 6/7) dopo aver accumulato 68 vincenti.

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A Sofia, nei quarti, la gara più convincente di una carriera che deve (ancora) cominciare.
Contro Alex De Minaur, un trottolino dalla cazzimma hewittiana, un bel test: Sinner – piano piano – ha travolto l’australiano sul ritmo (insostenibile) degli scambi (6/7 6/4 6/1).
Lui a manovrare, di fendenti, e l’altro a rincorrere sui teloni: la polaroid di un (possibile) futuro?
In altri contesti, come è logico che avvenga, si leggono le lacune tecniche.
A settembre, al Foro Italico, nell’ottavo con Grigor Dimitrov – ex Baby Fed nel bel mezzo di un fosso – il rosso (dopo una partenza a razzo) era andato in confusione (6/4 4/6 4/6).
Griga, affetto dalla sindrome di Richard Gasquet ma dotato di manina delicata, per rallentare gli scambi si era rifugiato in una sequenza di back.
Il nostro, a disagio sulle palle basse e rallentate, smarriva il filo del gioco mostrandosi (troppo) acerbo davanti alle variazioni del veterano, che lo ubriacava di “velenose”.
Questi vuoti di sceneggiatura, colmabili (senza che Sinner si trasformi in un novello Pat Rafter: il tocco a rete non sarà mai quello), li esploreranno i suoi avversari (magari alle corde…) nei prossimi anni.
Ci lavorerà (lavoreranno) su.

Riccardo Piatti è la persona giusta al posto giusto.
Conosce l’ambiente, da eoni, comprese le trappole e gli squali: la squadra costruita intorno a Sinner, dodici persone dodici, materializza l’esigenza di quello che è – prima di tutto – un business imprenditoriale, basato sulle vittorie e il denaro incassato e generato.
Il modello Alex Zverev, per le doti complessive (simili nello chassis e nelle potenzialità) e le recenti vicissitudini (del tedesco: tra management e fidanzate…), sia di monito.
Ogni cosa, negativa, se sfugge al controllo rischia l’effetto valanga.

Saremmo sorpresi se la profezia, della successione all’Adriano nazionale doc 1976, non si avverasse.
La frase di Rino Tommasi, su Boris Becker se fosse nato a Merano (invece che a Leimen), oggi pare ucronica e più attuale che mai.
Ci auguriamo che Sinner, con le spalle larghe, regga la pressione gigantesca e mantenga le promesse.
Anche se le volée del rosso malpelo tedesco, di Becker che alla sua età aveva già trionfato due volte a Wimbledon, non le può fare: il robotennis è purtroppo una roba seria, una bolla (!).
Speriamo che qualcuno abbia insegnato a questo (ex) bambino dotato, ad avere pietà (di sé) e la bellezza dell’oblio.