Capitolo 33, Col d’Izoard – “In Fuga Dagli Sceriffi”

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Questo, in anteprima, è il Capitolo 33 tratto dal libro.

Leggete, comprate (costa 23 euro…), condividete.

Lo sport è cultura. Non è la spazzatura che (vi) ci vendono.

33.
Col d’Izoard


Ci sono luoghi che fisicamente appartengono alla Terra, ma che paiono concettualmente il riflesso di altre dinamiche, poco terrestri.

Il Col d’Izoard si potrebbe spiegare con una scena de La montagna sacra, la felice allucinazione estetica di Alejandro Jodorowsky: in uno dei più surreali momenti del film, il protagonista entra in una casa e di là della porta accede a uno spettacolare panorama montano.

Ecco, l’Izoard è una cima che concettualmente non appartiene alla terza pietra dal sole: appare altro, qualcosa di metafisico e inquietante.

Quando si parla del «mostro» ci si riferisce al versante sud della scalata, quello che si attacca da Guillestre.

Le due arrampicate del monte non sono quasi mai la faccia della stessa medaglia; salendo da Briançon si affronta un’ascesa depotenziata da pendenze importanti e dal fascino perverso di quel simulacro.

Perché il concetto ascensionale, nel caso dell’Izoard giusto, porta a considerazioni di natura opposta: si raggiunge la vetta sprofondando in una dimensione sulfurea.

Esiste solo un esempio, parallelo, che possa affrancarlo dalla sua solitudine alpestre: è il Mont Ventoux, scherzo della natura della Provenza.

Come il parente lontano qualche centinaio di chilometri, il Colle vanta evidenti simbologie che rimandano ai poeti toscani del Quattrocento.

L’Izoard è unico non solo per lo scenario, ma perché legato alla grandezza di Tour e Giro.

È quindi decisivo per l’immaginario di entrambe le corse, e lo è talmente da costituire un monumento a sé.

L’Izoard va dunque oltre l’idea di un semplice valico, pur non essendo mai stato, prima della Grande Boucle 2017, l’arrivo, il culmine, di una corsa.

È una montagna, una salita, bizzarra: si compone di quattro luoghi distinti – più un epilogo – che sembrano abitare in dimensioni diverse tra loro.
Il falsopiano bastardo, solcato molte volte da un fastidioso vento contrario, che sale simulando una pianura innocua: lo spazio nel quale si prepara l’agguato.

L’erta vera e propria, da Arvieux, che introduce alla sezione tecnicamente più impegnativa della salita: caratterizzata dal passaggio in un bosco.

La Casse Déserte, che in un tratto scende leggermente, l’enigma minaccioso che asciuga il cuore e lo sguardo di chi la attraversa.

Gli ultimi tre chilometri, toccando il cielo a ogni tornante, prima di transitare ai 2360 metri della vetta.

L’approccio è fondamentale, traditore; proprio al termine della discesa del Vars, accadde uno degli episodi più leggendari nella storia del ciclismo.

Nel 1948, alla Grande Boucle, Gino Bartali saltò, senza nemmeno guardarlo, il fuggitivo Jean Robic.

Il fuoriclasse di Ponte a Ema rimase a distanza di sicurezza da Testa di vetro per una decina di chilometri: volle illuderlo che lui pure fosse al massimo.

Quando lo sorpassò, a doppia velocità, il povero Robic crollò fisicamente e psicologicamente.

Il cielo nero quel dì trasformò il falsopiano in una palude: la pioggia favorì l’impresa di Ginettaccio, che demolì la corsa e firmò la Storia italiana, quella vera.

Quel 15 luglio salvò l’Italia da una guerra civile, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti del giorno prima.

Un’esagerazione storica, ma anche un episodio che spiegò meglio di mille ricerche sociologiche il legame tra questo sport e il Bel paese.

L’Izoard di quel periodo, bestia mutante, era poco più che un sentiero per capre: gli atleti che lo affrontarono prima dell’asfalto, da Philippe Thys a Louison Bobet, lasciarono a quel picco un tributo di sudore e sangue.

L’anno dopo, al Giro, Fausto Coppi rispose al rivale con la più leggendaria impresa del Novecento sportivo, ben oltre gli 8,90 metri di Bob Beamon nel lungo ai Giochi di Messico ’68 e la tripletta olimpica (5000, 10.000 e maratona) dell’uomo-cavallo Emil Zátopek a Helsinki ’52.

La Cuneo-Pinerolo del Campionissimo diventerà, da quel momento, l’equivalente agonistico del monolite di Stanley Kubrick in 2001: odissea nello spazio.

Da Brunissard ci s’immerge fra pinete e abetaie nel tratto ancora oggi più aspro: nemmeno riusciremmo a immaginare lo scenario del 1923, quando Henri Pélissier spiccò il volo verso il suo Tour. Per Plume, campione avanguardistico per atteggiamento e ferocia competitiva, fu il suggello a una carriera incredibile e una vita maledetta.

Quanto fosse orribile quella salita lo spiegò Apo Lazarides: in fuga solitaria, circondato da un panorama inquietante, preferì aspettare gli inseguitori perché impaurito dalla prospettiva di incrociare gli orsi.

E anche nell’epoca postmoderna fu scenario di duelli curiosi: nel 2000 Gilberto Simoni perse il Giro rincorrendo Marco Pantani, dimenticandosi che avrebbe potuto vincere solo isolando Stefano Garzelli, poi lui sì in rosa a Milano.

Un mese dopo, il Pirata ebbe alle calcagna la maglia gialla Lance Armstrong, in un classico regolamento di conti tra sceriffi della carovana.
Già, perché a un certo punto la boscaglia sparisce e la strada è sbranata dalla Casse Déserte.

La Valle della Morte è una creatura dantesca, che pare creata da Dio per intimorire i coraggiosi che la attraversano. Inventa panorami inediti per il resto del globo: se con il maltempo sembra un mare lunare, lugubre e imponente, in una giornata di luce sviluppa un’allucinazione visiva. Stalagmiti imponenti di roccia oscura s’innalzano grandiosi, circondati dalla polvere di pietre erose e disfatte.

Un deserto alpestre che pare abitato da spettri e bestie infernali.
È però ascoltando il suono di quel paesaggio che capiamo l’eccezionalità dell’Izoard: è forse l’Aleph, la sfera magica borgesiana che permette di vedere l’inconcepibile universo e di sentire, osservandone le azioni, i pensieri degli esseri umani.

Oppure, è un’idea primigenia del pianeta Terra, addirittura un avvertimento futuro ai propri, stolti, abitanti: perché va oltre la
nostra immaginazione.

Dopo l’inenarrabile, le balconate finali: ultima fatica prima della discesa ricompensatrice. Stravagante anch’essa, veloce e panoramica, suggerisce voli pindarici verso il verde della valle: più volte palestra di duelli infuocati, vide nell’89 un tentativo della maglia gialla Greg LeMond.

L’americano non staccò il rivale Fignon ma riuscì a fiaccarlo: difatti, sulla salitella che porta alla Briançon vecchia, Laurent ebbe una piccola emorragia di secondi. Quindici, quasi il doppio del bottino (otto) che poi negherà il doublé, proprio sui Campi Elisi, al parigino.

La cattedrale dell’Izoard, solcata da omini su trespoli ieri in alluminio o acciaio, oggi in carbonio o titanio, rimane il luogo non solo per osservare il ciclismo, ma soprattutto per vegliare il tempo che scorre.

Perché spazio privilegiato, cristallizzato nel suo fascino teosofico: ogni corsa ciclistica che lo attraversa rende omaggio al suo mistero.

Frutto di un incantesimo naturale, ossianico, che ci rapisce perché inspiegabile, lontanissimo come Orione ma simbologia di qualcosa che ci appartiene dalla notte dei tempi.