Lo rividi su un canale spagnolo a scrocco, un pò come quei fantasmi del passato che spuntano fuori a sorpresa: la sagoma inconfondibile, le movenze da panterone rallentate dalla ciccia in eccesso e le mani degne di un Vladimir Horowitz della pallacanestro.
Fu patetico, ma allo stesso tempo consolatorio, rivederlo su un parquet dopo tutti quegli anni.
Le promesse mai mantenute, lo Zander Hollander che gli predisse la Hall of Fame, e le delusioni accumulate durante una carriera cestistica che non tradusse in realtà le potenzialità clamorose.
John Sam Williams nacque a South Central, il ghetto di Los Angeles, luogo mitizzato dall’hip hop non certo per il clima da isola caraibica.
Specialità preferita della zona, che dal 2003 il consiglio comunale losangelino (per esorcizzarne la fama..) ha ribattezzato South L.A., oltre agli omicidi e ai Niggaz With Attitude di Compton che (de) generarono il gangsta rap, i giocatori di basket di altissimo livello: l’ultimo Russel Westbrook, in una lista che comprende Marques Johnson e Baron Davis.
John Sam, il soprannome The Rock se lo meritò nei playground: le spalle da culturista, i piedi da ballerino, doti fisiche straripanti e una visione di gioco da playmaker.
Willie West, pastore di anime della Crenshaw High School, ne raffinò le doti: i cinque ruoli del gioco, sciorinati con sapienza dal giovane iperdotato, chiamarono ondate di osservatori universitari alle partite.
Qui si fece, ahinoi, la storia: mamma Williams, resasi conto del valore del figliolone, inaugurò un’asta per la firma del giovincello.
Un caso che costituirà un modello di ispirazione per i reclutamenti NCAA.
L’appalto, truccato, lo vinse Lousiana State; il merito fu soprattutto della mediazione di un cinquantenne bianco, tale Stan Rothe, accompagnato da una fedina penale (quattro anni di galera..) imbarazzante.
Le scorazzate nel quartiere del neo LSU a bordo di fuoristrada costosissimi, confermarono i metodi poco arcaici usati per convincere lui, e la genitrice, della scelta.
Con i colori che furono di Pistol Pete Maravich, giocò appena due stagioni; giusto il tempo di condurre i Tigers alle Final Four 1986.
Un’impresa che la truppa di Dale Brown non ripeterà, qualche anno dopo, pur vantando Shaquille O’Neal e Chris Jackson.
Poi, inevitabile, arrivò la chiamata numero dodici degli Washington Bullets.
Quel draft fu la fine di un’illusione andata avanti anche fin troppo: l’utopia di atleti seri, maturi e pronti per la vita oltre che per il piede perno.
Mai nella storia arrivarono tanti super così ingestibili.
Il prologo tragico fu rappresentato dalla morte del favoloso Len Bias, ventiquattro ore dopo la cerimonia, a causa di un mix letale di cocaina e crack.
Troppe prime scelte distrussero la propria carriera abusando di droghe pesanti, Chris Washburn e William Bedford su tutti, e non c’è bisogno di elencare i numeri da circo combinati da due rimbalzisti provenienti da Marte, come il verme Dennis Rodman e Roy Tarpley.
Piccola parentesi amarcord, quest’ultimo lo incontrammo a Torino la mattina di una rissa serale FIBA: trattasi della devastante finale di Coppa d’Europa 1993, tra Aris Salonicco ed Efes Pilsen ( 50-48 l’eloquente referto..).
Il ragno di Michigan, già alticcio alle undici del mattino, ci biascicò qualcosa in uno strano slang, prima di terminare una mezzo litro di birra.
Tornando al nostro eroe di South Central, con quegli occhioni da bravocristo spaesato, da matricola si comportò bene a dispetto delle inevitabili difficoltà d’ambientamento: era una NBA dal profilo alto, l’espansione non ne mortificava ancora il livello medio.
La Roccia emerse dopo un anno di rodaggio, nel Febbraio 1988, in coincidenza con l’inserimento in quintetto base.
Quei Proiettili divennero un combo pericoloso per chiunque, vantando All Star come il vecchio Big Mo Malone, il cecchino Jeff Malone (una sentenza, il suo tiro in sospensione) e Bernard King, il tre più sottovalutato ogni epoca: offensivamente, all’apice, il meglio di sempre nel suo ruolo assieme a Kevin Durant.
Il ventunenne della costa ovest dialogò tecnicamente a meraviglia col trio appena citato: mostrò una propensione rara a ricoprire, di volta in volta, il ruolo più utile alla causa.
Si fece notare pure per la capacità di produrre la giocata decisiva all’ultimo secondo: per esempio, contro Phila una stoppata a Charles Barkley e opposto ai Bulls, sulla sirena, il canestro vincente.
La miniserie al meglio delle cinque dei playoffs 1988, contro i Bad Boys di Detroit, fu emblematica delle capacità di Washington: portarono i futuri dinastici del Michigan alla bella, esibendo un gioco più brillante dei loro avversari.
Carabina Jeff abusò della difesa dei Pistons e Re Bernardo offrì un saggio della sua classe, ma il perno dei capitolini fu la poliedricità dell’ex LSU.
Aiutò nella tonnara dei rimbalzi Moses e funse da play ombra.
Le dimostrazioni di quel combo non bastarono alla dirigenza per la riconferma del Malone re dei tabelloni e i Bullets cominciarono a riformulare il progetto: attorno a Williams, King e (Jeff) Malone.
Il nuovo allenatore, il leggendario Wes Unseld, si innamorò (..) del californiano impiegandolo in ogni ruolo: dal play al centro, senza soluzione di continuità, uscendo dalla panchina.
Il 1990 sembrò rappresentare l’anno della consacrazione: il 34, sbocciato definitivamente, parve la pietra angolare della franchigia.
La polivalenza, abbinata alla tecnica sopraffina nell’uno contro uno; il soffice piazzato dai cinque metri, le conclusioni sotto canestro da ambidestro e il dono geniale per il passaggio.
La capacità inusuale di coinvolgere il resto della squadra nel flusso della partita, la difesa competente spalle a canestro e l’indifferenza verso le statistiche personali.
Poi, a un passo dal suo (probabile) primo All Star Game, il ginocchio destro si lesionò e la carriera del presunto Larry Bird nero imboccò una discesa folle.
J.S. Wil, al camp prestagionale estivo, si presentò trasformato: come un supereroe al contrario, The Rock divenne Hot Plate.
Minacciosamente sui 160 chili, il suo amore per il pollo fritto e la birra fecero sparire – dietro una montagna di grasso – il talento bulimico (..) del nostro e (di conseguenza) il giocatore chiave dei Proiettili.
Il rientro tragicomico avvenne nel Febbraio 1991.
Allo spaventoso atleta di LSU si era sostituito un lottatore di sumo, incapace di librarsi in aria come ai bei giorni.
Malgrado tutto ciò, la classe era inalterata e, in un combo in totale ammutinamento, sfiorò i venti ad alzata nell’ultimo mese e mezzo.
La sospensione per l’intera annata 1992, a causa del tonnellaggio eccessivo, mise i titoli di coda del rapporto con i Bullets e in pratica sancì la fine sentimentale (sic) del suo impegno in Sternville.
Dopo i celeberrimi moti di rivolta a El Ei, il cui epicentro fu proprio South Central, si ricordò di lui solamente Larry Brown.
Fu l’ex North Carolina a regalargli gli ultimi tre anni di militanza NBA: prima dei Pacers, un biennio a casa con i Clippers, in un’edizione (quella del 1993) irresistibile per i mutanti coinvolti nell’operazione.
Oltre a Williams, Danny Manning, Ron Harper, Mark Jackson, Stanlio Roberts, Snake Norman, Molester Conner.
Più che una semplice squadra di pallacanestro, un culto pagano amministrato da uno scienziato pazzo.
Per un lungo periodo, esauritasi la parentesi a Indianapolis, sembrò destinato al divano di casa ma la sua versione di successo, ovvero Magic Johnson, lo chiamò per un tour di vecchie glorie.
Riuscì a ripresentarsi in una forma accettabile (magrolino all’osso, fece spostare l’ago della bilancia sui 130..) e affascinò amatori iberici dell’ACB.
L’epilogo divertito fu in Spagna, vestendo quattro casacche diverse.
Le fermate della Vuelta furono a Granada, Manresa, Valladolid e Alicante: al Forum i fortunati della Pisuerga ebbero il privilegio di apprezzare, in meno di dieci anni, i due lunghi forse più intelligenti nella storia moderna del gioco (lui e Arvidas Sabonis).
I compagni adorarono quel ciccione, non solo per gli assist, ma anche per la capacità di fare spogliatoio e la bontà d’animo.
Dall’altra parte del mondo, sull’asfalto amaro di South Central, una decina di suoi amici avrebbero potuto confermare l’assioma: ogni mese, un assegno di John Sam li aiutava a sopravvivere.
Quando MC Williams saliva in cattedra, a dispetto della pancia e della mobilità laterale relativa, squarciava l’area pitturata con i suoi palloni al laser.
L’immagine sbiadita ma orgogliosa di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, Joe Allen spagnolo suo malgrado: la parabola inimitabile di Piatto Caldo, il fuoriclasse imprigionato in un corpo deformato dall’appetito insaziabile, sta tutta qui.