VIVERE, VINCERE (UN ANELLO) E MORIRE A L.A.

Un mese e dieci giorni di Silverland.

La mischia, da anni ormai, è nella Western: i Lakers, a sorpresa ma non troppo consultando il calendario, sono quelli partiti meglio dai blocchi.

Non sono bellissimi da vedere, ma giocano giusto, soprattutto difensivamente.

Il cartello “Lavori in corso” non può coprire la grandezza di LeBron James che, a trentacinque anni (li compirà il 30 di questo mese), spiega pallacanestro ai fedeli e agli infedeli.

La possibilità di innescare quella piovra di Anthony Davis, che negli ultimi tre metri di campo – di qua e di là – è il giocatore più dominante di oggidì, ne esalta il fosforo (in abbondanza come i muscoli).

Uno scienziato di centoventi chili, che legge il gioco e passa la palla – in transizione, in post, dal pick and roll: palloni laser teleguidati – come pochissimi del suo rango nobiliare nella storia: siamo a undici assist a partita e per trovarne uno alto come lui, capintesta della classifica, si deve tornare indietro nel tempo a un altro freak che, con la stessa maglia (numero 32), faceva magie.

Corsi e ricorsi di una franchigia che, al pari di Beantown dal lato opposto degli States, è più uguale delle altre ventotto.

Eppure si muove L.A. tutta, compresi i Clippers una volta barzelletta dell’NBA: la promessa, invitante, è di un derby a mò di testacoda e di evento tellurico quando farà caldissimo.

The Big One, per fortuna sul parquet dell’arena condivisa.

Figli di un Dio minore sempre e comunque, i rossoblu sono un universo a parte anche nel disciplinato (dalle leggi..) professionismo americano.

Ecco perchè pensiamo, essendo d’uopo l’ambientazione losangelina, che Roy Batty sia uno dei nostri: abbiamo visto cose, noi clipperologi, che voi umani non potreste nemmeno immaginare.

La saga della franchigia partì nel 1970 da Buffalo, costa est, con la ragione sociale Braves; preistoria NBA dell’espansione con scalfiti già – nei cromosomi – alcune peculiarità.

In ordine sparso: il gusto per i fuoriclasse dalle mani alla Rostropovich, le scelte e il mercato dissennati e, last but not least, una sfortuna cosmica.

Il pubblico scarseggiava in una città consacrata all’hockey, al draft passarono oltre Calvin Murphy, futuro Hall of Famer, e tre apparizioni ai playoffs (che considerando lo standard californiano sembrano prodigiose) non bastarono per radicarli nel Connecticut.

Playoffs 1975, Braves contro Bullets. Bob McAdoo sale al jumper opposto a Elvin Hayes e Wes Unseld: in quelle sette partite, McAdoo fece 37,4 punti e 13,4 rimbalzi di media con un cinquantello (e 21 carambole) in Gara4.

Erano gli anni dell’Uomo Cavallo Robert Kauffman, di Randy Smith, del paisà Ernie DiGregorio (lo zio tecnico di Steve Nash..) e di un allenatore geniale, Jack Ramsay.

Ma fu soprattutto l’era aurea di Bob McAdoo, sensazionale Dirk Nowitzki ante litteram: centro atipico, un cinque di agilità con le gambe di un quattro e il tiro di un tre.

Definizione abusata ma in questo caso meritata: un giocatore del ventunesimo secolo che giocava trent’anni prima. Le turbolenze societarie, ahiloro, furono innumerevoli e vi risparmiamo i dettagli dei passaggi di proprietà (quattro in otto anni).

La decisione di spostare i Braves a ovest fu presa da Irv Levin, che scambiò franchigia con il precedente boss, John Brown. Levin gli diede i Boston Celtics: un pò come vendere uno Stradivari per una chitarrina Eko.

Prima del trasferimento, un Picasso: per qualche dì, nel roster, la frontline fu costituita da Moses Malone, Bob McAdoo e Adrian Dantley.

Appurato che in alcuni momenti avrebbero dovuto giocare con due Wilson contemporaneamente, trattasi di un trio irripetibile che la dirigenza diede via, in un anno, in saldo.

La vernice della nuova edizione, i Clippers, fu a San Diego.

Lì si rinnovarono le qualità (..) che ne amplificarono la fama, dubbia.

Squadre poetiche, zeppe di geni incompresi, il gusto forte per la rimpatriata di una gloria locale e la spiaggia garantita per tutti dopo l’ultima partita di stagione regolare.

Fu il tempo della coppia Freeman Williams-World B. Free, frombolieri dal talento debordante quanto ingestibile, del poliedrico Michael Brooks (stroncato da un infortunio, altro deja vu Veliero) e di Joe Bryant, papà di Kobe, una guardia rinchiusa crudelmente nel corpo di un’ala forte.

La firma del Bruin Bill Walton, parcheggiato in lista infortunati in attesa di un anello trifoglio, diede il via alla serie di enfant du pays. Prima e dopo El Ei, dal 1984 in poi, la sfilata è suddivisibile in tre categorie: i califfi in prepensionamento, Marques Johnson (ai Bucks era un’iradiddio), Jamaal Wilkes, Baron Davis, oppure prossimi a un incidente che ne avrebbe rovinato la carriera (Norm Nixon su tutti); infine le stelle di un firmamento promesso e mai realizzato, i John Williams.

Nel trambusto l’arrivo del Presidentissimo, ovvero Donald Sterling, che meriterebbe un’enciclopedia a parte.

Il primissimo derby losangelino poteva vantare un duello de luxe tra Norm Nixon – velenoso ex gialloviola – e Magic Johnson.

L’odissea del Benito Fornaciari yankee è mostruosamente bipolare, quasi impossibile da capire con la nostra mentalità (pallonara). Il palazzinaro di Beverly Hills acquistò i Clippers nel 1982 per nemmeno tredici milioni di dollari: li avrebbe ceduti (costretto dagli eventi..), trentatre anni dopo, a due miliardi.

Imprenditore d’assalto, squalo del Pacifico, il Tolkowitz per eoni fu la pecora nera (..) dell’allora Sternville. Assunse Elgin Baylor da giemme, una provocazione o semplicemente una genialata: se volete realizzare l’entità della mossa pensate, in ottica italiana, ad Alessandro Del Piero amministratore delegato del Torino Football Club.

Le leggende metropolitane sul personaggio si rincorsero: dalla segretaria personale incapace di battere a macchina ma coniglietta di Playboy, fino agli insulti dalla prima fila al Barone (“Fat! You’re out of shape!”) passando all’immortale risposta a un suo dipendente sul perchè i Clips risparmiassero sulle calze (“Con i soldi che prendono i giocatori, che se le comprino..”).

L’immagine, malgrado interventi di chirurgia estetica che lo avvicinarono alla fisiognomica del Joker di Frank Miller, non migliorò neanche con l’annuncio di propositi filantropici.

Lo sbandieratissimo centro di assistenza nella Downtown L.A., a favore dei senzatetto della zona, mai si concretizzò: in compenso, l’area edificabile divenne una realtà.

E sorvoliamo sulla storiaccia che coinvolse l’allenatore Kim Hughes.. Se Donald, cavaliere pieno di macchie ma privo di paure, rimase lo yin della novella, lo yang l’hanno incarnato gli Eric Piatkowski (“Bel tiratore quel bianco, Pietqualcosa..” “Piatkowski presidente, gioca con noi da sei anni..”).

Il tremendismo Clippers si realizzò nei draft cretini (Michael Olowokandi) così come in quelli visionari, che promettevano la conquista del sistema solare: Danny Manning, atteso a prestazioni messianiche, si ruppe il crociato alla ventiseiesima partita dell’annata da matricola (1989).

Lamar Odom difende su Danny Manning (in maglia Bucks, a fine corsa): i due giocatori più talentuosi e versatili dell’evo Sterling.

Diciotto anni anni più tardi, Shaun Livingston vide in frantumi prospettive oniriche – alla Penny Hardaway – a causa di un incidente sul parquet dalle dinamiche raccapriccianti.

Dal trasloco hollywoodiano fino al 2011, collezionarono solo quattro partecipazioni alla post season; e una volta ci si andò (1997) pur provando disperatamente, come fece mezza NBA, a piazzarsi per la lotteria. Il 36-46 non bastò per almeno fantasticare su un certo Tim Duncan e al primo turno arrivò – puntuale – lo zero tre contro i Jazz di Stockton e Malone.

L’anno prima, in pieno boom commerciale della lega, persino la CNN si interessò al caso: l’intervista, epica, fu all’unico spettatore che occupava un settore intero della Memorial Sports Arena.

The few, the proud, the Clippers fan. Il fortunato possessore dell’abbonamento rispose nello stile, ironico, chic e snob, dell’appassionato Veliero.

L’altra metà di Los Angeles vanta pochi tifosi vip ma essenziali: Billy Crystal e il mitologico James Goldstein, insostituibile gola profonda del gossip En Bi Ei.

La ricerca della bellezza, dell’incanto cestistico, ci regalò il primissimo Lamar Odom, un animale da basket troppo divertente per essere vero, e la cavalcata incompleta del 2006.

Quando un’unità improbabile di birbe collaudate (Sam Cassell, Cuttino Mobley, Elton Brand, Corey Maggette) e di sbarbatelli (Livingston, Chris Kaman, Quinton Ross) giunse a un supplementare da una clamorosa finale occidentale.

I Clippers più estatici rimasero comunque quelli del periodo Larry Brown, lo scienziato pazzo delle panchine.

Un anno e mezzo indimenticabile. Lui a educare e incitare l’armata, Danny Boy (il supereroe Jayhawks) a dare l’esempio sul campo: mani e piedi da eletto.

Con loro, una sorta di prerogativa filosofica del sosia di Captain Nice, un gruppo di atleti talentuosi e un pò sprecati.

C’era ancora il Ron Harper degli esordi, una guardia volante, estranea a qualsiasi concetto difensivo (quello dei Bulls sarà stato il gemello monozigote?).

Il serpente Ken Norman e il generale Gary Grant: messi assieme, le doti offensive di uno, il palleggio dell’altro, ne sarebbe uscito un All Star.

Poi Mark Jackson, principesco in post e nelle assistenze in traffico; l’uomo più posterizzato nella storia dell’NBA.

Capitò sotto canestro durante una space jam del Jordan anni Ottanta, che gli atterrò sulla testa realizzando un numero teletrasmesso migliaia di volte.

Ma il quadretto più imbarazzante per il newyorchese rimase una due mani, con la zazzera bionda al di sopra del ferro, di Tom Gun Chambers che lo saltò nemmeno fosse un puffo.

C’erano i finti magri Stanlio Roberts e Hot Plate Williams, entrambi scuola LSU: il primo rinunciò al ruolo di centro dominante per dedicarsi alla vida loca, il secondo (un Einstein sul legno) preferì il pollo fritto e la birra alla gloria eterna.

Infine, per completare lo zoo, Lester The Molester Conner, un cerbero dalle mille vite.

Nel 1993, li mortacci, nei playoffs beccarono la pagliuzza cortissima: gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon.

Persero alla bella di quattro, giocando in maniera esemplare: Brown aveva a disposizione quintetti dove tutto il personale giostrava, indifferentemente, spalle o fronte a canestro.

Peccato che il Profeta nigeriano quella sera fosse intrattabile: a referto scrisse 31 punti, 21 rimbalzi e 7 stoppate. Buonanotte.

Si arrivò così all’era moderna, al termine di un bordone devastante di sconfitte e illusioni.

Una quarta dimensione cestistica, subalterna rispetto allo strapotere dei Lakers: la foto migliore, per rappresentare il contrasto tra cuginastri, fu un derby durante l’epopea del miglior Shaq.

Al quale, in trasferta, declinarono l’acquisto di una sessantina di biglietti per festeggiare il compleanno: O’Neal, infuriato, si vendicò realizzando un chamberlainesco 61 (punti) e 23 (rimbalzi).

Con la sponda dell’ultimo Re David (Stern), l’arrivo (contrastatissimo) di Chris Paul ribaltò l’inerzia losangelina. Si iniziò a sognare qualcosa di completamente diverso: spostare le sfilate gialloviola dello Staples al pomeriggio e occupare le serate.

Il Pifferaio Magico, il normodotato (..) che ha maggiormente influenzato le sorti tattiche del gioco dai tempi di Isiah Thomas, fece il suo, considerando il chilometraggio.

La serie 2015 cogli Spurs campioni, forse la più bella del decennio, dimostrò il fascino e la maledizione dello spirito Clippers.

2015. Il sensazionale tiro al tabellone di Chris Paul, evitando la stoppata del grande Tim Duncan, che risolse – in Gara7 – un incredibile primo turno di playoffs tra Clippers e Spurs. Sullo sfondo, in prima fila, Steve Ballmer.

Successe di tutto, in una sfida capeggiata dai due alumni più leggendari di Wake Forest (Duncan e Paul, appunto). CP3, in perfetto stile Clips, decise una Gara7 straordinaria (che vide trentuno sorpassi nel punteggio) con una magata alla sirena, una tabellata nel traffico.

Quel pomeriggio, nel primo quarto, si era infortunato al tendine del ginocchio sinistro.

Le speranze della ciurma, potenzialmente fortissima (Blake Griffin, Jamal Crawford, Matt Barnes, DeAndre Jordan, etc.), spirarono lì.

E Sterling quell’anno dovette passare il testimone, in una vicenda – di razzismo conclamato e altro – che ci ricordava che Los Angeles, nascosta dietro le palme, le colline (verdi), le spiagge, la fama (e la fame), ha una parte oscura, nero pece.

Assicurata dal sole a picco che impedisce – a mezzogiorno – di distinguere gli uomini dai vampiri: il metaluogo pure della Process Church, adleriani dadaisti e deliranti, di David Bowie (fatto) che bruciava candele nere in una villa di Bel Air, degli snuff movie di “Less than zero” e, per tornare alla pallacanestro (?), di Jack Molinas crivellato di colpi nella sua magione di Hollywood.

E Steve Ballmer sia: un miliardario con una voglia matta di alzare lo stendardo – in faccia a quelli là – allo Staples Center.

Per la missione, possibile, i dettagli (diabolici) sono essenziali: da Glenn Doc Rivers sulla tolda di comando, rileyiano di ferro (ironia della sorte..) a gestire il combo, fino al suggerimento ai suoi, giocatori e staff, di non esibire (e usare) prodotti dell’odiata Apple.

Rimane, sotto sotto, uno anema e core Microsoft. Dietro, in punta, un trio difensivo come Kahwi Leonard, Paul George e Patrick Beverley non si vedeva da anni (i Bulls della seconda tripletta o giù di lì..).

Ma i Velieri, per la parata estiva, devono per forza conciliare le anime (discordanti) dei due quintetti: mentre PG (il miglior Two-way della lega) e il rodmanesco Montrezl Harrell potrebbero convivere, Kawhi e Sweet Lou Williams, un quattro ruote motrici delle ISO e un artista dei giochi a due, paiono troppo innamorati dello Spalding per fare legna assieme.

Se il Muto e il Mago trovano una maniera per convivere, il cielo diventa il limite.

La fantasticheria di molti, dei canali tivù generalisti e di Adam Silver soprattutto (anche se non ce lo direbbero mai..), è un bel serial losangelino di sette puntate a fine maggio: LeBron e AD contro Kahwi e PG. Vivere, vincere (un anello) e morire a L.A.