Si andava al Palazzone a vedere il Billy, la Sei Giorni, l’atletica, e le radio diffondevano una canzone.
Con una melodia e un ritmo che si appiccicavano, addosso, e non fuggivano più via: quella versione americana, ancora più tamarra, della wave radiofonica britannica, funzionava.
Il tizio che cantava e suonava il synth, Joe Carin, avrebbe fatto (ulteriore) carriera come collaboratore dei Pink Floyd parte 3: ma questa è un’altra storia.

“State of the nation” degli Industry aveva una qualità intrinseca della cultura pop, creata a tavolino dall’allora industria musicale, che ai tempi dominava la scena.
Era post moderna, quindi nascondeva la profondità sulla superficie. Il testo di quella hit poi, pare scritto oggi.
“I see them marching off to war / They’re looking so heroic / I’m told they won’t be gone for long / But that’s a lie and they know it / 10000 gone they won’t return / Never to be seen again / Strategic games is all we learn in the end..”
Era il 1984, che tutti chiamavano l’anno di Orwell. Non che Eric Arthur Blair sia mai passato di moda – “The Prisoner”, “Diamond dogs”, “V for Vendetta”.. – ma il 2025 sembra apparecchiato per lui.
Che non voleva raccontare il futuro, non era Aldous Huxley o Stanislas Lem, bensì scrivere una parodia (nero pece) di ciò che vide coi suoi occhi in Spagna e in Unione Sovietica.
Stalin e Hitler, Zdanov e Goebbels.
Non è colpa sua, se il presente sembra passato ucronico: un fallito degli anni ’80 in Amerika, un criminale medievale in Ruzzia.
Perché intanto si è materializzata, nella tasca, nella borsa, nella mano, l’invenzione più rivoluzionaria (dello stato di coscienza del singolo, della psicosfera) dai tempi della creazione (umana) di dio.
Internet usò come paziente zero dell’esperimento, della conquista del mondo, proprio l’industria musicale che fu.
L’oggetto ideale, il brand numero uno della gioventù fino a quel Tempo.
La rubarono, gliela lasciarono, la distrussero e la inserirono nel giocattolo.
Il pattern originale di ogni (loro) successo è quello.
Da lì, a Ovest, partì la rincorsa – un’accelerazione violenta, cosmica, un big bang – che porterà questo iper-oggetto, in un quarto di secolo, a mangiarsi il pianeta.
Da Napster, le cazzate sulla musica gratis, a corporazioni e oligarchi che tracciano e manipolano ogni aspetto della vita umana: economia, finanza, socialità, politica, media, arte.
L’universo totalizzante dei Marc Andreessen, il tecno fascista per eccellenza (“Crediamo nella natura, ma crediamo anche nel superamento del clima. Noi siamo i predatori all’apice della catena: i fulmini lavorano per noi..”), dell’afrikaner Elon Musk, del Dark Enlightment di Peter Thiel.
Il cui braccio è infilato nelle terga di JD Vance, il pupazzo hillbilly programmato a suon di milioni di dollari, per sorpassare (ammazzare) la democrazia e lo stato di diritto internazionale.
Da Mar-a-Lago, il Cremlino (quegli istinti, quella brutalità) è vicino.
Il 5 aprile 2025, rimanendo in tema, manifestazione pacifica – e di successo popolare – a Roma di una delle misure attive italiane più efficaci.
Riprendendo un partigiano (intellettuale), Vittorio Foa, che la guerra la fece (nella Resistenza), e che riconobbe subito (era il 2001) il legno storto, quel pubblico (giovane) aveva molto di prepolitico e mistico.
Invocava un’astrazione, voluta da (quasi) tutti, usando il linguaggio e la propaganda degli aggressori, degli inquinatori (col polonio) dei pozzi, degli assassini.
Testimoniavano, a modo loro, ottant’anni di antifascismo ridotto a un meme, a uno slogan, a sfilate, a pose vuote (e finte): quello che Leila Al-Shami definisce l’antimperialismo degli idioti.
Poiché, nella concezione (quella sì, orwelliana nella neolingua) di chi la storia la ignora, preferendo la fiction, il nazifascismo non può parlare russo e odiare l’Europa.
Il cattivo gusto si moltiplica, considerando che in quella data, 33 anni fa (nel 1992), cominciava l’assedio di Sarajevo.
Il primo sussulto post 1989 del panslavismo più feroce: bombardamenti, pulizia etnica, fosse comuni.
Otto anni prima della tragedia, a Sarajevo si svolsero le Olimpiadi invernali.
Era – di nuovo – il 1984 (che torna sempre) e c’era il torneo di hockey su ghiaccio.
Il match decisivo, come accadde spesso nel decennio precedente, fu un Cecoslovacchia-Unione Sovietica che non sapevamo avere gli anni contati.
Una partitaccia, 2 a 0 per i sovietici, noiosa, senza pathos e senza alcuni dei campionissimi degli anni ’70.
Nella Sbornaja mancava Valerij Charlamov, il Maradona dell’hockey, morto nel 1981 in un incidente d’auto.
Nella Cecoslovacchia, il goalie Jiri Holecek: sul nostro personalissimo cartellino, da fanciulli, un supereroe.
L’Uomo Ragno, Cattivik e Fakir.

Quello era il nostro hockey, l’NHL un mondo lontano visto solo in fotografia, e lo si viveva tra la RSI e TV Koper-Capodistria.
I Mondiali entravano in casa, dal tubo catodico, alla sera, offrendo uno spettacolo inedito (ed esotico).
La Sbornaja viveva la sua età dell’oro, col gruppo del CSKA, la linea d’attacco Charlamov-Petrov-Mikhailov e la successiva KLM (Krutov-Larionov-Makarov).
In porta c’era Vladislav Tretjak, un totem, dalla fisicità irreale.
Se l’URSS eseguiva con precisione e velocità aliene, la Cecoslovacchia viveva di estro e cazzimma.
La classe di Milan Novy, la leadership di Frantisek Pospisil e le parate del Fachiro.
Che era il nostro pupillo, con quella maschera tutta sua, che faceva tanto film horror.
La scena famigliare, in un piccolo appartamento dell’hinterland milanese, con un Telefunken in bianco e nero: il babbo, operaio iscritto al PCI (sezione Carlo Marx), per i “russi”; il figliolo, bastian contrario, tifava Holecek e fratelli.

Quella rivalità era uno zeitgeist, a bastoni, caschi e disco, della guerra fredda.
Abbiamo memoria di almeno una sfida, a Praga (1978, vinse 3 a 1 l’Unione Sovietica ribaltando la classifica), dove l’atmosfera – malgrado il dispiegamento di forze dell’ordine – andava oltre l’avvenimento sportivo.
Nella Sportovni hala CSTV, 15000 sugli spalti, si respiravano la rabbia, l’angoscia, il risentimento, l’odio verso l’occupazione cekista.
Lassù, in una cena delle beffe, si era passati da una dittatura all’altra e la Primavera fu stroncata sul nascere.
Partendo dall’atterraggio, all’1 e 30 di notte del 21 agosto 1968, di un aereo civile all’aeroporto di Ruzyna che trasportava cento soldati della settima aviotrasportata sovietica, in borghese, che – armati di mitra – conquistarono terminal e torre di controllo. L’operazione Danubio, 250000 militari del Patto di Varsavia, i carrarmati nel centro di Praga, sangue e merda.
Stesso bordone del dicembre 1979, all’aeroporto di Kabul, per uccidere il presidente afgano Hafizullah Amin o dell’invasione della Crimea nel febbraio 2014, con gli omini verdi, il commando Specnaz.
Se capitate in Boemia, in questi anni, troverete un po’ di russi della diaspora nei bar, tollerati il giusto dai cechi, che vi diranno come Putin consideri gli esseri umani.
Prach, polvere.
Filmato di culto che girava in rete: 2000, l’ammiraglio German Ugryumov (uno che aveva fatto e visto tutto, anche in Cecenia) viene intervistato da una tivù in occasione della sua decorazione e del relativo pensionamento.
Al vecchio lupo FSB, grasso come un tacchino americano alla vigilia del Ringraziamento, chiedono del cambio della guardia al governo.
La risposta: “Abbiamo dovuto far saltare in aria le case – a Mosca – per farlo entrare al Cremlino, quanto spargimento di sangue ci vorrà per farlo uscire di lì?”
Ugryumov sarebbe morto a fine maggio 2001 nella base militare cecena di Khankala, forse d’infarto, forse ucciso, forse suicida.
In Russia, la verità non esiste.

“Volevo vincere contro i russi, schiacciarli, distruggerli.”
Se Tretjak era la logica applicata alla forza, all’ingombro volumetrico, Holecek rappresentava l’istinto, la lettura d’anticipo, l’acrobazia.
Per lo standard di quegli anni, il Fachiro era già piccolo (1 e 80), ma applicava leggi sue al mestiere del portiere.
Si opponeva in ogni maniera ai tiri, con uno stile anticonvenzionale, distinguendosi soprattutto nelle conclusioni a distanza ravvicinata.
Un gatto.
Due incontri, dall’esito opposto, nella leggenda di quei Cecoslovacchia-Unione Sovietica.
L’oro olimpico perso negli ultimi minuti, a Innsbruck ’76, quando i sovietici rimontarono da 0 a 2, e da 2 a 3, con il gol del 4 a 3 di Charlamov.
Al villaggio, i cechi beccarono in massa l’influenza e contro la Polonia rimasero in 12 (!).
Pospisil – per giocarla – si imbottì di un medicinale che conteneva codeina e risultò positivo all’antidoping: quel 7 a 1 venne cancellato dalla competizione.
Holecek aveva definitivamente spodestato Jiri Crha dalla porta e divenne l’idolo del pubblico austriaco.
Contro l’URSS, quel pomeriggio, parò l’impossibile.
Due mesi dopo, a Katowice, la rivincita ai Mondiali, i primissimi ad ammettere i professionisti.
Nel girone, batterono 3 a 2 la Sbornaja e chiusero imbattuti la competizione: 9 vittorie, 1 pareggio, un mostruoso + 53 nella differenza segnature e 2 clean sheet.
Holecek fu premiato miglior goalie della manifestazione, per la quarta volta: la quinta arrivò nel 1978.
La Cecoslovacchia con lui, nell’epoca della più forte Unione Sovietica di sempre, aveva vinto tre titoli iridati (1972, 1976, 1977).
Fu il primo estremo difensore ad aggiudicarsi lo Zlata’ hokejica, come giocatore dell’anno nella lega cecoslovacca di prima divisione.
Si, a dispetto della fama dell’altro, Holecek era meglio di Tretjak.
“Holecek is the best goalie in the world – better than Tretjak, Drydent or Parent.” (Bobby Hull)
“La distruzione del linguaggio è la premessa a ogni futura distruzione.” (Tullio De Mauro)
Sulla piattaforma che ingloba la razza umana, una Villings che Big Tech ci collega direttamente nell’ippocampo, da Est la Ruzzia – da metà anni Zero – implementa la guerra ibrida e comincia a giocare a scacchi.
Su un iper-oggetto nato per le comunicazioni militari, bombarda di fattoidi e misure attive l’Europa, attraverso la politica energetica, poi trova la sponda atlantica coi tecno fascisti e il personaggio yankee più improbabile e clownesco del Greed Is Good.
Scacco matto?
Sarebbe persino troppo per una novella distopica, di fantascienza, l’etichetta incollata da una critica ipovedente (senza nostalgia del futuro), dei Bioy Casares, Huxley, Lem, Junger, Le Cain, Dick.
Pensare che la molotov della guerra civile americana sia stato quel palazzinaro scemo, il figlio che il padre Fred mandava a riscuotere gli affitti casa per casa, per non farlo entrare negli uffici amministrativi, egocentrico, corrotto, che di Chapter 11 fa 4,6 miliardi di dollari. Un venditore ambulante (definizione di Ed Koch), sei bancarotte, l’idiocracy e un culto della personalità alla Jim Jones.
Senza infernet, niente Krasnov e Putler, nessun circuito virale del patrimonialismo e della post verità.
Che ha una propagazione identica a quella di una neoplasia nel corpo.
L’Italia, un paese culturalmente allo sbando, è la nazione occidentale più esposta a Sputnik.
Abbiamo vecchi baroni ellenisti che inneggiano allo stalinismo e ripetono le veline del Cremlino, al pari di un celeberrimo divulgatore medievalista (un mini Le Goff che tende al Mastrotta) che sul conflitto in Ucraina è uno sparaballe.
Lo stato della nazione è decadente: un palinsesto continuo, un’apericena dove gli storici disconoscono la storia, i cantanti stonati vincono Sanremo e le alluvioni sono colpa dei “verdi”.
Qui, postumi in vita del berlusconismo (e dell’antiberlusconismo: un epifenomeno da baraccone che fu anche vetrina di morti di fama), altrove, nella Mitteleuropa orientale dai confini che implodono e si mescolano (schiacciati dalla Storia), si produce altro e alto. Un film cyberpunk come “Don’t expect too much from the end of the world” di Radu Jude, un romanzo collettivo come “Ore di piombo”.
Radka Denemarkova’ ha forse scritto la novella di questo Tempo strappato, poiché un’intellettuale ceca – con quella cultura secolarizzata da avvenimenti tellurici, tragici – riconosce meglio i segnali di un cambio epocale.
La Cina, il secolo che si appresta a tracciare (a dirigere e digerire), il pensiero europeo, l’Occidente consumato e sfinito, il terrorismo (delatorio) di stato e un sistema cleptocratico.
Quando il furto e la forza diventano patrimonio collettivo, il sapere ergonomico, il lavoro culturale, mutano nella solitudine delle minoranze.

Jiri Holecek crebbe nel quartiere praghese di Vinohrady, da una famiglia povera in canna.
Papà Holecek (metalmeccanico alla CKD, che produceva veicoli ferroviari e armi) allenava i ragazzini del Bohemians di calcio: scoprì anche (un certo) Antonin Panenka.
Jiri giocava in quella squadra, ma durante la pausa invernale si dava all’hockey, nello Slavia Praga.
A football era un attaccante, sul ghiaccio scelse mazza, guantone e paragambe.
Il suo modello Bohumil Modry, il primissimo grande portiere della scuola cecoslovacca: un’altra storia drammatica, kafkiana.
Holecek lo osservava da vicino, in allenamento, a Stvanice, ne fotografò le movenze, i trucchi.
Boza era appena uscito dalla prigione di Pilsen, dopo un processo sommario (nel marzo 1950), le torture nel carcere di Pankrac e i lavori forzati a Jachymov, in una miniera d’uranio radioattivo.
Modry – che negli anni ’40 veniva considerato il più forte goalie europeo – è stata una delle vittime più celebri della paranoia del regime comunista ceco, dopo la seconda guerra mondiale.
Nel 1963, Holecek fece il servizio militare e arrivò al Dukla Kosice, che un anno dopo venne promosso nella massima serie.
Jiri giocò senza maschera fino a 18 anni.
Si inventarono la protezione – con quel disegno originale – prendendo il calco del suo viso, col gesso, in uno studio dentistico della Moravia.
La maschera, senza casco, durava un paio di stagioni, prima di consumarsi (e spaccarsi) a forza di puck presi in faccia (..).
Dopo i (pessimi) Mondiali del ’67, il Fachiro venne escluso dalla nazionale.
Il suo ritorno, nel 1971, fu trionfale.
Nel 1973, Holecek si trasferì allo Sparta Praga: allo zenit, i Chicago Blackhawks offrirono a Fakir un contratto milionario per portarlo in NHL.
Avrebbe dovuto lasciare, per sempre, la Boemia, e non se la sentì: a Praga c’erano la moglie e due figli.
Con la maglia della Cecoslovacchia finisce nel ’78 e dopo 161 partite; chiude la carriera di club, tre anni più tardi, in Germania (Ovest).
Il Fachiro oggi ha 81 anni ed è, a rivederlo e leggerlo tra tivù e interviste amarcord, un adorabile vegliardo, sorridente, ironico.
Si è fatto crescere i baffi, fuma la pipa e dice di preferire l’hockey in televisione, in pantofole, a quello che vede nei palasport: “Così, se la partita non ne vale la pena, spengo.”
“Finiscono di tenere la loro lezione, a scuola o in università, poi escono e se ne vanno a votare gli odierni Hitler.” (Radka Denemarkova’)
All’incipit di questo secolo, che si annunciava mostruoso (tra Columbine, Grozny e l’11 settembre), con l’amico di una vita, una testa d’uovo bellissima, si discuteva quale fosse il libro del Novecento.
La testimonianza che lo rappresentasse al meglio, nella sua carne: noi proponevamo il “Voyage” di Céline, lui “Vita e destino” di Grossman.
Entrambi quei manoscritti, colossali, sono invecchiati benissimo: i classici non sfidano il Tempo, lo aggiornano.
Grossman morì senza sapere che quel romanzo, impubblicabile in Unione Sovietica, lo sarebbe diventato.
Ci comunica il dramma personale di un intellettuale, comunista, ebreo, ucraino, che vide una speranza, un sogno, solidificati in un genocidio, un incubo.
Il socialismo reale era speculare al nazismo: a Stalingrado si massacravano ideologie (barbare) allo specchio, alimentate a propaganda e repressione.
Vasilij vergava di campi di concentramento tedeschi, di gulag sovietici, del ’37 delle purghe, di razzismo e antisemitismo, di milioni di persone triturate da questa Storia.
Il (suo) senso di colpa, dell’essere ancora vivi con la morte intorno, era simile a quello di Jozef Czapski.
“La terra inumana” è il diario di un’anabasi, un’odissea, la sua e quella dei polacchi deportati, uccisi, prima da Hitler e poi da Stalin.
Czapski assistette, incredulo, alle violenze staliniste nell’ex monastero di Grjazovec, alla morte indifferente (programmata) delle minoranze etniche sparse in quella enorme “nieludzka ziemia”, dove “l’uomo non conta nulla”.
Cosmopolacco (..), pittore, scrittore, cultore della poesia russa, soldato, seguì la traccia infinita, di sangue e delazioni e depistaggi, del massacro di Katyn.
Uno degli abissi più profondi del secolo breve, lo sterminio di un’intera classe dirigente, dal quale Czapski si salvò per caso e caos: lui che era nato a Praga, madre austriaca, non in Polonia.
Tornando a Orwell, il romanziere inglese lesse Czapski, le sue inchieste, nel 1944: in “Animal farm” e “1984” ci sono retroazioni di quei report.
Tornando in Italia, uno dei medici legali che riconobbe i corpi ammassati nelle fosse a Katyn, ventiduemila persone (medici, politici, scienziati, avvocati, professori), era Vincenzo Mario Palmieri.
Fu anche sindaco di Napoli, per pochi mesi, e scontò decenni di diffamazione e intimidazioni da parte dell’enclave PCI.
Perché non si poteva dubitare del “sol dell’avvenire” e delle sue azioni.
Eoni dopo, alcuni giornalisti si sono scandalizzati quando Radu Jude, discorrendo di andrewtate, alienazione digitale, ruscismo, è risalito a Dostoevskij come a una delle mosche cocchiere del fascismo slavo.
Avere cultura significa distinguere, analizzare, opera (letteraria, pittorica, musicale..) e autore.
Non si può negare il genio di Louis Ferdinand Detouches, nemmeno che fosse antisemita e collaborazionista: perché questa analisi non dovrebbe valere per i russi?
Il doppio standard funziona solo sul senso di colpa occidentale?
A ogni giro della ruota, tecnica e tecnologia sono sempre più invasive e annichilenti: la cultura avrebbe la funzione salvifica d’impedire la ripetizione (pornografica) degli stessi errori, capitali.